Officinae Giugno 2015

Ogni scelta implica una rinuncia, ogni rinuncia implica dolore. Il seme per diventare pianta deve abbandonare il cielo, dimenticare la luce e consegnarsi alla terra. Qui, nel buio totale, nel silenzio assoluto, deve ascoltarsi, scomporsi, per ricomporsi di nuovo, ripiegarsi su se stesso per ritrovarsi e – con fatica – individuare la via che dal basso porta verso l’alto. Nel processo di dissoluzione, il seme diventa parte di un tutto che gli riconsegnerà la propria individualità e gli permetterà di generare, attraverso una morte apparente, nuova vita. Nigredo, l’Opera in nero, la prima fase del processo alchemico, volto a ottenere il Lapis philosoforum, la Pietra mercuriale del nous primigenio. Mai processo di trasformazione, di crescita, di miglioramento fu meglio rappresentato di quello raffigurato dalle fasi dell’Ars Regia. Se ne servirono generazioni di iniziati, pronti a tentare una via di conoscenza che andasse oltre gli orizzonti della scienza, la coltivarono spiriti inquieti ai quali ogni risposta sembrava mutila e, infine, l’esaminarono gli studiosi della profondità della psiche, per meglio indagare sulle dinamiche dell’inconscio. La Nigredo, per un Libero Muratore, si compie nel chiuso del Gabinetto di riflessione. “Fra le sue pareti […] evaporano i falsi pensieri, si decompongono le false preoccupazioni, lo spirito si spoglia delle illusioni, si libera dell’effimero per ri-comprendere l’essenzialità della vita attraverso un processo di autoanalisi e di rimozione che consente un’espansione della coscienza”. In seguito l’iniziato conoscerà la Fontana mercuriale, l’Albedo e la Rubedo; tuttavia, se l’Opera in nero non sarà compiuta fino in fondo, se non avverrà quella discesa nelle profondità dell’Interiora Terrae, non perverrà mai all’Occultum Lapidem. Per questo motivo la redazione di Officinae ha ritenuto opportuno dedicare le immagini di copertina per l’anno in corso alle fasi alchemiche a iniziare proprio dalla prima, forse la più inquietante ed essenziale: la Nigredo. D’altra parte qual è il segreto del Libero Muratore e della sua Arte, se non la capacità di esaminare, verificare, misurare ciò che ha realizzato? Eternamente accompagnato dal dubbio e dal motto socratico “so di non sapere”, l’illuminato è colui che prima di giudicare gli altri soppesa se stesso, individua l’errore commesso, apprende e con umiltà inizia di nuovo il cammino. Maestro è colui che sa rivivere – in ogni momento del proprio percorso – il vissuto dell’iniziazione e non dimentica mai il testamento che vergò in uno spazio chiuso, con la volontà e il desiderio di diventare un uomo nuovo, “rifatto sì come piante novelle / rinnovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire alle stelle”. Questo numero doppio di Officinae, dedicato alla Nigredo, desidera, come al solito, essere un buon compagno di viaggio per gli argonauti dello spirito e, come è tradizione della rivista, propone loro un ampio ventaglio di articoli, considerazioni, recensioni, notizie che spaziano dalla storia, all’antropologia, dal simbolismo al ritualismo. La Redazione e gli Autori augurano una buona lettura e sperano che il loro lavoro sia come “i gigli” “al cui odor si prese il buon cammino”.

Nigredo – di L.Pruneti
Siate Maestri. Le dittature possono rompere le penne; bruciare i libri, ma non possono impedire alla mente umana di pensare, di conoscere, il desiderio di interrogarsi. I fondamentalismi di tutte le religioni non temono eserciti, né bombe, né altre armi perché gli uni, e le altre, si possono combattere. Temono, invece, la scuola e l’educazione perché aprono la mente delle persone promuovendo il senso critico. L’educazione deve essere rivolta prima e soprattutto alle donne; non per galanteria, non per spirito cavalleresco, ma per un motivo estremamente logico: le donne sono quelle che alleveranno e – quindi – educheranno i figli del futuro. Una donna non educata non può educare. I Maestri non hanno solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma soprattutto una grande storia da costruire. Guardare al passato con gratitudine: ritornare al carisma dei fondatori, rivisitando alla luce del presente vissuto con passione. Abbracciare il futuro con speranza, non fondata sui numeri, ma sulle opere. Siate come le sentinelle che vegliano di notte e sanno quando arriva l’aurora. Siate cioè capaci di scrutare la Storia, ma anche capaci di costruire ponti che uniscano diverse culture per rendere serena la convivenza annullando la sopraffazione sui più deboli, le diseguaglianze, dedicando una particolare attenzione agli esclusi e ai “vinti”. Offrire un modello di comunità che permetta di vivere rapporti fraterni attraverso il riconoscimento della dignità di ogni persona e della condizione del dono di cui ognuno è portatore. Siate Fratelli autentici! Nella nostra Comunione cessino, pertanto, di avere diritto di cittadinanza critiche, pettegolezzi, invidie, gelosie, atteggiamenti antagonistici. Siate allora disposti a morire al vizio, perché, se c’è un raccolto, è soltanto perché il chicco di grano si immola nella terra madre. Siate sempre ricolmi di gioia. Anche quando occorre seminare nelle lacrime. Siate sempre saldi negli affetti, perché è l’amore che edifica la pace. Necessaria, imprescindibile, perché nella pace tutto diventa possibile, anche l’irreparabile. Nella pace, tutto diventa chiaro. Anche la trama nascosta della realtà più forte di quella manifesta. Chiari diverranno, infine, i confini dell’anima, pur restando insondabile nella sua profondità. Buon lavoro, dilettissime Sorelle e carissimi Fratelli! Che la creatività di ciascuno diventi feconda a partire dalla propria libertà!

Guardare al passato con gratitudine. Abbracciare il futuro con speranza. – di Antonio Binni

Il 1925 – di Aldo Alessandro Mola
Che cosa accadde dei massoni italiani dopo il forzato scioglimento delle loro Comunità nel novembre 1925? A distanza di novant’anni è una storia ancora da scrivere. Disponiamo di qualche tessera di un mosaico frammentario, ma siamo lontanissimi da una visione d’insieme e documentata. Negli Annales. Gran Loggia d’Italia, 1908-2012 all’arco di anni tra il 1926 e il 1942 Luigi Pruneti dedica 15 delle oltre 350 pagine della Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale con eventi quasi esclusivamente esteri: e non certo per negligenza, ma perché, appunto, si tratta di terreno quasi inesplorato. Tra le poche figure emergenti rimangono Giovanni Nalbone (a favore del quale si prodigò Roberto Farinacci) ed Ettore Busan, che resse la loggia clandestina “Umanità e Progresso”, nel 1935 venne accolto alla Conferenza di Bruxelles dei Supremi Consigli scozzesisti e alla morte designò successore Tito Signorelli. D’altronde, va ricordato, che a differenza degli antifascisti militanti in partiti politici e dei cattolici, i pochi Massoni rimasti attivi in Italia non avevano alcuna “internazionale” di copertura né potevano trovar riparo alla Biblioteca Vaticana, come venne assicurato ad Alcide De Gasperi. Chi non aveva rendite o libere professioni sufficientemente remunerative, dovette fare i conti con la quotidianità e dissimulare per conservare impiego e stipendio. Dopo le “leggi fascistissime” e il plebiscito del 1929, quando quasi il 90% dei votanti si schierò a favore del regime, non rimaneva che sopravvivere. Perciò è doppiamente meritoria l’opera di Antonino Zarcone, Domenico Maiocco. Lo sconosciuto messaggero del colpo di stato (Roma, Ed. Annales, 2015) con introduzione di Luigi Pruneti. Da un canto documenta vita e opere del biografato (Cuorgné, Torino, 13 giugno 1893-Roma, 17 maggio 1969), “antifascista, socialista e massone che non ha mai mutato atteggiamento” e ne illustra bene la maggiore impresa, la fondazione della Massoneria Italiana Unificata (1943 e seguenti) e i riconoscimenti che gli furono tributati dal Supremo Consiglio della Giurisdizione Sud degli Stati Uniti d’America, reiterati nel tempo; dall’altro, carte inedite alla mano, esplora il reticolo di relazioni che Maiocco seppe intrattenere negli anni bui sia con gerarchi del regime (per es. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon), sia con ambienti di corte e sia, infine, con antifascisti intransigenti. In un Rapporto sinora inedito della Direzione Generale Affari Generali e Riservati del Ministero dell’Interno, sotto la data del 21 giugno 1945, il Capo della polizia informò il ministro sullo stato delle undici “famiglie massoniche” operanti. Dopo il Grande Oriente d’Italia, la seconda era appunto il “Gruppo Maiocco”, “tendenzialmente monarchico, numeroso […] conta parecchi ufficiali fra i quali molti dei Carabinieri, della Marina e dell’Aeronautica” con sede in via Fornovo, “nel piano superiore all’ex sede del disciolto Partito Unione Proletaria”. Maiocco – vi si legge – “si identifica(va) per il noto socialista, ex confinato politico […] assegnato al confino di polizia per anni 5, per aver svolto attività in contrasto con gli ordinamenti politici dello stato fascista, facendosi promotore di un movimento social-massonico”. La sua vicenda fa riflettere sul drammatico “passaggio” dalla liberaldemocrazia al “partito unico” nel cui ambito la persecuzione della Massoneria rimane sottovalutato dalla storiografia. In sintesi, la Massoneria in Italia non fu mai stata così prestigiosa come negli anni dall’intervento nella Grande Guerra, il 24 maggio 1915, alla Vittoria del 4 novembre 1918. Entrambe le Comunioni maggiori del Paese, la Gran Loggia d’Italia (da 5 a 8.000 effettivi) e il Grande Oriente (25.000), scambiarono messaggi ufficiali con il Sovrano. Avevano tra le colonne uomini politici, militari illustri, magistrati, alte cariche dello Stato, docenti, grandi industriali, una folla di cittadini che dirozzavano la pietra per costruire l’Italia e la fratellanza tra i popoli. Tutti i governi che si susseguirono dal 1918 ebbero ministri massoni. Ne contò anche quello dal 31 ottobre 1922 presieduto dal trentanovenne Benito Mussolini: per esempio il duca Giovanni Colonna di Cesarò e il sottosegretario all’Istruzione pubblica (poi ministro), Dario Lupi, che ideò e orchestrò il culto dei Caduti coinvolgendo le scolaresche e le famiglie di tutto il Paese. A metà febbraio del 1923 il Gran Consiglio del Partito nazionale fascista votò l’incompatibilità tra Logge e partito. Ma che cos’era quel consesso? Un “circolo privato” che si radunò nell’albergo ove aveva stanza Mussolini. Il PNF scimmiottò la Massoneria: si appropriò del Natale di Roma, della datazione, dei “fasci” stessi, che, senza risalire ai Consoli e ai Cesari, erano stati rialzati in Italia nell’età franco-napoleonica e, dopo l’Unità, da garibaldini e democratici, proprio per contrapporre la Roma Eterna a quella dei Papi. Il “fascio” intendeva unire, “legare”, esprimere la forza di chi sa mettere da parte le fazioni in nome della legge suprema: salus Patriae. Le persone colte, inclusi i massoni, che erano d’indole mite, ebbero il torto storico di non dare gran peso alle smargiassate di Mussolini. In fondo, pensarono, presiedeva un governo di unità nazionale comprendente tutti i costituzionali, incluso il Partito popolare italiano che aveva al governo un paio di ministri e sottosegretari come Giovanni Gronchi, futuro presidente della Repubblica. La storia, però, aveva imboccato una deriva pericolosa. Di mese in mese le libertà furono soffocate. La legge elettorale propugnata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, decise che i 2/3 dei seggi sarebbero andati al partito che avesse ottenuto il 25% dei voti. Il PNF varò il “listone nazionale”, comprendente fascisti, nazionalisti, cattolici, liberali, democratici, socialisti riformisti. Stravinse. Ottenne il 66% dei suffragi. Non rubò alcun seggio. Ma passò subito all’incasso, schiacciando gli avversari, a cominciare dai fascisti dissidenti, quelli della prima ora (molti massoni), che avevano creduto nel programma originario d’impianto laico e liberista. Il vero nodo, che è di filosofia politica, rimaneva irrisolto. Il Risorgimento, l’unificazione, le grandi riforme del passato (alfabetizzazione, sanità, codice civile e penale, completo di abolizione della pena di morte, tutto il progresso, insomma) e quelle ora in cantiere (la partecipazione delle maestranze agli utili d’impresa, la terra ai contadini…) avevano avuto e avevano un’anima massonica. Il PNF non poteva tollerare quella “concorrenza”. Secondo Mussolini non ci potevano essere “due Italie”: la fascista, torvamente totalitaria, e quella massonica, maestra della libertà. Il duce ebbe il pieno sostegno della Chiesa cattolica, subito appagata con due colpi da maestro: il salvataggio del vacillante Banco di Roma e l’obbligo del crocifisso nelle aule scolastiche, primo passo sulla strada del Concordato dell’11 febbraio 1929. Di mezzo vi fu la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad “Associazioni”: un testo neutro, apparentemente innocuo e persino plausibile. Vi si diceva che nessun dipendente dello Stato o di enti pubblici può far parte di società “segrete”. Già. Ma chi stabiliva se, come e quando un sodalizio è “segreto”? Il testo non lo disse, ma la discussione in Aula chiarì il suo vero bersaglio: la Massoneria. Il Grande Oriente subito e la Gran Loggia dopo qualche tentativo di compromesso decisero di chiudere i lavori di loggia per non esporre gli affiliati alla persecuzione. In pochi anni, l’Ordine iniziatico della Terza Italia venne oscurato. Ma quale fu la sorte dei massoni? La documentazione che via via affiora ci dice tre cose. In primo luogo per superare le maggiori difficoltà anche Mussolini dovette rivolgersi a massoni insigni (bastino tra i molti i nomi del ministro Giuseppe Belluzzo e di Alberto Beneduce), che scelsero di servire non il duce ma la Patria. In secondo luogo la Scuola pubblica conservò la dignità e la sua tradizione con Giovanni Gentile e il suo successore, Balbino Giuliano, massone di antica data. Infine, proprio nel lungo silenzio imposto dallo scioglimento delle logge molti massoni conservarono, anzi in molti casi trovarono, la via dell’iniziatismo dopo decenni di politicizzazione dei lavori di officina. La dittatura durò poco più di quindici anni (1927-1943). Molti massoni operarono in forma carsica, in Italia e all’estero. Con la Liberazione tutto fu più chiaro di quanto era stato in passato: l’Italia è un Paese dell’Occidente, contro ogni forma d’integralismo e di fondamentalismo, un Paese di Libertà, che affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella tradizione sapienziale dell’antichità. Ne furono segnali l’ingresso nella Gran Loggia d’Italia di personalità insospettabili, proprio dopo la “sentenza” del Gran Consiglio che dettò l’incompatibilità e malgrado il Codice di Diritto Canonico che nel 1917 ribadì la scomunica dei massoni “latae sententiae”. A bussare alla porta del Tempio della Gran Loggia d’Italia furono, per esempio, Edmondo Rossoni, massimo sindacalista del fascismo, e Curzio Malaparte. È una vicenda da ricostruire documenti alla mano, con attenzione per il contesto storico vero, al di là delle “narrazioni” di comodo. La militanza coatta (“credere, obbedire, combattere”, “il duce ha sempre ragione” e altre forme di fanatismo, per altro speculari a quelle vigenti nell’URSS, nella Germania hitleriana e poi nella Spagna di Francisco Franco) imposero una disciplina di facciata e fecero sentire più acuto il ritorno all’Ordine, quello che nasce dall’educazione interiore. La biografia di Domenico Maiocco scritta da Zarcone, già Capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, è sotto questo profilo davvero esemplare: rompighiaccio per una esplorazione sistematica del “ventennio” durante il quale i massoni furono ancora una volta costretti alla clandestinità in un Paese, quale l’Italia, ove furono e sono poco e male conosciuti, mai riconosciuti. Domenico Maiocco e i giolittiani piemontesi. La “democrazia laburista”, incontro tra liberali e socialisti. Inediti sull’ascesa del regime. Il 16 agosto 1917 il ventiquattrenne Domenico Maiocco scrisse a Giovanni Giolitti, in vacanza a Bardonecchia, “commosso” dal discorso pronunciato dal settantacinquenne statista al Consiglio provinciale di Cuneo: “Le vostre parole sono uno sprazzo di luce nelle tenebre; sono un programma positivo di riedificazione sociale in un caos di distruzione e di annientamento di ogni valore materiale ed umano […] Eccovi il braccio di un modesto giovane ufficiale degli alpini, attualmente in convalescenza per malattia contratta al fronte. Eccovi un braccio pronto a colpire il male dovunque sia, eccovi un petto provato al fuoco nemico, pronto a esporsi al sacrificio purché la redenzione del popolo avvenga e sia duratura […]. Non è l’offerta di un esaltato. Questa è la parola che sgorga da un cuore che ha sofferto tanto, che ha patito ad oncia ad oncia l’orrore della guerra provata, l’ingiustizia dell’attuale sistema sociale. È la determinazione di una volontà decisa, di un braccio che cerca un capo! Ditemi una parola, Eccellenza […]”. Non conosciamo se e come Giolitti abbia risposto; sappiamo però che soleva riscontrare ogni lettera anche quand’era presidente del Governo. Relegato a Cavour da quando l’Italia era entrata nella fornace ardente della Grande Guerra, lo statista riordinava carte e riscontrava le ormai poche lettere in arrivo: una corrispondenza filtrata dalla censura, tanto più dopo l’insurrezione torinese dell’agosto 1917, cui il governo rispose proclamando lo stato di guerra in Piemonte (con la sola eccezione della provincia di Cuneo, residenza estiva dei Savoia). Dopo l’apprendistato di ufficiale di complemento, il giovane Maiocco intraprese dunque un secondo percorso: la militanza volontaria per il rinnovamento civile del Paese. È probabile che nei mesi successivi abbia scritto anche a giolittiani piemontesi di spicco, come Marcello Soleri, deputato dal 1913, volontario nel 1915 nel corpo degli Alpini e ferito gravemente in guerra, il 16 novembre 1919 rieletto deputato con Giolitti e Camillo Peano nelle votazioni che segnarono il tracollo dei liberaldemocratici in Piemonte e nella roccaforte che sembrava imprendibile, il Cuneese. Da lettere sinora inedite consta che già il 30 agosto 1919 Giolitti mise in guardia Soleri da Bardonecchia sui rischi cui i liberali andavano incontro: “Ciò che sarebbe un grave errore è il ritardare le elezioni. A novembre nevica e mancherebbe il voto dei molti elettori di montagna che sono i più sicuri. A mio avviso non si dovrebbe andare al di là del 9 novembre, se no le elezioni sono nelle mani delle sole città”. Il 4 settembre da Roma Soleri, su carta di Sottosegretario alla Marina, avvertì Giolitti che, “data tutta la preparazione ancora da farsi”, Nitti riteneva difficile fissare le votazioni il 16 novembre: “Più facile e quasi certo il 23”. Con la nuova legge elettorale, fortemente voluta da Nitti, dai cattolici (nel gennaio 1919 organizzati nel Partito popolare italiano) e dai socialisti, l’elezione dei deputati in collegi uninominali, a doppio turno, in vigore dal 1848, era stata sostituta col riparto proporzionale dei seggi in 54 collegi (quasi tutti corrispondenti alle province dell’epoca). La legge (secondo il suggerimento del giolittiano Camillo Peano) previde che le liste potessero contenere un numero di candidati inferiore a quello dei seggi in lizza, per consentire ai votanti di aggiungere sulla scheda nomi di partiti diversi ma non “nemici”: il panachage (screziatura), utilizzato in altri Paesi per favorire convergenze tra forze affini. La correzione del proporzionale puro era una piccola replica del “patto Gentiloni”, cioè della tacita alleanza tra liberali moderati e cattolici e, per altri versi, dei “blocchi popolari” di primo Novecento, cioè dell’assemblaggio tra liberali progressisti, radicali e socialriformisti o democratici, radicali…, la convergenza dei “costituzionali”, malgrado diversità originarie e sfumature ideologiche, contro massimalisti ed estremisti. In ogni collegio la legge elettorale attivò caleidoscopiche alchimie per formare le liste, anche col solito ricorso alla nomina a senatori (attuata o promessa) di ex deputati disposti a lasciare un seggio sicuro per innovare la rappresentanza. Il carteggio tra Soleri e Giolitti documenta la complessità della preparazione al voto dei liberali, che, a differenza di cattolici e socialisti, non contavano su un’organizzazione partitica compatta e militante, fiancheggiata da organizzazioni sindacali altrettanto sperimentate. Il 6 settembre 1919, dinnanzi alla decisione del partito popolare di schierare nel Collegio di Cuneo 11 candidati per dodici seggi, Soleri scrisse a Giolitti che i liberali dovevano fare altrettanto, presentando, tra altri, l’avvocato Egidio Fazio, di Ceva, “già candidato con larga base nel collegio più numeroso della Provincia”, che stava lamentando l’inerzia del suo partito e il 10 settembre quasi intimava a Soleri: “Ho assolutamente bisogno di vederci chiaro”. Per i giolittiani l’esito delle votazioni fu peggiore delle previsioni più pessimistiche: ottennero appena tre seggi su dodici, contro i quattro dei popolari (guidati da Felice Bertolino, acceso antigiolittiano, e da Giovanni Battista Bertone), quattro socialisti e un “agrario”, sorretto anche dai pochi voti di fascisti capitanati dall’ex ministro Tancredi Galimberti, proprietario dell’influente quotidiano “La Sentinella delle Alpi”. Per di più, tra voti di lista e preferenze assegnategli dai liberali, Bertone ottenne più voti di Giolitti: il panachage funzionò a senso unico, a tutto vantaggio dei popolari. Per Giolitti, eletto con Soleri e Peano, fu uno smacco pesante, politico e personale. Il programma enunciato nel discorso di Dronero del 12 ottobre, rimase in sordina. Sconfitto nella provincia che aveva dominato per quasi quarant’anni, avrebbe ancora primeggiato a Roma? Vi riuscì, nel 1920, tanto da tornare a capo del governo, per gli errori del presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, e per il logoramento degli altri maggiorenti liberali (Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando, Paolo Boselli, Sidney Sonnino…), tutti diminuiti dal magro bottino della Grande Guerra: la “vittoria mutilata”. Non disponiamo, per ora, di corrispondenza tra Domenico Maiocco e i notabili liberali piemontesi, con riferimento alle elezioni del 15 maggio 1921, quando, da un anno al governo ma a legge elettorale invariata, Giolitti volle il rinnovo della Camera. Il fronte costituzionale raccolse circa mezzo milione di voti in più: con i collegi uninominali i liberaldemocratici ne sarebbero usciti vittoriosi, ma con la legge vigente il risultato parlamentare fu complessivamente deludente. Nella sua provincia Giolitti ottenne sì un seggio in più (egli stesso, Soleri, Peano e Fazio), contro quattro popolari, tre socialisti e un comunista, ma sul piano nazionale i rapporti di forze rimasero pressoché immutati, con la variante peggiorativa dell’ingresso di 11 nazionalisti, 25 fascisti tutti eletti, tranne Alberto De Stefani, da variegati “blocchi nazionali”, e 15 comunisti, mentre i costituzionali risultarono frantumati in gruppi dalle diverse denominazioni, con forte caratterizzazione regionale e divaricazioni programmatiche. A quel punto, continuare a battersi sul versante liberaldemocratico o socialista riformista significava accettare di rimanere su una posizione minoritaria a tempo indeterminato. Fu la scelta dei giolittiani e di Domenico Maiocco, che, oltretutto, nel 1923 si fece iniziare nella loggia “Verità e Fede” di Alessandria proprio dopo la dichiarazione di ostilità antimassonica da parte del Partito nazionale fascista, che, numeri a parte, era la principale forza di governo, giacché il presidente del Consiglio, Mussolini, aveva in pugno gli Esteri e l’Interno, coadiuvato dal sottosegretario Aldo Finzi, ovvero la
“macchina” per preparare nuove elezioni (prefetti, questori, pubblica sicurezza…). Se ne constatò l’efficacia nelle elezioni del 6 aprile 1924, svolte con la legge maggioritaria, che assegnava due terzi dei seggi al partito che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti. La Lista Nazionale in cui confluirono fascisti (nelle cui file già erano entrati i nazionalisti), ex liberali, popolari, democratici e riformisti, anche senza tessera del partito, ottenne oltre il 65% dei consensi e quindi un numero di seggi proporzionale ai consensi. In tutto il Piemonte i liberali si ridussero a tre soli, esclusivamente cuneesi: Giolitti, Soleri e Fazio. Il 25 aprile 1924 Giolitti scrisse a quest’ultimo: “La sua riuscita, alla quale tenevo molto, è stata per me un vero conforto delle dolorose perdite che il partito liberale ha subito. La nostra provincia ha resistito in modo ammirevole di fronte ai gravi assalti di ogni specie e alle defezioni, molte delle quali veramente non prevedibili. Ora importa mantenere compatta l’organizzazione liberale, che potrà e dovrà ancora rendere preziosi servizi.” Lo statista era e rimase convinto che fosse possibile ribaltare il governo in Aula, dar vita a una nuova maggioranza (i deputati iscritti al PNF, e molti solo di recente, erano appena 227 su 535), ripristinare i collegi uninominali e tornare alle urne. Il 26 aprile lamentò a Soleri il costo della politica, cioè la quota addebitatagli per la campagna elettorale: “Ho ricevuto il conto e te ne ringrazio. Non nascondo che la somma mi disturba un po’, perché io non sono in condizioni così floride come si può vedere. La politica per me è stata una pessima speculazione […]”. Tuttavia nel 1925 versò duemila lire a sostegno del quotidiano liberale cuneese “Il Subalpino”. Un mannello di lettere sopravvissuto alla dispersione documenta quanto fosse fitto lo scambio epistolare tra Domenico Maiocco e Marcello Soleri all’indomani della “legge contro la Massoneria” del novembre 1925 e delle altre leggi “fascistissime”. Il 3 febbraio 1927, mentre sollecitava risposta a una lettera precedente, Maiocco informò Soleri che il “quotidiano genovese” (“Il Lavoro”, NdA) avrebbe ripreso le pubblicazioni dal 9 seguente. Il 12, appena rientrato da Londra, in risposta anche a una sua cartolina, Maiocco mandò a Soleri un messaggio grondante di simboli: “Eccellenza, […], è vero: le rose sono sbocciate ma assai irte si spine… Queste, per altro, potrebbero anche costituire una buona difesa contro i troppo avidi raccoglitori che, a quanto pare, avrebbero voluto e vorrebbero che i fiori fossero senza spine per non pungersi le mani…! La rivedrei molto volentieri, Eccellenza, anche qui in Alessandria, se Ella avesse occasione di passare da qui, dove sarei lietissimo di averLa a colazione o a pranzo a casa mia. Eventualmente, senza mio disturbo, c’è anche da dormire. Mi voglia bene”. Il 23 febbraio, in risposta a una lettera di Soleri del giorno precedente, Maiocco aggiunse. “Effettivamente l’apparenza delle vicende giustifica il Suo apprezzamento: ma la sostanza di cui le cose sono permeate, sostanza che a ragion veduta è tenuta ancora – e lo sarà per qualche tempo – riservata, è tutta favorevole alle nostre previsioni. Le comunico che proprio in questi giorni ho ricevuto conferma che, certo lentamente, la marcia verso sinistra, checché debba accadere, accadrà. Ma a voce potrò dirle cose veramente confortevoli. Non si impressioni se la libertà, ecc. non c’è ancora. Non dimentichiamo che veramente ora con la creazione dello Stato corporativo, si inizia un vero movimento rivoluzionario e che nelle fasi di trapasso dal vecchio al nuovo – in tutte le rivoluzioni – si è sempre fatto credito alla dittatura. La libertà potrebbe e dovrebbe essere una conseguenza … non una premessa del noto movimento. Non so se rendo l’idea. Nel ritorno da Roma veda se può fermarsi una sera da me”. Il 27 febbraio da Cuneo Soleri rispose: “Gentile Dr. Maiocco, ricevo la sua lettera. Spero che la seconda fioritura che Ella mi preavvisa possa essere più fortunata della prima. Come le dissi: io non sono molto persuaso dello stato corporativo. Penso che nello stato liberale vi sia posto per un equo contemperamento, rimanendo nel solco nazionale, degli interessi economici; e ritengo anche che nello Stato vi siano compiti e problemi che trascendono e non possono confondersi, né affidarsi alle loro rappresentanze come tali. Tuttavia se, come ella spera e lascia pensare, l’adesione dei confederali ai sindacati fosse stata concordata nel senso che essa determinasse una distensione dell’attuale situazione, un clima politico più normale, una ripresa di vita un po’ più libera, ne sarei allietato, continuando però a restare liberale. Questo anche perché io oltre che liberale sono anche democratico, nel senso che nella partecipazione popolare ai pubblici poteri vedo una via di elevazione delle condizioni morali economiche e politiche del popolo in armonia cogli interessi della produzione e della ricchezza nazionale. Ma se questi fini potessero realizzarsi rinnovando molta fiducia nel regime economico fondato sul diritto di proprietà, per altra via che per quella dello Stato liberale, io confesserò di essermi sbagliato, e mi allieterò dei risultati dello stato corporativo”. L’8 marzo Maiocco si affrettò a rispondere: “[…] intanto le dico che ho apprezzato il contenuto dell’ultima Sua. Molte delle Sue preoccupazioni sono anche le mie, per quanto gli elementi di giudizio che sono in mio possesso non giustifichino le preoccupazioni stesse – almeno per ora! – Io continuo a credere che tutto si incanalerà gradualmente, compreso il nuovo tipo di organizzazione statale – nel grande alveo del liberalismo intelligente; inteso liberalismo come metodo, azione politica non come fine a se stesso. Non mi spavento dei nomi che si danno alle cose: guardo la sostanza. La Russia a questo proposito è una inesauribile fonte di utili esperienze. I miei amici proseguono nell’opera loro con tutta sicurezza e tranquillità. Il loro gesto ha ottenuto intanto un primo innegabile risultato utile: chiarificare le posizioni reciproche anzitutto, posizioni che dovevano essere precisate bene per l’oggi e per il domani. Secondariamente ha prodotto una prima netta differenziazione di atteggiamento – di fronte alla nuova critica sindacale che si profila sull’orizzonte politico – tra Governo, Partito e Sindacato ufficiale. Bisogna ora che la differenziazione, per essere veramente utile al paese, sia frutto non di una impressione ma di una profonda revisione critica che si estrinsechi in altre manifestazioni. A questa revisione critica bisogna ora dare il tempo necessario. I miei amici vi concorrono con la pubblicazione della rivista “I problemi del lavoro” che vedrà la luce, col suo primo numero di ripresa (heri dicebamus!!) fra una decina di giorni. E voi avete pensato come concorrere? Vorrete estraniarvi ancora dalla discussione? O meglio, non volete fare alcun tentativo indipendente e nettamente liberale per parteciparvi? Se posso essere utile a questo proposito, sono lieto di mettermi a disposizione Sua. Mi scriva e mi voglia bene.” Nelle file del PNF erano presenti anime molto diverse; alcuni maggiorenti avevano cercato proprio nelle logge interlocutori per una possibile evoluzione in senso riformatore e democratico. Fu il caso di Edmondo Rossoni, iniziato nella Gran Loggia d’Italia dopo la dichiarazione di ostilità del Gran Consiglio del partito contro la Massoneria. In tale contesto Maiocco lavorava dunque per la convergenza tra liberaldemocratici, socialisti riformisti e “laburisti”, senza escludere correnti del fascismo stesso, ancora molto magmatico. Due giorni dopo Soleri gli rispose da Roma: “[…] Come le dissi e le scrissi la adesione dei confederali ai sindacati è cosa a cui noi liberali non possiamo che essere e rimanere estranei, perché non ci riguarda direttamente. Se però essa avesse potuto o potesse portare al ritorno ad una vita politica normale in cui i partiti avessero modo di manifestare il loro pensiero attraverso le riunioni ed i giornali, noi non potremmo che allietarcene e riprenderemmo certo in questo nuovo clima politico la nostra posizione, in conformità ai nostri postulati che sono, come le scrissi, oltre che liberali anche democratici. Vorremmo augurare che ciò avvenisse; ma per ora non vi è sentore […]”. Il 5 maggio 1927 da Cuneo Soleri informò Maiocco: “[…] Circolano voci di importanti dichiarazioni che il Capo del Governo farebbe in occasione della discussione del bilancio degli Interni. Esse potranno avere notevole influenza nella situazione, specialmente se riconosceranno ad altri partiti il diritto alle loro organizzazioni ed alla loro stampa. Credo che per questa via molta strada si potrebbe fare per la pacificazione che deve cercarsi non solo sulle strade, ma anche nelle coscienze”. Il 22 agosto ancora Soleri osservò a Maiocco: “[…] Ricevo la sua lettera. Mi pare che gli eventi mi abbiano dato ragione – salvo che io ignori molte cose – quando le dicevo che i suoi amici, prima di muoversi, dovevano ottenere garanzie sicure e fare patti precisi, allo scopo soprattutto di determinare un qualche svolgimento della situazione, ed un avviamento al ripristino delle libertà politiche che è a mio avviso l’essenziale da raggiungere. […] temo che il treno che avrebbe dovuto trainare, insieme coll’unione dei confederali ai sindacati, anche un vagone carico di libertà di stampa, di riunione, ecc. ecc. è ancora fermo. Le rose sono fiorite, ma forse – sempre che, come ho premesso, io non sia del corrente di segrete cose – sono già appassite. Gradirò sempre le sue informazioni e spero di poter presto passare a salutarla ad Alessandria. Mi creda cordialmente.” Nei mesi successivi l’ostilità del Partito nazionale fascista nei confronti di Soleri salì di tono, sia da Roma sia a livello locale, con un serie di sgarbi e meschinità. Per esempio non venne invitato all’insediamento del nuovo podestà di Cuneo. In quell’occasione il prefetto di Cuneo, Guido Pighetti, si affrettò ad assicurargli che quella “sciocca scortesia” non rientrava certo negli intendimenti suoi né in quelli “del governo fascista”: “Per la grandezza di Cuneo e per la prosperità della Provincia come io la sogno, tutti i buoni cittadini devono e possono collaborare e in prima fila quelli che si trovano nelle sue condizioni…”. Il 6 gennaio 1928 il prefetto auspicò di avere presto modo di “discorrere un po’ con (lui) dei tempi passati e pure tanto presenti”. La franca categorica opposizione di Giolitti, Soleri e Fazio alla legge elettorale che affidò al Gran Consiglio del Fascismo la predeterminazione della lista dei 400 componenti della futura Camera dei deputati segnò il punto di rottura definitivo tra la pattuglia dei liberali e il regime. Da quel momento per Soleri iniziò la morta gora, con riflessi anche sui suoi rapporti con quanti vennero poi in qualche misura attratti dalla diarchia monarchicofascista. L’11 dicembre 1928 Soleri scrisse a De Nicola, che, nel corso di una sua visita a Napoli, gli aveva domandato quali liberali “di sicura dignità politica […] potessero essere nominati senatori” e gli precisò che ne auspicava l’ingresso nella Camera Alta: “Se tu andassi al Senato onorerai l’ufficio e vi porterai il prestigio del tuo grande passato; se non vorrai andarvi, la tua figura di primissimo piano non perderà alcun risalto per la tua assenza, così fermamente voluta, dalla vita politica attiva. Ma comunque tu vorrai fare – ed io non volli che tu me lo dicessi e non lo voglio – credi che io non ho dubitato neppure per un momento di non essere fiero di trovarmi con te in qualsiasi circostanza”. Il 15 seguente De Nicola lo rassicurò: liberale e monarchico era e tale sarebbe rimasto. La costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, l’imminenza delle elezioni sulla base della nuova legge del maggio 1928 e, soprattutto, il Concordato tra lo Stato e la Santa Sede (11 febbraio 1929) fecero appassire le ultime speranze di ulteriori fioriture di rose liberaldemocratiche e riformistiche, sia per gli ultimi eredi della tradizione giolittiana sia di Maiocco e di quanti erano ormai costretti a rarefare anche i contatti epistolari, perché ormai sottoposti a stretta vigilanza. Nei mesi seguenti Soleri subì una fitta sequenza di umiliazioni da parte del regime. Venne fermato alla frontiera di Borgo San Dalmazzo, sulla Cuneo-Limone, quasi se ne temesse il passaggio clandestino in Francia, sulla scia di tanti esuli politici; la notte delle votazioni alcuni fascisti inscenarono una gazzarra sotto le finestre della sua abitazione in Piazza Vittorio, la targa dello studio venne asportata, i muri insudiciati. Il 25-26 marzo la casa di campagna a San Rocco Castagnaretta patì un’irruzione dimostrativa (non venne asportato nulla, ma l’intimidazione era evidente). Il quotidiano fascista polemizzò aspramente con il Rotary Club di Cuneo, presieduto dall’industriale Luigi Burgo e comprendente illustri esponenti della dirigenza giolittiana (Marco Cassin, l’ex sindaco liberale di Cuneo, Antonio Bassignano, Soleri stesso…). Il 16 aprile lasciò il Rotary di Cuneo per quello di Torino. A giugno recedette dall’adesione all’Associazione Volontari di Guerra, quando scoprì che comprendeva e glorificava anche i militanti nella “guerra civile” del 1919-22. Per motivare la sua scelta dovette spingersi a ricordare le proprie benemerenze patriottiche, e persino quelle nei confronti del fascismo nascente: “[…] Della mia fedeltà nazionale penso di aver dato prove non dubbie, servendo il paese in guerra e in pace in uffici della più aspra responsabilità (e ricordo solo il Commissariato Generale dei Consumi) col sacrificio di ogni mio interesse. Nei rapporti col Fascismo, a dimostrare la mia serenità di atteggiamento, ricordo che nel 1922 io fui solo a sostenere alla Camera il diritto di restarvi dei Deputati minorenni fascisti e combattenti di fronte a popolari e socialisti che ne chiedevano e ne ottennero l’espulsione; e inoltre che nel 1924, dopo il delitto Matteotti, mi resi interprete alla Camera del gruppo dei deputati liberali che rifiutarono di disertare la assemblea. Ma tutto ciò ho fatto come liberale, rimanendo alla Camera come difensore ed assertore di quegli ordinamenti ed istituti che il fascismo ha soppresso. Oggi però che non faccio più parte del Parlamento, ho deciso di rimanere estraneo ad ogni azione politica. Per questa ragione, e solo per essa, ritengo che sia meglio che io mi tenga all’infuori di qualsiasi associazione che abbia un contenuto politico e perciò anche dell’Associazione Volontari di Guerra, tanto più che il suo statuto non corrisponde interamente al mio pensiero che pure ne apprezza le alte finalità, patriottiche”. Negli anni seguenti le cose andarono di male in peggio. Sull’inizio del 1931 protestò energicamente con Mussolini stesso per altri soprusi e da Chiavolini ebbe assicurazione che la lettera gli era stata consegnata. Il duce accennò indirettamente a Soleri quando esortò il segretario federale di Cuneo, Attilio Bonino (saviglianese, ex popolare, uomo colto e “moderato”, consigliere provinciale e sindaco di Cavallermaggiore), a rimanere in carica, malgrado alcuni dissensi locali: “Voi siete un uomo veramente a posto. Voi avete bene meritato dalla Provincia, dal Regime e dalla Nazione. Restate al vostro posto di comando nella Provincia di Cuneo, ove nulla si tocca. In quanto ai vecchi uomini politici della Vostra provincia io credo che i liberali non possano costituire alcun pericolo. Se essi hanno ancora delle illusioni, ma le tengono dentro si sé, poco mi importa, ma se essi cercassero però di farle risorgere, il Fascismo non farebbe gran fatica a stroncarle. Sono perfettamente al corrente dell’attività dei cattolici, anzi vi posso dire che sono stato io a telegrafare ai prefetti di Cuneo e Torino per richiamare la loro attenzione su questa losca attività. Il risveglio delle organizzazioni cattoliche coincide con la venuta di mons.Fossati: uomo dalla mentalità medievale che pretendeva fare il suo solenne ingresso a Torino a cavallo della mula bianca con le Autorità Fasciste prostrate ai suoi piedi. Il fascismo difende la religione. Quando il prete dice delle messe o fa delle processioni, noi fascisti siano con lui. Quando il prete fa il prete è inafferrabile. Ma quando il prete esorbita dal suo ministero e vuole distribuire tessere il Fascismo farà applicare i poteri di polizia in materia di associazione. I rapporti dello Stato italiano con il Vaticano sono identici a quelli dello Stato italiano con gli altri Stati, come per es. con la Repubblica di Andora o di Finlandia, né diversamente potrebbe essere. Bisogna inoltre curare i Fasci Femminili; la donna deve esercitare in larghissimo modo le Opere Assistenziali. E ricordiamoci che la donna ha una massima importanza nella vita sociale, ce lo insegnano i preti e noi dobbiamo attirare la donna al Fascismo anche per sottrarla alla loro invadenza […]”. Il 21 agosto 1933 dalla Svizzera Soleri scrisse al prefetto di presentare a Mussolini, in visita a Cuneo, i suoi “ossequi, ispirati anche a quella cordialità personale” che da tanti anni lo aveva “legato a lui” ed ebbe assicurazione che il messaggio sarebbe stato consegnato. Per l’unica volta Piazza Vittorio Emanuele II risultò stracolma: un successo di folla mai raggiunto né da Giolitti né da alcun altro. Per Soleri, come per Maiocco e i non molti riluttanti all’intruppamento nel regime non rimanevano che il silenzio operoso nelle professioni e la rete segreta di contatti come ai tempi della Restaurazione postnapoleonica, per un periodo di durata imprevedibile. Non vi è traccia di corrispondenza tra Maiocco e Soleri dopo il giugno 1944 quando l’ex deputato di Cuneo uscì dalla clandestinità a Roma e, il 18, fu nominato ministro del Tesoro nel governo presieduto dal suo antico amico e sodale Ivanoe Bonomi.

La Loggia Pisana “Azione e Fede” – di Aristide Ceccanti
Le colonne della R:.L:. “Azione e Fede” all’Oriente di Pisa furono elevate verso il 1834, dunque in piena Restaurazione, sotto gli auspìci del Grand Orient de France. Era composta soprattutto da negozianti, medici, impiegati pubblici, studenti. Molti suoi membri appartenevano alla comunità israelitica, da secoli profondamente integrata nella città di Pisa. La “Azione e Fede” fu una delle primissime Logge ad integrare il Grande Oriente Italiano di Torino, ma fu allo stesso tempo fra le più riottose ad accettare l’indirizzo “governativo” che si voleva attribuire alla nuova Obbedienza: tanto riottosa da votare contro la prima elezione di Costantino Nigra a Gran Maestro e – una volta eletto – da considerarne nulla l’elezione per l’irregolarità del collegio elettorale. Accettò invece l’elezione di Filippo Cordova, nonostante la sua preferenza fosse per l’altro candidato, Giuseppe Garibaldi. Di Garibaldi, dei mazziniani, e in generale di tutti coloro che potevano creare agitazione, il governo neo-nazionale aveva, o simulava di avere, un grande timore. Troppo spesso l’agiografia risorgimentale ha tenuto in ombra la feroce dialettica che si sviluppò tra le due componenti principali del Risorgimento: quella democratica e quella moderata. La componente moderata considerava l’unificazione nazionale come una necessità al fine di conservare l’ordine esistente, in modo che “la democrazia” non trovasse spazio per le sue istanze rivoluzionarie di fondo. La componente democratica considerava l’unità di tutte le forze patriottiche una necessità, ma al suo interno andavano delineandosi istanze più prettamente sociali. Quando le forze moderate abbandonarono al loro destino i reazionari, incapaci di adattarsi a quel tanto di novità necessario per impedire il precipitare delle cose, e si allearono ai democratici, mantennero la loro avversione di fondo per tutto ciò che questi ultimi rappresentavano: e non mancarono, questa avversione, di manifestarla sempre e comunque. Nell’agosto 1862, dopo i fatti di Aspromonte, il governo Rattazzi ordinava la sorveglianza più stretta della stampa e delle associazioni democratiche e repubblicane. La società Democratica Emancipatrice pisana fu sciolta. La notte del 2 settembre 1862 la polizia fece irruzione nei locali dove si riuniva la “Azione e Fede” e arrestò tutti i presenti, per poter procedere il giorno successivo, con più calma, alla perquisizione. Lascio la parola al questurino verbalizzante. “Al Sig. Senator Prefetto di Pisa Eccellenza, Alle ore 10 della sera decorsa, pervenutami notizia che nello stabile di n.528 situato in via San Martino, trovavansi riuniti per scopo politico varij individui appartenenti alla già disciolta società Democratica emancipatrice, e tosto ordinai alle guardie di P.S. di seguirmi, e mi recai in quel luogo ove infatti al III piano dello stabile sopra indicato, dopo avere picchiato a una porta che rimane a mezza scala, fui introdotto in una sala ove seduti trovavansi n.20 individui, ai quali, domandato lo scopo per cui trovavansi riuniti, da prima non risposero, e poi dissero «per dare lettura ai giornali». Fu allora che, presi i nomi dei seguenti 20 individui (omissis); ordinai ad alcune guardie che rimanessero nella sala ed io ritiratomi in una stanza attigua chiamatili ad uno ad uno li costituì in esame e presi le loro dichiarazioni che nel complesso mi fecero intendere essere quella una Loggia Massonica, non avere uno scopo politico ed interessarsi di atti di beneficenza e di umanità (sic!). Nonostante tali dichiarazioni, attesa la circostanza di aver appartenuto la maggior parte degli adunati alla Società emancipatrice testè disciolta (pensai di) procedere prima di rilasciarli in libertà alla perquisizione del locale e delle carte che vi si trovavano onde conoscere se trattavansi veramente affari di Massoneria o piuttosto politici, siccome ne ingenerava il sospetto la presenza di individui ben cogniti per Mazinianesimo. Ma attesa l’ora inoltratissima della notte e di non portare [illeggibile] senza disagio ed anche danno del pubblico servizio inquantoché tutte le guardie di P.S. trovavansi meco e non perlustravano la città, ordinai l’accompagnatura di tutti e 20 alle Carceri Pretorili per rimanervi in sequestro fino a perquisizione terminata e intanto chiuso quel locale e consegnate legate e sigillate in un solo mazzo le chiavi ad uno degli adunati sospesa l’operazione fino alle ore 9 di questa mattina in cui presenti Cesare Boccata e Prats Francesco, consegnatari delle chiavi, è stata eseguita da me accompagnato dal maresciallo e due guardie di P.S. Una diligentissima perquisizione in tutto il quartiere tenuto in affitto dalla Loggia massonica ed ivi tranne molte carte e simboli proprij della Massoneria nulla ho ritrovato per giustificare che quella comitiva ivi fosse riunita siccome veniva rappresentata per scopo politico; ed è stato a seguito di tutto ciò che ho creduto di dovere immediatamente rilasciare siccome ho rilasciato mandato di scarcerazione per i sequestrati fin dalle 2 ant. Di tanto mi sono creduto in debito di informarla. Il delegato di P.S.” Lo scandalo di questa perquisizione fu grande. Originata da una lettera anonima, e dalla convinzione di molti che Massoneria fosse sinonimo di rivoluzione giacobina, ebbe per certi versi l’effetto contrario. Nella sua lettera al Prefetto il delegato cerca di giustificarsi, affermando insieme alla irreprensibilità del suo comportamento la verificata innocenza dei presenti da ogni accusa di cospirazione politica. Il fatto è che, fra i “sequestrati” nelle Carceri Pretorili, oltre a noti democratici, c’erano anche dei moderati governativi, alcuni dei quali addirittura membri della Giunta Provinciale. Nel fascicolo dell’Archivio di Stato di Pisa che documenta l’episodio sono presenti i verbali di interrogatorio: tutti i “sequestrati” concordano nel dichiarare che la riunione in corso è quella di una Loggia massonica, che la Loggia ha finalità filantropiche e di beneficenza, che le armi e gli arredi – si parla in particolare di un inginocchiatoio – sono simboli propri della Massoneria. Tutti dichiarano che la riunione non aveva carattere politico e che le somme di denaro raccolte servivano ad aiutare i bisognosi. E a questo punto il Massone contemporaneo non può non trarre alcune considerazioni. In primo luogo: il locale di riunione non è immediatamente riconoscibile come un Tempio. E nell’appartamento occupato dalla loggia – perché nel verbale si parla esplicitamente di più stanze – un Tempio permanente non c’è. Nella lettera anonima di denuncia – che non ho trascritto – si legge che in quell’appartamento ci si riunisce “ogni due sere”: una frequenza di lavori assolutamente insolita per una loggia che si dedica a lavori rituali. La risposta che i nostri Fratelli danno a caldo al Delegato di P.S. è rivelatrice: “davamo lettura ai giornali”. La lettura (oltretutto, in comune) dei giornali era allora vista come una attività eminentemente politica, che al tempo della Restaurazione era senz’altro repressa, e che neppure i nuovi governi vedevano di buon occhio, anche se avevano difficoltà a vietarla. Comunque, dopo l’Aspromonte, tornava comoda l’equazione “garibaldini uguale repubblicani”, e sotto il pretesto di ostacolare la propaganda – e le raccolte di fondi – dei Mazziniani, era ai Garibaldini che si voleva tarpare le ali. E tuttavia, fra i presenti non c’erano solo democratici e repubblicani, ma anche monarchici liberali. Di materiale propriamente massonico nell’appartamento occupato dalla Loggia se ne trova davvero poco: oltre alle spade (che non sembrano scandalizzare il Delegato), un inginocchiatoio. L’impressione
che si trae da questi documenti è che i Fratelli della “Azione e Fede” prendessero alla lettera le indicazioni del Rituale, di lavorare senza tregua al proprio miglioramento, di abituare il proprio spirito a dedicarsi solo alle grandi affezioni, a non concepire che idee di gloria e di virtù, a regolare le proprie inclinazioni. Il lavoro rituale propriamente detto, quale noi oggi lo intendiamo, occupava un posto assolutamente secondario nei lavori di Loggia. Da questo punto di vista, la “Azione e Fede” non rappresentava una eccezione. I Fratelli pisani inviarono a tutte le Logge una circolare di protesta sia per raccogliere manifestazioni di solidarietà, sia per far capire a tutti i Massoni italiani la situazione triste e pericolosa in cui stava trovandosi la Massoneria e spedirono urgentemente nella capitale, a Torino, una commissione guidata dal Fratello Cesare Boccara, con l’intento di interessare sollecitamente dell’accaduto il Grande Oriente. Il 9 settembre, nella riunione tenutasi presso il Grande Oriente Italiano in onore dei rappresentanti pisani, un Fratello di Torino, Angelo Piazza, pronunciò le seguenti famose e fatidiche parole: “Ritengano i Fratelli che in ogni parapiglia politico i Massoni saranno sempre fatti segno alle ire dei Sanfedisti. Dunque all’insulto tenga dietro la riparazione. Se no si crederà che il nostro silenzio sia confessione di colpa e a questo si oppone il nostro decoro e l’onore nostro”. Sempre nel 1862, la R.L.“Azione e Fede” fece parlare di sé per un “Indirizzo alle Officine dell’Arte Reale” col quale le invitava a promuovere una petizione popolare al Parlamento, affinché la pena di morte fosse bandita dalla legislazione della nuova Italia. Nel regno di recentissima unificazione, la Toscana aveva conservato la sua legislazione penale, di gran lunga più mite di quelle piemontesi e napoletana, che erano di stretta derivazione napoleonica. La pena di morte in Toscana era stata abolita dal Granduca nel 1786; fu reintrodotta in epoca napoleonica e mantenuta ai tempi della Restaurazione, ma applicata solo in due occasioni fra il 1815 e il 1848. Fu abolita nuovamente nel 1848 e mai più applicata. Il Regno Sabaudo estese a tutti i territori annessi i Codici Sardi Penale e di Procedura Penale, con due importanti eccezioni: nei territori già delle Due Sicilie un Decreto Luogotenenziale del febbraio 1861 aboliva la pena di morte, salvo per i casi previsti dal Codice Militare (e la giustizia sommaria fu intensamente applicata col pretesto della lotta al brigantaggio). In Toscana si conservavano legge e procedura granducali, di gran lunga più moderata di quelle piemontesi. Nel loro appello i Massoni pisani invocano proprio i buoni effetti del regime abolizionista sulla statistica criminale e sull’incivilimento dei costumi per sostenere la validità della loro tesi, suffragata per il resto da una argomentazione tanto semplice quanto definitiva. Il pronunciamento della “Azione e Fede” non ebbe riscontri immediati, ma fra il novembre 1864 e il gennaio 1865 altre Logge toscane e liguri ripresero il tema, sollecitando il Grande Oriente ad una campagna contro la pena di morte e per l’abolizione delle congregazioni religiose. Il Grande Oriente tuttavia optò per un atteggiamento defilato, concedendo la propria approvazione all’iniziativa ma chiedendo alle Logge di agire in proprio e prevalentemente nell’ambito profano. Gradualmente, anche per il ricordo dei troppi patiboli e plotoni d’esecuzione che avevano fatto strage di patrioti, e in odio alla mannaia papista, il movimento per una giustizia penale più umana e liberale e per l’abolizione della pena di morte si diffuse e divenne un tema centrale dell’azione massonica in Italia, ma anche in Francia e in Spagna. Solo in Italia ebbe successo. Sin dall’ascesa al trono di Umberto I, che nel gennaio 1878 concesse l’amnistia generale, la pena di morte non fu più applicata. Non si arrivò tuttavia all’abolizione formale per le resistenze, principalmente, della classe giudiziaria rappresentata in Senato. Ma infine il nuovo Codice abolizionista fu approvato nel 1889 quasi all’unanimità da entrambe le Camere.
Allegato:
Indirizzo alle officine dell’Arte Reale
La pena di morte è la massima delle pene, colla quale la società si credette finora in diritto dei delitti più gravi, togliendo la vita a chi se n’è reso colpevole. Se consultiamo la storia, vediamo che nei primordii delle umane società essa si applicava frequentissimamente e per lievissime cause. Di mano in mano che quelle società progredivano nell’ incivilimento, noi vediamo restringersi quella pena a sempre minore numero di delitti; di modo che oramai essa non si applica più presso le società civili che ad alcuni casi di omicidio. Questo fatto storico di per sé solo ci mostrerebbe qual sia lo scopo ultimo a cui tende, quasi senz’avvedersene, l’umana società, guidata in ciò da una specie d’istinto, che è la manifestazione della coscienza universale. Quello scopo è l’abolizione assoluta della pena capitale; e poiché quella che abbiam detto coscienza universale è ora illuminata e diretta dai profondi studii che i moderni filosofi fecero di questo importantissimo problema, è chiaro che ogni civile società si sente ora spinta con forza irresistibile a raggiungere questo fine con quel moto accelerato che l’illustre Balbo dimostrò verificarsi, come nella legge della caduta dei gravi, così nell’incivilimento. Ma molti pregiudizi restano pur troppo ancora all’attuazione di così giusto principio. E in primo luogo la questione di diritto filosofico intorno all’assoluta iniquità della pena di morte, se da un lato può dirsi vinta nel campo astratto della scienza, lascia però sempre molti dubbi nell’animo di coloro, i quali, o timorosi o sprezzatori delle ardite teorie, prendono in prestito l’antico frasario per colorare la debolezza delle loro ragioni. Non è qui il luogo di ribattere con lungo discorso gli errori delle scuole passate, che si fecero ad infiorare coi loro sofismi la mannaja del carnefice. Basti notare che tutte si partono da un falso e inadeguato concetto del diritto individuale; tutte per quanto possano variare nelle loro manifestazioni, si restringono nell’essenza a considerare la vita (secondo le parole di Rousseau) come un dono condizionale dello Stato, che può quindi esser perduto, rinunciato, trasmesso. All’ incontro la scienza moderna vede nella vita un beneficio e un diritto, che hanno radice nella stessa legge di natura; nega alla società la facoltà di togliere per qualunque causa un bene che non può dare, e del quale anzi abbisogna, come elemento necessario alla propria costituzione organica, e ordinata conservazione; professa finalmente tanto rispetto per l’individuo, che stima sacra la sua esistenza, e la pone sempre qual fine supremo di ogni sanzione legale. Tutto ciò, si dice da alcuni, può aver peso come pura speculazione; ma le idee non valgono contro l’utilità politica e i bisogni del viver civile: è forse giunta la società a tal punto di perfezione da poter far senza di questa estrema pena? E per quanto possa oppugnarsene l’astratta giustizia, non dovrà pur troppo accettarsi, quando abbia l’attributo essenziale che ogni legge deve avere: la necessità? Dopo tutto quello che è stato detto e scritto da insigni pensatori su questo argomento, non riescirà difficile provare che essa è priva affatto di questo carattere. -Il diritto della propria conservazione dà all’individuo la facoltà di respingere colla forza la violenza che da altri gli venga fatta, ma sempre ne’ limiti di necessaria difesa; e soltanto si giustifica l’uccisione dell’assalitore, allorquando l’assalito ha esaurito tutti i mezzi di difesa. Ora, risalendo dall’individuo alla società, non è chi non veda come questa abbia infiniti mezzi di difendersi senz’aver bisogno di ricorrere a questo estremo, e come facilmente essa possa togliere ad un individuo la possibilità di nuocere senza torgli la vita. A buon dritto si potrebbe dunque chiamare la pena di morte, un vero e inescusabile abuso di potere della società.

Massoneria e Rivoluzione americana – di I.Zolfino
La Massoneria era nata ufficialmente in Inghilterra nel contesto dell’Illuminismo, un contesto impregnato delle idee di Locke e di Newton. In Inghilterra e Scozia però, già nel corso del 1600, varie associazioni corporative di Liberi-Muratori, con statuti interni e simbolismo più o meno connotati nelle tradizioni locali, avevano incominciato ad accogliere nelle loro fila nobili colti, i cosiddetti Massoni Accettati, fra i quali alcuni identificabili come membri della Rosa-Croce. Le porte della conoscenza iniziatica venivano così aperte anche ai non appartenenti alla professione strettamente muratoria e la Massoneria si trasformava da operativa in speculativa. Il 24 giugno 1717 fu ufficialmente fondata a Londra la Gran Loggia con lo scopo di federare le logge che operavano nel distretto di Londra e che erano senza collegamenti tra loro; questo evento storico segnò formalmente la nascita di quella che poi fu chiamata Massoneria moderna, nome che servì a distinguerla dalla Muratoria delle antiche corporazioni. Alcuni autori hanno comunque ipotizzato che questa Gran Loggia altro non fosse che il risultato di una presa di distanza dei massoni londinesi dalle proprie radici scozzesi a seguito della rivolta giacobita tesa a riportare sul trono i discendenti Stuart di Giacomo VII di Scozia e II d’Inghilterra riparato in Francia nel 1688 durante la “Gloriosa Rivoluzione”; questa rivoluzione, anche se aveva introdotto numerose riforme, aveva però profondamente lacerato la società britannica creando divisioni e contrasti specialmente in campo religioso. In conseguenza di questi avvenimenti e per sfuggire a queste vicende politiche, molti scozzesi si trasferirono nel Nuovo Mondo. Alcuni erano già Massoni al momento della loro emigrazione nelle Colonie, altri lo divennero in occasione di viaggi in Inghilterra effettuati al solo scopo di essere iniziati. Secondo alcune tradizioni, sembra comunque che una forma di proto-massoneria fosse già presente nel Nuovo Mondo nel 1607 e che in Virginia si fosse dedicata alla promozione di una società ideale che vent’anni dopo sarebbe stata delineata da Sir Francis Bacon in opere come The New Atlantis. Questa possibilità non è del tutto infondata dal momento che i pensatori rosacrociani del primo Seicento erano ossessivamente consapevoli che le Americhe avrebbero potuto offrire delle concrete opportunità per la realizzazione dei progetti sociali della loro opera. L’emigrazione di Massoni nelle colonie americane è ampiamente accertata e si ha notizia della presenza di Massoni a Filadelfia e a Boston già prima del 1717 tant’è che The Boston Newsletter del 5 gennaio 1719 riporta addirittura che una nave, Il Massone, esercitava il cabotaggio lungo le coste americane, non c’è però purtroppo alcun documento che confermi di Logge fondate in America prima della fine del 1720. L’indipendenza delle colonie americane dalla madre patria era comunque scritta nella forza delle cose: è indubbio che nella nascita degli Stati Uniti ci sia stata una forte impronta massonica visto che molti dei padri fondatori erano massoni e massoni erano i due più importanti artefici della guerra d’Indipendenza, Benjamin Franklin e George Washington (quest’ultimo ritratto più d’una volta in pose massoniche). La Rivoluzione d’America fece il suo corso sotto l’egida della Massoneria. La celebre giornata che diede inizio alla Rivoluzione Americana fu infatti una giornata massonica: gli uomini travestiti da pellerossa che gettarono in mare le casse di tè erano i membri della Loggia di Sant’Andrea, che si riuniva alla «Taverna del Drago Verde e alle Armi della Massoneria» di Boston. Dovevano essere infatti degli indiani magici poiché, dopo aver compiuto il misfatto ai danni degli Inglesi, furono visti rifugiarsi nella Taverna ma non si videro mai uscirne, tanto che la polizia inglese non poté mai né arrestarli né punirli. Si videro soltanto venir fuori dalla Taverna i membri della loggia di Sant’Andrea che s’erano riuniti per non tener seduta, come mostra il loro verbale dei Lavori. Non si può nemmeno negare che i diversi «Congressi continentali», nei quali i delegati delle colonie si riunirono per elaborare una politica comune e organizzare la propria difesa, comprendessero un numero considerevole di massoni, soprattutto fra i capi. Questi congressi manifestarono puro spirito massonico nei loro diversi atti pubblici, in modo particolare nella redazione della famosa Dichiarazione d’Indipendenza che diventò il vangelo della libertà politica anche per i Massoni d’Europa. Le tredici piccole colonie, separate tra loro da distanze così grandi che occorrevano tre settimane alle lettere spedite dalla Georgia per arrivare nel Massachusetts, erano così diverse fra loro per costumi, abitudini sociali e razza da formare un bizzarro mosaico. La loro normale condizione era di essere sempre in lite fra loro e nulla, né la religione, né gli interessi commerciali, né la paura di un nemico comune sembrava potesse accomunarle. Ma qualcosa le teneva unite e quando giunse il momento tragico in cui gli americani ebbero bisogno di un esercito e di una diplomazia nazionali, ricorsero al massone George Washington, il solo ufficiale che, grazie alle sue relazioni massoniche, avesse una fama e amici in tutto il continente e al massone Benjamin Franklin, il solo americano che, grazie alla sua attività massonica, avesse relazioni e fama mondiali tali da esercitare un’influenza veramente preponderante sulla Massoneria d’America, e più tardi su quella di Francia. Dal 1776 al 1783, se l’esercito americano riuscì a combattere, se non sbandò, se non si perse di coraggio, lo dovette a Washington. Fu lui che conservò alto col suo esempio il morale delle truppe, fu lui che ottenne con la sua insistenza verso il Congresso gli approvvigionamenti indispensabili per mantenere le truppe e rifornirle di munizioni e, nei momenti peggiori, pagando anche di tasca sua. C’era un forte vincolo che tratteneva l’esercito americano attorno alle bandiere ed era, oltre al grande sentimento di affetto personale per Washington, il senso di appartenenza alla fratellanza massonica. Per tenerla viva, Washington aveva favorito la creazione di numerose logge militari alle quali partecipava attivamente. È accertato che in questo esercito ci fossero undici logge e altre ne esistessero nella fanteria del Connecticut, in quella della Carolina del Nord, in quella del Massachusetts, del Maryland, della Pennsylvania e del New Jersey. Anche l’artiglieria della Pennsylvania ne aveva, ma la loggia reggimentale più illustre era l’Unione americana, con la quale Washington celebrò il San Giovanni d’estate e il San Giovanni d’inverno nel 1779, il San Giovanni d’estate nel 1780 e il San Giovanni d’estate nel 1782. Lo stesso anno egli celebrò il San Giovanni d’inverno con la loggia «Re Salomone», a Poughkeepsie. Ma la più bella e la più importante di tutte le cerimonie massoniche alle quali prese parte, fu la grande processione massonica del 27 dicembre 1778 a Filadelfia per festeggiare San Giovanni d’inverno. I patrioti avevano appena rioccupato la città e l’alleanza francese riempiva i cuori di gioia e di speranza; l’entusiasmo era al massimo e, pur preparandosi a una lunga e dura lotta, c’era ormai la certezza della vittoria. Il generale in capo volle darne una pubblica testimonianza e, come fecero in seguito i presidenti degli Stati Uniti, spada al fianco, grembiule sul ventre, sciarpa massonica a tracolla, ornato di tutti i gioielli e le insegne dell’ordine, Washington sfilò con i paramenti massonici alla testa dei massoni attraverso le strade e i crocicchi di Filadelfia. Fu la più grande parata massonica che si fosse mai vista. A Franklin spettò invece di occuparsi della parte diplomatica della Rivoluzione. Massone dal febbraio del 1731, già alla data dell’8 dicembre 1730 aveva pubblicato, nel suo giornale The Pennsylvania Gazette, il primo resoconto sulla Massoneria nordamericana in cui se ne tracciava un quadro generale; l’articolo iniziava con la frase: “Vi sono parecchie Logge di Frammassoni erette in questa Provincia…” Diventato Gran Maestro Provinciale della Pennsylvania nel 1734, nello stesso anno fece stampare un’edizione delle Costituzioni di Anderson, primo libro massonico a essere pubblicato in America. Ma fu certamente il propagandista più accanito e più abile fra tutti i Massoni d’America e artefice insieme a Washington dell’indipendenza americana, riconosciuta dal Re d’Inghilterra con il Trattato di Versailles, firmato a Parigi nel 1783. Per portare avanti questo compito soggiornò per parecchio tempo in Europa, in modo particolare a Londra e a Parigi. Durante il suo lungo soggiorno in Inghilterra frequentò le logge inglesi fin quando ormai la guerra era diventata inevitabile e ugualmente fece durante il suo soggiorno francese come rappresentante del suo paese. Durante questo periodo divenne una figura molto popolare nell’ambiente massonico, frequentò parecchie Logge, fu eletto Venerabile Onorario in una loggia di Carçasson, membro onorario in molte altre e persino Venerabile della più brillante fra le Logge della capitale, la Loge des Neuf Soeurs, che avrà un ruolo decisivo nella diffusione delle idee illuministiche. Fu in questo contesto, nel centro della Massoneria intellettuale ed elegante di Francia, che il Fratello Benjamin Franklin poté pubblicizzare in modo sistematico, accurato e audace la Rivoluzione d’America. Anche se quest’ultima aveva già attratto l’attenzione del pubblico, nella Loge des Neuf Soeurs fu elogiata in modo incomparabile; qui si tenevano delle letture in suo onore, e in via straordinaria, vi si ammetteva il pubblico; non c’era banchetto o cerimonia massonica senza brindisi massonici in cui non si esaltassero l’America e la sua liberazione. Franklin appariva poco in pubblico, indossava sempre un modesto abito grigio, non usava parrucca, non aveva spadino, nulla che manifestasse un alto grado o delle pretese sociali. Portava i suoi capelli bianchi, i suoi grossi occhiali, delle calze bianche e delle rustiche scarpe senza fibbie. Parlava poco, ma in modo dolce e grave e sempre con il sorriso. Compì però un lavoro paziente, accanito, quotidiano che la Massoneria e la stampa resero universale facendo in modo che Franklin ottenesse che il governo francese intervenisse a fianco degli Stati Uniti e permettesse la continuazione della guerra fino alla vittoria. Questo ammirevole lavorìo, il più accurato e il più spinto che mai si fosse conosciuto in materia di propaganda, dette i risultati sperati e degni degli sforzi di Franklin: oltre all’intervento militare della Francia, che di per sé rappresentò un colpo magistrale per procurare all’America la sua indipendenza, Franklin riuscì a lanciare attraverso l’Europa l’idea che le rivoluzioni, fino ad allora apparse come delitti sociali, fossero viste come l’adempimento d’una delle più alte funzioni sociali accrescendo enormemente anche la gloria dell’Ordine Massonico.

Sciabole, preti e massoni – di L.Pruneti
Alla fine dell’Ottocento la storica loggia “La Concordia” all’Oriente di Firenze, viveva un periodo di travaglio, i bei tempi delle “Costituenti massoniche” erano ormai lontani; l’officina era in crisi: litigi, defezioni, scarsa frequenza erano diventate il pane quotidiano. La loggia, comunque, fidava in alcuni Fratelli particolarmente preparati e attivi, uno di questi era il professor Cesare Parrini. Egli aveva quarantanove anni ed era un apprezzato docente che insegnava italiano nella scuola tecnica annessa al liceo “Dante Alighieri”. Inoltre Cesare era il corrispondente della “Gazzetta d’Italia” e collaborava abitualmente col quotidiano fiorentino “Fieramosca”. Come giornalista s’interessava soprattutto di cronaca locale, ma all’occasione trattava anche tematiche più complesse di carattere soprattutto sociale, inoltre era uno scrittore e un apprezzato conferenziere. All’inizio del 1884, a esempio, aveva avuto un buon successo il suo intervento al “Circolo filologico fiorentino”; il tema trattato era stato “Il duello d’onore” e il Nostro si era scagliato con veemenza contro l’uso delle sfide cruente, definendole pratiche disonorevoli, “barbara costumanza”, ereditate dai secoli bui quando l’umanità non era ancora illuminata dalla ragione, dalla scienza e dal diritto. Nella rispettabile loggia “Concordia” Parrini era un fratello stimato per dottrina e serietà, tanto che nel 1882 era stato nominato rappresentante dell’officina presso il Grande Oriente. In veste di delegato aveva partecipato a un’assemblea nella quale aveva invitato il governo dell’Ordine “a punire rigorosamente ogni Ente massonico e ogni Massone che facesse opera d’intolleranza civile, politica o religiosa”. Nella stessa occasione aveva caldeggiato “la necessità assoluta di una pubblicazione officiale di atti massonici, fatta direttamente dal Grande Oriente e sotto la sua responsabilità”. Infine si era espresso, secondo la volontà della “Concordia”, contro la fondazione di logge femminili. Riteneva, infatti, la questione spinosa e che, come tale, meritasse uno studio più approfondito. Diventato Oratore dell’Officina, il giornalista – insegnante aveva firmato insieme al Venerabile Giuseppe Landi e al Segretario Augusto Guerri il documento del maggio 1884, col quale la “Concordia”, dopo quattordici anni di scozzesismo, ritornava nell’alveo del Rito Simbolico Italiano, “perché [tale rito …] ricordava i primi e più floridi tempi della Loggia, e sembrava più adatto a ristabilire la disciplina infiacchita, tenendo più a lungo il tirocinio per l’acquisizione del terzo grado; perché sembrava meglio rispondere a tutelare l’autonomia delle logge; perché pareva la più naturale espressione di quello spirito d’uguaglianza, che deve essere base della Massoneria; perché potrebbe far recuperare parecchi Fratelli dispersi”. Il professor Cesare Parrini era, dunque, un personaggio noto in città, rispettato e benvoluto soprattutto da Massoni e progressisti; tuttavia, nell’estate del 1884, accadde un fatto, inaspettato e per certi versi incredibile, che doveva troncare in modo drammatico la sua esistenza. Tutto ebbe inizio con il processo celebrato presso il tribunale di Firenze contro la signorina Vittorina Venturini, donna di dubbia moralità accusata di falso e di altri reati volti a spillare soldi al suo ex amante. Era questi Eugenio De Witt, residente a Pisa, di professione figlio di banchiere. L’imputata fu ritenuta colpevole e condannata a otto anni di reclusione; Cesare Parrini seguì il processo per conto della “Gazzetta d’Italia”, inviando numerose corrispondenze e quando fu emessa la sentenza scrisse un lungo articolo di commento, che mise sulla graticola Eugenio De Witt. Se Vittorina Venturini era moralmente discutibile, affermava il giornalista, l’amante non era da meno. Dalla loro relazione era nato un figlio e se la signorina aveva cercato di approfittarne, De Witt, per tacitarla, l’aveva colmata di promesse, ma non di soldi anche perché il “nonno” aveva stretto i cordoni della borsa. Da ciò erano sorti ricatti, minacce, imbrogli. Insomma se per la legge la donna era sicuramente colpevole, l’uomo non si era comportato da stinco di santo. Il pezzo fece scalpore, Eugenio De Witt e suo padre si sentirono offesi, danneggiati nell’onore e chiesero al giornalista pubbliche scuse e riparazioni. Le parti s’incontrarono, ma la ragione non prevalse, anzi volarono parole grosse e qualche schiaffo. A quel punto fu Cesare Parrini a sentirsi in credito e sfidò il figlio del banchiere a duello. Fu per questo che il Fiorentino e il Pisano s’incontrarono di nuovo, questa volta in una sala dell’hotel Cavour a Firenze. Era il 17 luglio, con loro vi erano i padrini di parte. Patrocinavano Parrini il cavaliere dottor Malenotti e il conte Giovanni Arrivabene, affiancavano De Witt Angelo Muratori e Giovanni Montepagano. I quattro cercarono di conciliare i contendenti, ma ogni tentativo fallì; anzi l’incontro riaccese gli animi, cosicché si stabilì di risolvere la diatriba con le armi. Lo scontro sarebbe avvenuto con la sciabola e guanto di sala d’armi, gli strumenti più idonei, vista la gravità dei fatti; nessun colpo era escluso, il duello sarebbe terminato quando, a parere dei medici, uno dei contendenti si fosse trovato nell’impossibilità di continuare a combattere. Alle tre della mattina seguente i duellanti si incontrarono in piazza Stazione e insieme raggiunsero il luogo dello scontro: il parco della villa Torrigiani di Quinto, nel mandamento di Sesto Fiorentino. Era da poco l’alba quando la tenzone ebbe inizio. Eugenio De Witt, più abile nel maneggiare la sciabola, portava un affondo dietro l’altro, Cesare Parrini si limitava a parare. Dopo diversi affondi il giornalista venne colpito due volte all’ascella e al braccio, ma si trattata di ferite superficiali, i medici comunque, sospesero lo scontro e verificarono le sue condizioni, chiedendogli se voleva continuare a pugnare. La risposta fu affermativa, perciò il duello riprese. De Witt, a quel punto, moltiplicò l’impeto, Parrini tendeva ad arretrare per meglio contenere i colpi, fino a che una siepe gli impedì di ritirarsi e a quel punto non riuscì a evitare il peggio: parò malamente un fendente, la lama dell’avversario fu deviata verso il basso e penetrò per quattordici centimetri nel basso ventre. La ferita apparve subito gravissima, Cesare Parrini fu trasportato in una casa vicina e fu sistemato su una materassa, soffriva terribilmente, ma rimase sempre lucido; infine, dopo due giorni di agonia, il Massone, professor Cesare Parrini, Oratore della rispettabile loggia “Concordia”, contrario al duello e allievo della ragione, per un duello passò a miglior vita. L’evento ebbe una risonanza enorme, il giornalista fu da tutti compianto, alcuni parlarono di tragica finalità, ma altri, accusarono De Witt di comportamento scorretto e dubitarono che il verbale steso dai giudici di campo rispondesse alla realtà. In particolare si riteneva che lo scontro si fosse protratto oltre il dovuto, votando il giornalista a morte certa. Seguì un’inchiesta, fu celebrato un processo, dal quale ne uscirono bene tutti: Eugenio De Witt, i padrini e i medici. Lo scontro, però, ebbe un strascico ulteriore, portato avanti dalla stampa cattolica che approfittò dell’evento per denigrare la Massoneria. La notizia della scomparsa di Cesare Parrini e della sua abiura, in punto di morte, della Massoneria fu pubblicata per prima dalla “Unità cattolica” e riproposta integralmente sia dal “Cittadino Italiano”, sia dal “Bollettino Salesiano”. Quest’ultimo periodico scrisse che Cesare Parrini era un massone importante, un dirigente della setta e un ateo conclamato, tanto che il 13 marzo 1882, aveva redatto e firmato il seguente testamento: “Sano di mente e di corpo, questo 13 marzo 1882, dichiaro essere la mia volontà: 1° che nessun sacerdote, di qualunque siasi culto o rito, entri nella mia camera quando, per avventura, dovessi cadere ammalato a morte; 2° che dal letto, dove sarò morto, non voglio essere messo né in bara, né accompagnato al sepolcro da nessuna Congregazione religiosa, Arciconfraternita, prete, ecc, ma soltanto dai miei fratelli, amici, conoscenti; 3° che sul patrimonio, che sarò per lasciare morendo, siano prelevate lire 500, le quali saranno distribuite come crederà meglio il Venerabile della Loggia “Concordia”, fra le vedove e gli orfani di Fratelli rimasti privi di mezzi di fortuna; 4°l’esecuzione di queste mie volontà è affidata all’Oriente della Loggia “Concordia”, nel cui archivio secreto desidero sia conservata quest’espressione della mia ferma volontà”. Quando, però, stava morendo, verso le 13.00 del 20 luglio chiese che fosse chiamato un prete; dopo breve tempo giunse don Luigi Miccinesi, vicario spirituale della Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Quinto. Questi, alla presenza di due testimoni lesse all’agonizzante “una formula di ritrattazione, che abbracciava tutto quello che era necessario, per un uomo il quale si era illaqueato nelle censure ecclesiastiche, avendo dato il nome alla setta ed essendosi battuto in duello, e tanto avea scritto contro la chiesa e la fede cattolica. Letta la formula il Parrini, con il Crocifisso al petto, dichiarò di fare questa dichiarazione, ed aggiunse: – Perdono a tutti, come desiderio che Dio perdoni a me – […]13. Ciò fatto si confessò [… e] divenuto molto sereno e tranquillo, non faceva altro che abbracciare e baciare il Crocifisso che si teneva stretto nelle mani, e pregava, raccomandandosi con intenso affetto a quel Gesù, che riconosceva per unico consolatore ed unica speranza che gli restasse al mondo. Gli fu detto: – Cesare, come mai tu che sei stato quel che sai, ora preghi così pentito il buon Gesù? – Amico – rispos’egli – in un modo si vedon le cose quando si vive, ed in un altro si vedono in faccia alla morte. – Ricevette il Viatico con tali dimostrazioni di fede e di pietà che gli astanti piangevano di commozione […] alla fine il Parrini si spense in un tranquillo raccoglimento con il Signore, che aveva vivo dentro di sé […] Ci fu appena il tempo di dargli l’Estrema Unzione, e, col nome di Gesù in bocca ed il Crocifisso sul petto, […] spirò”. La Massoneria, proseguirono i fogli e le pubblicazioni clericali, rimase sconvolta da questa conversione e scatenò la furia dei settari che giunsero a profanare la salma: “Quando era già cadavere sul letto, entrò nella camera uno dei capi della Massoneria e lo schiaffeggiò. Il che visto da una domestica, la mosse a farne un acerbissimo risentimento. Lo schiaffeggiatore si scusò col dire che questo era il rituale saluto di estremo addio, che i massoni fanno ai fratelli defunti. Risaputasi la cosa, fu invece da altri interpretata come un castigo inflitto dalla setta al defunto , perché, morendo, l’aveva rinnegata, ritornando a Cristo e alla sua Chiesa”. La denuncia della vendetta massonica a suon di schiaffoni fu un espediente mediatico che riscosse poca credibilità. È invece certa la conversione di Cesare Parrini, attestato in via indiretta anche dalle fonti latomistiche. Gli annali della “Concordia”, redatti da Gildo Valeggia, spendono infatti pochissime parole sulla dipartita dell’illustre fratello, Oratore della Loggia. Si limitano a ricordare che nel corso 1884 erano passati all’Oriente Eterno Angelo Martino, Giacomo Stupani, Cesare Parrini e Federico Campanella e che la dipartita di quest’ultimo “metteva in lutto anche il Grande Oriente”. Chi approfittò particolarmente della conversione e del presunto oltraggio al cadavere fu “Civiltà cattolica” che nel numero del 20 giugno del 1885 ricordò i fatti ed evidenziò come la “setta”, “punisce i cadaveri e li disonora” specie dei “proseliti […] che muoiono ravveduti”. L’evento servì al periodico dei Gesuiti per un attacco frontale nei confronti della Libera Muratoria, considerata la chiesa di satana. “Essa – si legge – forma l’antichiesa per eccellenza, che è la chiesa di Satana, in perfettissima contraddizione con quella di Cristo. Una setta che più della Massoneria sia diabolica, non si darà mai; giacché nega tutto, si ribella a tutto, e non anela soltanto alla distruzione del bene dell’uomo, ma eziandio del bene suo naturale. Essa, come Satana che l’ha generata, è veramente inimica della natura umana”. Vi è il sospetto, aggiunse il periodico, che una simile sinagoga sia manovrata da “un pugno di giudei ”, giacché sembra impossibile che “gente battezzata” possa covare “un odio sì mortale a Cristo Redentore e alla sua Chiesa”; pertanto è probabile che in fondo a “l’abisso della malizia massonica” vi sia “una sopraffina perfidia giudaica”, della quale “sono zimbello i […] settarii cristiani”. A tanto portò la conversione sul letto di morte dello sfortunato Cesare Parrini, che anticipò di un anno quella assai più celebre di un suo collega d’Oltralpe Antoin Giogad Pagés, meglio conosciuto col nome d’arte di Leo Taxil. Questi nel 1885, con una pubblica lettera, si dichiarò pentito dei propri misfatti di Massone e di anticlericale e pronto a ritornare nel grembo della Santa Madre Chiesa. Non è escluso che il Francese, attento lettore di “Civiltà cattolica”, sia rimasto colpito dal clamore suscitato dal caso di Cesare Parrini e che abbia deciso di seguirne le tracce, guardandosi, però, da spade e da sciabole e stando ben attento a mantenersi in ottima salute.

Sante Ceccherini – di A.Zarcone
Sante Ceccherini (Incisa Valdarno, FI, 15 novembre 1863 – Marina di Pisa, 9 agosto 1932). Figlio di Venanzio e Assunta Bellocci, è allievo del Collegio Militare di Firenze dal 1 ottobre 1878 poi, dal 3 febbraio 1882, passa dall’Accademia Militare di Modena. Viene nominato Sottotenente di Fanteria il 27 agosto 1884 ed assegnato al 38° Reggimento Fanteria. Dal 24 luglio 1885 transita per alcuni anni nell’Arma di Artiglieria ed è assegnato al Comando dell’Arma; dopo meno di un anno, il 3 luglio 1886 rientra nella fanteria per prestare servizio all’11° Reggimento Bersaglieri. Reggimento in cui ottiene la promozione al grado di Tenente il 31 marzo 1887. Destinato al corpo di spedizione italiano in Africa, il 3 marzo 1889 è mobilitato con il Battaglione Bersaglieri autonomo del Corpo Speciale Africa, motivo per il quale è successivamente autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa per le Campagne d’Africa con la fascetta “Adua”. Rimpatriato, il 25 ottobre 1891 riceve l’incarico di Ufficiale d’Ordinanza del Comandante dell’VIII° Corpo d’Armata. L’11 novembre 1891 sposa la signora Ottavia Biondi. Lasciato l’incarico presso l’VIII° Corpo d’Armata torna a prestare servizio come ufficiale dei bersaglieri, prima al 9° Reggimento Bersaglieri quindi come Comandante di una Compagnia del 6° Battaglione Bersaglieri della Milizia Mobile. Promosso Capitano il 27 ottobre 1897 diventa Comandante di Compagnia Ciclisti del 12° Reggimento Bersaglieri ed è decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Civile “Per la filantropica e coraggiosa azione compiuta l’11 giugno 1898 in Roma, slanciandosi alla testa di un cavallo che si era dato a precipitosa fuga e riuscendo, dopo essere stato trascinato per un buon tratto a fermarlo, evitando possibili disgrazie”. Il 16 agosto 1902 lascia il servizio a domanda per essere collocato in aspettativa speciale, posizione in cui rimane per circa tre anni. Iniziato apprendista nella Loggia “La Concordia” all’Oriente di Firenze il 22 febbraio 1905 è promosso Compagno d’Arte ed elevato al grado di Maestro il 19 maggio dello stesso anno. Rientra in servizio attivo il 16 agosto 1905 e lo stesso giorno assume il comando di una Compagnia Ciclisti del 2° Reggimento Bersaglieri, unità con cui partecipa alle Operazioni di Soccorso in occasione del Terremoto Calabro-siculo del 28 dicembre 1908 venendo decorato della Medaglia d’Argento di Benemerenza per essersi segnalato nel prestare soccorso alle popolazioni funestate dal sisma. Promosso Maggiore il 30 settembre 1910, assume il comando dell’11° Battaglione Ciclisti dell’11° Reggimento Bersaglieri. Partecipa alla guerra italo – turca per la sovranità sulla Cirenaica ed è decorato di Medaglia d’Argento e di Medaglia di Bronzo al Valore Militare. Promosso Tenente Colonnello nel 1915 partecipa alla guerra 1915/18 in cui si mette in evidenza e ottiene alcune decorazioni al valore militare. È decorato, fra l’altro, di Medaglia d’Argento al Valore Militare perché “Il 20 luglio sotto un fuoco violento ed efficace di fucileria ed artiglieria nemica, conduceva il battaglione allo assalto della posizione di Monte San Michele e rincuorando i suoi con la parola e con l’esempio, fra i primi irrompeva nelle trincee avversarie prendendo molti prigionieri, all’alba del giorno seguente con pochissimi ufficiali superstiti respinse vittoriosamente i violenti contrattacchi avversari e quando vide i suoi attorniati dai nemici si fece strada alla baionetta e li ricondusse in salvo in una posizione più arretrata, dalla quale contribuì ad arrestare l’avanzata del nemico. Monte San Michele, 20 e 21 luglio 1915”. Elevato al grado di Colonnello il 1° agosto 1915, alla fine dello stesso mese assume il comando del 12° Reggimento Bersaglieri, incarico che abbina a quello di Comandante del Sottosettore di Cerzoga Slatmich dall’11 al 28 febbraio 1916, del Comando Tattico di Monte Pizzul dal 23 marzo al 6 settembre 1916 e di quello del Settore di quota 126 dal 23 novembre al 29 dicembre 1916. Viene decorato con una terza Medaglia d’Argento al Valore Militare perché “Con valore, preparò e condusse il suo Reggimento all’attacco ed alla conquista di un’importante posizione nemica, che solidamente mantenne, nonostante un intenso e prolungato bombardamento nemico. Costante esempio di ardimento, erasi distinto anche nell’azione del 12 ottobre 1916. Pecinka, 1° e 3 novembre 1916”. Nominato Colonnello Brigadiere e Comandante della Brigata “Alessandria” (11 marzo 1917) e poi della 3^ Brigata Bersaglieri (30 marzo 1917), ll’11 Aprile 1918 diventa Maggiore Generale. Dopo il ripiegamento sul Piave conseguente alla sconfitta di Caporetto e la successiva battaglia difensiva del giugno 1918, è decorato della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia perché “Con esemplare prontezza e vigorosa intelligente azione, seppe tradurre in atto le direttive del Comando Superiore ed imprimere con instancabile operosità magnifico impulso all’azione delle sue truppe, così da riuscire in brevissimo tempo e malgrado l’ostinata, fortissima resistenza avversaria alla riconquista completa delle posizioni, facendo prigionieri tutti i superstiti nemici con ricco bottino e riacquistando tutto il materiale perduto. Riva destra del Piave presso San Bartolomeo (Treviso), 17/18 novembre 1917” e della Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia perché “Animatore infaticabile delle più gagliarde energie guerriere, condottiero superbo di uomini, per ardenza di sentimento italiano, pratica costante di valore personale a tutta prova – dal primo giorno di guerra ininterrottamente alla testa di reparti contendenti al nemico la terra e la gloria – primo tra i primi partecipava ai più aspri cimenti, contribuendo a scrivere una tra le più belle pagine della nostra storia militare. Nella regione del Piave, quando ancora il fiume sacro ancora arrossava di sangue nemico per la fuga di Fagarè, al suo valor dovuta, in altra gravissima ora lanciava senza esitare l’impeto di sopraggiunti suoi guerrieri sull’austriaco, che dalla superata ansa di Ca’ lunga, guardava Venezia, e lo costringeva a ripassare il Sile. Ed infine, tenacemente operando, costantemente osando, i suoi Bersaglieri trascinava tra canti di gloria e di vittoria in vittoria, al Piave Nuovo, contribuendo in tal modo del tutto particolare a restituire alla Patria un primo lembo di terra italiana. Ca’ Lunga, Cavazuccherina, Cortellazzo, Piave Nuovo, dicembre 1917 e luglio 1918”. Per il servizio prestato durante la Grande Guerra è autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa nazionale della guerra 1915/18 e ad apporre sul nastro le fascette corrispondenti agli anni 1915, 1916, 1917 e 1918, della Medaglia Interalleata della Vittoria e della Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia. Collocato a disposizione del Ministero della guerra e del Corpo d’Armata di Firenze dal 10 marzo 1919, il 6 ottobre successivo presenta le dimissioni per partecipare alla spedizione su Fiume con D’Annunzio. Qui svolge le funzioni di Comandante della 1a Divisione di Fiume dal 12 ottobre 1919, di Vice Comandante delle Forze dal settembre al novembre 1920, incarico che abbina a quello di Presidente della Corte di Terra e mare a Fiume dal 6 giugno al novembre 1920. Dopo la spedizione fiumana rientra in servizio e il 1 febbraio 1921 è collocato a disposizione del Ministero della Guerra per Ispezioni. Un incarico che lo allontana dal servizio attivo a causa della sua partecipazione all’impresa dannunziana e che anticipa in qualche modo il collocamento in Ausiliaria speciale per riduzione quadri il 9 marzo 1922. Deluso, aderisce al fascismo e si iscrive al Partito Nazionale Fascista il 16 ottobre 1922 e partecipa alla riunione organizzativa della Marcia su Roma, durante la quale esercita il comando di una delle colonna di squadristi fiorentini. Alla costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, 1 febbraio 1923, viene inquadrato con il grado di Luogotenente Generale, equivalente a quello di Generale di Divisione dell’Esercito, e nominato Ispettore Generale a Disposizione. Nel 1923 entra a far parte del Consiglio provinciale di Firenze. Comandante della VIIa Zona della milizia fascista dal 1924 al 1927, fu spettatore dell’assalto alle logge massoniche fiorentine che comportò la tragica giornata di “San Bartolomeo”: la notte fra il 3 e il 4 ottobre 1925, le squadre fasciste organizzano una rappresaglia per vendicare la morte del camerata Giovanni Luporini, ucciso durante una spedizione contro il massone Napoleone Bandinelli. In quelle ore sono assassinati i massoni e antifascisti Giovanni Becciolini, e Gustavo Consolo oltre all’ex deputato Gaetano Pilati, figura di spicco del socialismo fiorentino.Secondo Enzo Daddi, figlioccio di Ceccherini e appartenente a una loggia fiorentina dell’Obbedienza di Palazzo Vitelleschi A.L.A.M., in quell’occasione il proprio padrino avrebbe dislocato alcuni membri della milizia fascista a difesa delle abitazioni degli esponenti più in vista della massoneria fiorentina. Enzo Daddi apprese ciò da uno dei militi comandati, che successivamente diventò Maestro Venerabile della sua loggia. Ceccherini viene nominato Ispettore Generale della MVSN nel 1927, incarico che mantiene fino alla morte. Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia ed Ufficiale dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro Sante Ceccherini è noto per le sue qualità di schermidore che da giovane ufficiale lo portano a partecipare ai Giochi olimpici di Londra del 1908 dove in squadra con il futuro generale Alessandro Pirzio Biroli si aggiudica la medaglia d’argento.

Alla ricerca di una storia perduta – di A.Santini
Il 15 febbraio 1923, Mussolini dichiarò ufficialmente guerra alla Massoneria, invitando il Gran Consiglio del Fascismo a statuire l’incompatibilità fra Partito e Massoneria. Già nel 1921 aveva affermato: «Il Fascismo non predica e non pratica l’anticlericalismo. Il Fascismo […] non è legato alla Massoneria, la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi taluni del partito popolare. Per me la Massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini […] Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo». Il Gran Consiglio approvò la mozione: «Il Gran Consiglio del fascismo discutendo il tema fascismo e massoneria considerati che gli ultimi avvenimenti politici e certi atteggiamenti e voti della massoneria, danno fondato motivo di ritenere che la massoneria persegue programmi e adotta metodi che sono in contrasto con tutta l’attività del fascismo invita i fascisti che sono massoni a scegliere tra l’appartenenza al Partito Nazionale Fascista e alla Massoneria, poiché non vi è per i fascisti che una sola disciplina: la disciplina del Fascismo, che ha una sola gerarchia: la gerarchia del Fascismo, che ha una sola obbedienza: l’obbedienza assoluta, devota e quotidiana al capo e ai capi del Fascismo». «La decisione di febbraio se da una parte rafforzò il regime, dall’altra segnò l’inizio di una campagna antimassonica di estrema violenza. Immediatamente “Cremona Nuova”, il giornale di Farinacci, richiese a gran voce l’elenco di tutti i Massoni che andavano fucilati “in massa, come traditori della patria”. A Firenze il Direttorio del Fascio non fu da meno pubblicando un manifesto che riportava: “Da oggi in poi, né i massoni, né la massoneria devono rimanere anche un solo attimo liberi dalla persecuzione […] Si devono annientare senza misericordia, i massoni, i loro beni, i loro interessi. Essi devono venire cacciati via dai pubblici impieghi […] Nessuno deve restare escluso. I bravi cittadini devono schivare ogni massone. Sotto il peso della nostra forza, essi devono venire isolati, come lebbrosi”». «Cominciò una campagna antimassonica di estrema violenza che per tre anni vide gli squadristi aggredire i Liberi Muratori, attaccare sedi e distruggere tutto ciò che sapesse di latomistico». «Furono allora assalite e distrutte le sedi massoniche di tutta la Penisola. S’iniziò da Prato e da Pistoia con i templi delle Logge “Giuseppe Mazzoni” e “Ferruccio” per passare, quindi, ad altre città, fra le quali Lucca, Torino, Livorno, Siena, Firenze, Montepulciano, Ancona e Termoli. Gravi distruzioni subirono pure alcune case massoniche della Calabria», così come quelle di quasi tutte le principali città. Nel gennaio del 1925 venne colpita la sede centrale del Grande Oriente d’Italia, nonché numerose altre sedi fra le quali quella di Pisa, dove i locali vennero completamente devastati e i mobili e le suppellettili gettate in Arno. La violenza nell’autunno raggiunse il suo apice quando il giorno 11 ottobre i fascisti romani, guidati dal famigerato federale Italo Foschi, aggredirono la sede centrale di Piazza del Gesù 47, spaccando tutto. Gli squadristi erano un centinaio, non risparmiarono niente, anche le icone risorgimentali: i busti di Garibaldi, Mazzini, Oberdan, Bovio furono fatti a pezzi. I labari e un gran ritratto a olio del Palermi furono portati in processione in Turchia per le vie della Capitale e infine bruciati. I locali vennero così devastati da risultare inagibili; cosicché il Supremo Consiglio fu costretto a riunirsi in Palazzo Bernini, in via della Mercede. Alla violenza si aggiunse il disegno di legge Sulla disciplina di associazioni, enti e istituti e sull’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle amministrazioni provinciali e comunali e da istituti sottoposti per la Legge alla tutela dello stato e degli enti locali che, il 14 maggio, l’onorevole Emilio Bodrero illustrò alla Camera. Il 20 novembre, la legge fu approvata con 208 voti a favore, 6 contrari e 21 astenuti e sei giorni dopo fu pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale”. Con l’approvazione della legge sulle associazioni, la cessazione dell’attività massonica fu pressoché immediata. Il 22 novembre, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, dette disposizione che tutte le officine si sciogliessero. Il giorno successivo fu la volta della Serenissima Gran Loggia d’Italia. Infatti, il 23 novembre, mentre il Palermi si trovava a New York, il luogotenente Giovanni Maria Metelli emanava il decreto numero 245 che poneva fine ai lavori delle logge e delle camere superiori della comunione11. In questo frattempo gli Archivi delle comunioni massoniche non ancora distrutti dalla violenza squadrista furono sequestrati. Parte di quel materiale venne destinato, ma solo in parte utilizzato, per la mostra della rivoluzione fascista del 1932. Gran parte del materiale presumibilmente venne prelevato dai gerarchi fascisti, con trascorsi nelle logge massoniche, per evitare problemi e imbarazzanti ammissioni; altri sottrassero documenti compromettenti in modo da avere a disposizione un’arma di pressione per quando si fosse presentato il momento. Dopo questa prima scrematura il grosso della documentazione venne distrutto come si desume da questa relazione inviata nel 1933 al Ministero degli Interni: Il materiale massonico che trovasi depositato in Via Gino Capponi, è costituito, come noto a codesto On.le Ministero, da un centinaio di casse, contenenti carta (fascicoli, registri ecc.) e da vessilli, sciabole, sedili, quadri ecc. Tale materiale non potrebbe essere distrutto che col fuoco e per il trasporto in località adatta occorrerebbero spese non lievi. Questo ufficio pertanto, ritenendo più conveniente la cessione gratuita del materiale alla Croce Rossa, ha fatto proposta alla Presidenza dell’Ente e, d’accordo, sono state fissate le seguenti modalità: il materiale cartaceo, verrebbe inviato al macero e le operazioni di sigillamento dei sacchi, trasporto in cartiera e immissione nelle apposite vasche per la macerazione, verrebbero presenziate da Agenti di P.S, al fine di evitare qualsiasi sottrazione. Per il restante materiale, esso sarebbe spezzato, trinciato, scalpellato, sempre in presenza degli Agenti, onde far scomparire la provenienza e poi venduto come rottame metallico, da ardere, insieme ad altro materiale di simile qualità. In tal modo si risparmierebbe una spesa all’Erario, mentre la Croce Rossa ne ritrarebbe un utile. Al riguardo resto in attesa delle determinazioni di codesto On. le Ministero. Non sappiamo come mai il materiale attualmente conservato all’Archivio di Stato sia così scarso, specie confrontando come l’antimassoneria abbia invece dotato la Spagna dell’“Archivo Histórico Nacional – Sección Guerra Civil” di Salamanca, specificatamente per la “Sección Especial o Masónica”, che è uno dei più importanti archivi Europei. In Spagna infatti la repressione anti-massonica, iniziata immediatamente dopo la sollevazione del 19 luglio 1936 che scatenò una sanguinosa guerra civile, fu direttamente ispirata dal generale Franco che provava nei confronti della Liberomuratoria una vera e propria fobia. Al grido di “No pasarán! Non passerà il marxismo, non passerà la massoneria” iniziava “la crociata contro la politica, il marxismo, la massoneria” come proclamava il giornale falangista “Arriba”. S’instaurò un clima d’intolleranza con esecuzioni sommarie che si estesero man mano che i nazionalisti conquistavano nuovi territori coinvolgendo non solo Massoni autentici, ma anche quanti venivano indicati come tali. Essere Libero Muratore significava la condanna a morte senza processo né appello: furono uccisi 30 Fratelli a Salamanca, 30 a Zaragoza, 15 a Logroño, 7 a Burgos, 17 a Ceuta, 24 ad Algeciras, 30 a Valladolid e a Malaga. In un giornale del 23 settembre 1939 si legge: “Catturarono tutti i Massoni senza distinzione di classe […] In camion li portarono nel vicino villaggio di Viznar e lì fucilarono i Venerabili. Dopo aver incarcerato gli altri per parecchi giorni, li condussero in un campo, li costrinsero a scavare le proprie stesse fosse. Man mano che terminavano lo scavo essi erano abbattuti senza pietà.” Non furono colpiti solamente i vivi ma anche i morti, profanando le tombe dei Massoni, tanto che “nel 1938 lo stesso Franco fece promulgare un decreto per il quale dovevano essere rimossi dai cimiteri tutte le iscrizioni e i simboli di carattere massonico”15 e furono fatte esumare le spoglie mortali del duca di Wharton, fondatore della prima loggia spagnola nel 1728, perché poste in terra consacrata. «Con il decreto del 20 aprile 1937 la “Secretaría General del Jefe de Estado” ordinava la raccolta di tutto il materiale massonico per ottenere informazioni sui nemici dello stato creando una “Oficina de Investigación y Propaganda Anticomunista” (OIPA) che con l’appoggio delle autorità doveva raccogliere, analizzare e catalogare “la mayor cantidad de pruebas de las actividades marxistas en España y en particular de las Sociedades Masónicas”. Il 29 maggio 1937 venne creata la “Delegación de Asuntos Especiales” che assorbì i compiti dell’Oipa allargando l’opera verso altre “Sectas Secretas” come Rotary e Società Teosofiche. Anche la “Delegación” dipenderà direttamente dalla “Secretaría General del Jefe de Estado” che aveva sede a Salamanca. I gruppi di ricerca erano formati da tre funzionari che avevano il potere di perquisire qualsiasi locale o ufficio e sequestrare “todo el material de propaganda de todas clases que el comunismo y su organizaciones adlateres hayan utilizado para su campañas en nuestra patria”. Un anno più tardi, il 26 aprile 1938, venne affiancata alla “Delegación de Asuntos Especiales”, denominata “Sección masónica”, una “Delegación del Estado para la recuperación de documentos” specificatamente orientata verso la ricerca di materiale prodotto dalle organizzazioni politiche, sindacali e sociali repubblicane e per questo conosciuta come “Sección político-social”. Successivamente, nel 1944 i due organismi furono fusi in una unica “Delegación de Servicios Documentales” dipendente dalla “Presidencia del Gobierno”, operante fino al 1977 quando, con un Regio Decreto, l’Archivio passò alle dipendenze del Ministero della Cultura che lo incorin Turchia porò nell’Archivo Histórico Nacional. Essendo nato con scopi repressivi e giudiziali l’Archivio fra l’altro contiene documenti (balaustre circolari, decreti, lettere, diplomi, attestati, verbali, piedilista, ecc.) provenienti da istituzioni e logge massoniche spagnole ed estere, circoli rotariani e teosofici». Fra questi documenti fortunatamente è conservata anche una parte del patrimonio storico che si riferisce alla nascita della nostra Obbedienza e ai rapporti che essa ha avuto sin dalla sua origine con le più importanti Potenze estere, fra le quali la Turchia è stata una di quelle a noi più vicina sin dalla nostra nascita. Nell’Annuario n.1 della Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato – Italia e Colonie, nella sua edizione per l’estero, sono riportati gli eventi e i rapporti d’amicizia con le Obbedienze estere nel periodo dal 24 giugno 1908 al 20 settembre 1910 ed emerge come fra le Potenze Massoniche Regolari del Rito Scozzese Antico e Accettato che immediatamente strinsero rapporti d’amicizia con il Supremo Consiglio feriano sia presente il Supremo Consiglio di Turchia, con sede a Costantinopoli, con il suo Sovrano Gran Commendatore, Sua Altezza il Generale Principe Aziz Hasan Paşa 33°, nato al Cairo l’8 dicembre 1873 e ivi morto l’11 dicembre 1925, proveniente dalla loggia «Constitución» dell’Oriente spagnolo, assieme al Gran Segretario David J. Kohen o Cohen. Il 3 marzo 1909 era stato riattivato infatti il dormiente Supremo Consiglio di Turchia, con l’apporto di Fratelli italiani, spagnoli, francesi, egiziani. Per rendere attivo l’Oriente Ottomano, il 13 luglio del 1909, 14 uomini di religione musulmana, cristiana, ed ebraica si riunirono nella casa di David Kohen, a dimostrare l’universalità della nostra Istituzione. Da questa riunione nacque in modo effettivo il Grande Oriente Ottomano. Sia l’Ill.mo e Pot.mo Fr. S.A. Principe Aziz Hasan Paşa 33° S.G.C. che il Pot.mo Fr. David J. Kohen divengono membri onorari del nostro Supremo Consiglio quasi sin dall’inizio della nostra storia, iniziata il 24 giugno 1908, e il 3 novembre 1909 viene pubblicato sul “Bollettino Massonico”17 il riconoscimento ufficiale del Supremo Consiglio dell’Impero Ottomano, nonché del Serenissimo Grande Oriente di Turchia, che era evidentemente giunto in un momento antecedente alla pubblicazione. Nell’Assemblea ordinaria del Supremo Consiglio del 27 dicembre 1909 come primi fra le relazioni internazionali verranno presentati i decreti di riconoscimento del Supremo Consiglio dei 33 per l’Impero ottomano con scambio dei Garanti d’Amicizia e il decreto di riconoscimento del Grande Oriente di Turchia con scambio dei rappresentanti. I documenti relativi a una lettera del turco Fr. Sakakini che, disconoscendo l’Obbedienza feriana, chiede di stabilire rapporti d’amicizia con il Grande Oriente d’Italia, che sarà ben lieto di concederli, vanno a mio parere interpretati come quelli di un gruppo massonico in contrasto con l’Ill.mo e Pot.mo Fr. S.A. Principe Aziz Hasan Paşa 33°, S.G.C. del Supremo Consiglio dell’Impero Ottomano. Dunque i rapporti fra le nostre Obbedienze sono nati assieme a Esse, come comprovano i documenti del periodo iniziale della nostra Comunione conservati nell’AHN-S, e una visita in Turchia del nostro Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro – il Ven.mo e Pot.mo Fr. Antonio Binni – è la prova tangibile di come a distanza di un secolo fra la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia liberale di Turchia e il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato di Turchia, l’amicizia sia forte e solida. Una delegazione della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori presieduta dal suo S.G.C.G.M., il Ven. mo e Pot.mo Fr. Antonio Binni, si è recata, infatti, in visita in Turchia nei giorni 1-2-3 febbraio 2015. La delegazione era composta oltre che dal Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, dal Ven.mo e Pot.mo Fr. Luigi Pruneti, già S.G.C.G.M., attualmente Grande Oratore della Gran Loggia d’Italia, dall’Elett.mo e Pot.mo Fr. Paolo Notarbartolo di Sciara, membro aggiunto del Supremo Consiglio, dall’Elett. ma e Pot.ma Sr. Annalisa Santini, 2° Gran Sorvegliante della Gran Loggia d’Italia, dall’Elett.mo e Pot.mo Fr. Claudio Bottinelli, garante d’amicizia fra la Gran Loggia d’Italia e la Gran Loggia Liberale di Turchia, dall’Elett.ma e Pot.ma Sr. Serena Guidi, Gran Bibliotecario della Gran Loggia d’Italia, accompagnata da alcuni Fratelli del suo Oriente, dalla Risp.ma Sr. Maxine Gilhuys, M.V. della R.L.M. “Honor” all’Oriente di Firenze, accompagnata da numerosi Fratelli della sua Loggia. La visita è stata densa di avvenimenti di notevole importanza sia profana che istituzionale, primo fra tutti un Convegno organizzato il 2 febbraio 2015 dalla Istanbul Bilgi University, presso il Museo dell’energia dell’università, per celebrare tre celebri italiani: Dante Alighieri, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Donizetti e per esaminare l’interazione culturale e artistica esistente da molti anni tra la Turchia e l’Italia. Il convegno è stato aperto dal professor Yaman Akdeniz, in rappresentanza del Magnifico Rettore della Bilgi University e dal professor Antonio Binni, in rappresentanza dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, la più antica università europea. La prolusione accademica del nostro S.G.C.G.M., tradotta simultaneamente in lingua turca dal Fratello Onur Kutnak, ha riscosso una grande condivisione e apprezzamento fra il numeroso pubblico di studenti e docenti intervenuti all’importante avvenimento accademico. La proiezione del film “Il Mistero di Dante” del regista italiano Louis Nero, presente alla proiezione, e interpretato dai tre premi Oscar F. Murray Abraham, Taylor Hackford e Franco Zeffirelli, imperniato sull’interpretazione simbolica delle terzine dantesche, è stata seguita dalla relazione sull’esoterismo di Dante del professor Luigi Pruneti che ha illustrato come un autore al pari di Dante rimanga sempre misterioso, perché la sua vasta opera compendia il sapere di uno spaccato enorme della civiltà contemporanea. Il film cita ripetutamente i “Fedeli d’Amore”, un presunto cenacolo iniziatico al quale si dice appartenesse Dante. Il Professor Pruneti si è soffermato particolarmente su questo tema, affermando che è storicamente provata l’esistenza dei Fedeli d’Amore, lo stesso Poeta lo attesta nel commento al primo sonetto della Vita Nova, dove scrive: … propuosi di fare un Sonetto, nel quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che avea nel mio sogno veduto … concetto che riprenderà anche in un passo successivo della stessa opera. Non solo, ma il più celebre cronista fiorentino dell’epoca, Giovanni Villani, annota nella sua Cronica: nell’anno appresso 1283, del mese di Giugno, per la festa di san Giovanni, essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo, e tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti … si fece nella contrada di santa Felicita oltrarno … una compagnia e brigate di mille uomini o più tutti vestiti di robe bianche con uno signore detto dell’Amore …. Luigi Pruneti ha aggiunto che con tutta probabilità i Fedeli d’Amore erano gli Stilnovisti stessi, partecipi di una nuova scuola poetica, ormai lontana dalla tradizione trovadorica. È possibile che all’interno di questa cerchia elitaria circolassero anche idee politiche, sociali e religiose nuove, oggetto di sospetto da parte del conformismo culturale dominante. Oltre a siffatta ipotesi, però, la scienza, la filologia, la storia, l’ermeneutica dei documenti non ci consente di andare. Ciò non esclude che rimangano innumerevoli aspetti su Dante e la sua vita ancora poco chiari. Il relatore sottolinea come Dante nasca in un contesto ambientale di assoluta eccezionalità. La sua città, Firenze, ebbe nel corso del XIII sec. uno sviluppo economico e demografico imprevedibile, tanto che, fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, Arnolfo di Cambio progettò la VI cerchia di mura atta a proteggere un insediamento di trecentomila abitanti. Le continue lotte fra fazioni (guelfi e ghibellini, bianchi e neri) non ostacolarono la crescita economica e demografica, anzi la città dimostrò un’incredibile capacità di assorbire correnti di pensiero, tendenze artistiche e innovazioni di ogni genere. Capitanata da una classe di banchieri e mercanti spregiudicati e famelici, affetti da bramosia di potenza e orgogliosi, ma al tempo stesso colti e raffinati, Firenze approfittò in pieno delle contingenze favorevoli di quel periodo. Il sogno occidentale di conquistare e controllare la Palestina era ormai tramontato nel 1182 quando il Saladino riconquistò Gerusalemme. In breve tutti gli stati feudali d’Oriente collassarono; nel 1191 l’ultimo lembo d’oltremare controllato dai Templari, Château Pèlerin, fu evacuato. Terminò così un’epoca e ne iniziò un’altra, le Crociate lasciarono il posto a proficui rapporti commerciali. Ciò consentì che la cultura classica, conservata ed elaborata dal mondo islamico, penetrasse in Occidente. Sorsero, grazie al Canone di Avicenna, le scuole mediche di Montpellier e di Salerno, i commenti su Aristotele di Averroé entrarono di prepotenza nelle Università del continente, orizzonti nuovi si posero davanti agli occhi dell’Europa, pronta ormai ad abbandonare l’eredità imperiale di Carlo Magno per diventare terra di nazioni. Fu l’età di Dante un valico di civiltà e la Divina Commedia ne fu uno specchio fedele. Nel finale il film si sofferma sugli eresiarchi nella città di Dite (canti VIII e IX dell’Inferno), terra sconsolata protetta da mura ferrigne: Noi pur giugnemmo dentro l’alte fosse / che vallon quella terra sconsolata: / le mura mi pareon che ferro fosse. Più oltre, al limitare dell’VIII cerchio Dante scambia per torri la mole ciclopica dei giganti: poco portai in là volta la testa, / che mi parve veder molte alte torri. È Virgilio a dirgli che quelle forme colossali non sono torri, ma esseri infernali. La loro altezza è tale a ricordare al Poeta le mura di Monteriggioni: come sulla cerchia tonda / Montereggion di torri si corona, / così la proda che il pozzo circonda / torreggiavan di mezzo la persona / gli orribili giganti, cui minaccia / Giove del cielo ancora, quando tuona. Monteriggioni, celebre centro fortificato nel senese, è associato, dunque, da Dante al pozzo del dolore, il fatto non è casuale, perché probabilmente proprio fra la corona di torri di Monteriggioni egli seppe che era stato esiliato. Nell’opera del poeta il dato biografico si unisce spesso a quello storico, cosa che talvolta fa intuire aspetti più velati. Ritornando ad esempio agli eresiarchi, troviamo fra di loro un personaggio illustre come Farinata degli Uberti che Dante non aveva conosciuto ma la cui fama era notevole a Firenze: Ed ei mi disse: “volgiti che fai? / vedi là Farinata che si è dritto: dalla cintola in su tutto il vedrai”. / […] / ed ei s’ergea col petto e colla fronte, / come avesse l’Inferno in gran dispitto. Manente degli Uberti, detto Farinata, fu condannato da Dante a questa pena, perché insieme alla moglie Adeletta faceva parte della chiesa catara fiorentina e forse come la consorte in punto di morte aveva ricevuto il Consolamentum. È questo un esempio poco esplorato della storia della Firenze dantesca. Come pure andrebbe approfondita la figura dell’amico di Dante Guido Cavalcanti, citato dal di lui padre, Cavalcante dei Cavalcanti, sempre nel X Canto dell’Inferno: piangendo disse: “se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? E perché non è teco?” / E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui che attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”. Probabilmente con questi versi Dante vuol farci sapere che l’amico Guido aderiva al pensiero di Averroè e di conseguenza concepiva la Divinità come assoluta immobilità e non credeva all’immortalità dell’anima. Tutto ciò fa comprendere, ancora una volta, come sia complessa e articolata la cultura del periodo di Dante. In questa complessità risiede proprio il principale mistero di Dante. Questa articolata analisi, che ha destato vivo interesse presso gli studiosi turchi, è stata seguita poi dall’intervento del dottor Mustafa Tolay, appartenente alla Società dantesca italiana. Garibaldi, Donizetti e la presenza genovese a Costantinopoli hanno poi costituito il tema delle relazioni degli altri studiosi turchi che hanno dimostrato, oltre che una notevole padronanza degli argomenti, anche un grande amore per l‘Italia e la sua cultura.La sera del 2 febbraio si è svolta poi la Tornata di Gemellaggio fra la R.L. Aydin all’Oriente di Istanbul, presieduta dal suo Maestro Venerabile, il Risp.mo Fr. Yalçin Ülker e la R.L. Honor all’Oriente di Firenze, con il suo Maestro Venerabile, la Risp.ma Sr. Maxine Gilhuys, Tornata alla quale hanno partecipato le più alte autorità della Gran Loggia Liberale di Turchia e durante la quale le parole di saluto pronunciate dal S.G.C.G.M. della Gran Loggia d’Italia, il Ven.mo e Pot.mo Fr. Antonio Binni, sono state accolte da una prolungata libera batteria di plauso e da sinceri e sentiti ringraziamenti da parte delle Autorità ospitanti. Il 3 febbraio il Sovrano Gran Commendatore, accompagnato da una delegazione ristretta, si è recato in visita al Supremo Consiglio per la Turchia del Rito Scozzese Antico e Accettato, dove è stato ricevuto con i più alti onori dai suoi membri e dal Sovrano Gran Commendatore, Ven.mo e Pot.mo Fr. Hüseyïn Özgen. Al rituale scambio di doni è seguita la visita all’archivio storico e alla biblioteca del R.S.A.A. dove, alla luce della documentazione presente, i rapporti fra la nostra Istituzione e il R.S.A.A. di Turchia sono apparsi strettissimi sin dalla fondazione della nostra Obbedienza. Il Gran Maestro della Gran Loggia Liberale di Turchia, Ven.mo e Pot.mo Fr. Doğan Cantekin, assieme ai suoi più stretti collaboratori, attendeva poi il nostro S.G.C.G.M., accompagnato dalla Sua delegazione, per un ricevimento ufficiale seguito da una colazione di lavoro. Riaffermando l’importanza dei legami in Turchia già esistenti fra le due Obbedienze, i Gran Maestri hanno deciso di rafforzare i tradizionali legami fra le Potenze del Mediterraneo, culla delle maggiori civiltà della storia. Nel pomeriggio si è svolta la visita alla sede della «Società Operaia italiana di Mutuo soccorso in Costantinopoli», che prenderà il nome popolare di Casa Garibaldi, giacché l’Eroe dei Due mondi ne era il Presidente Effettivo, seguita da un ricevimento al Consolato organizzato dal console generale, la Dott.ssa Federica Ferrari Bravo che si è dichiarata felicissima e onorata di ospitare la rappresentanza italiana e ha mostrato i preziosi cimeli della Casa, attualmente custoditi nella sede Consolare. La visita è stata dunque un successo completo, sia dal punto di vista culturale che da quello istituzionale, giacché i principi della Massoneria liberale da noi propugnati – partiti dallo studio dell’esoterismo di Dante, il più grande ambasciatore della cultura italiana, nella cui conoscenza i Ven.mi e Pot.mi FF. Antonio Binni e Luigi Pruneti si sono dimostrati Maestri – hanno avuto il loro culmine nell’entusiastica accoglienza riservata alla nostra Istituzione da parte delle Autorità e dei Confratelli turchi, particolarmente sensibili in questo momento storico ai concetti di libertà emersi dal dialogo concreto e costruttivo e dal confronto fraterno offerti dal nostro Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro.

Il Supremo Consiglio per la Turchia – di H.Özgen
Le prime Logge sotto la dipendenza di Obbedienze estere furono create fin dal 1738 nel territorio dell’Impero Ottomano. Per un lungo periodo, i Fratelli cittadini ottomani furono iniziati nelle logge francesi, italiane, inglesi, spagnole, tedesche e greche. Verso la metà del XIX secolo, si volle creare una Gran Loggia nazionale. Da un lato la crescita di una corrente nazionalista nel mondo, dall’altro la resistenza delle Obbedienze estere alla creazione di una Gran Loggia nazionale costituirono la ragione per dare inizio all’opera sublime di un Supremo Consiglio. L’elevazione del Principe d’Egitto Abdulhalim Pacha al 33° grado da parte del Supremo Consiglio di Francia e le patenti che da esso gli furono concesse, costituiscono la base ufficiale per la creazione del Supremo Consiglio per la Turchia nel 1861. Il Principe Abdulhalim Pacha lasciò Istanbul nel 1864, per soddisfare la propria ambizione politica in Egitto. Sostenuto dalla politica inglese, il Fr. Abdulhalim Pacha tentò invano di detronizzare il Governatore d’Egitto, che era suo nipote, ma non vi riuscì. Il Supremo Consiglio per la Turchia, tre anni dopo avere perso il proprio Gran Commendatore, elesse un altro Fratello, l’Ill.mo Hyde Clark, alla carica di Pot.mo Sovrano Gran Commendatore. Fu lui a riformare il Supremo Consiglio e, malgrado le difficoltà dell’atmosfera politica dell’epoca, riuscì a creare numerose Officine a Istanbul e a Izmir. Il Supremo Consiglio degli Stati Uniti di America, Giurisdizione Sud, riconobbe nel 1868 il Supremo Consiglio per la Turchia come Sovrano, Indipendente, Regolare, e come l’unico rappresentante del potere del Rito Scozzese Antico e Accettato, dal 1° al 33° grado, per il territorio Ottomano, a partire dal 1861. L’oppressione subìta dal Supremo Consiglio per la Turchia e dai suoi membri da parte del Sultano Abdulhamid II li obbligò a mettersi in sonno nel 1880. Il Sultano Abdulhamid II fu detronizzato nel 1908 e, dopo un anno, il Supremo Consiglio per la Turchia fu risvegliato, il 9 marzo 1909, dal Principe Aziz Hasan Pacha. Questo principe, che era anche generale dell’esercito, ricevette il 33° grado in Francia. A tal proposito è opportuno precisare che il risveglio era stato deciso nel 1907 durante la Conferenza dei Supremi Consigli a Bruxelles e che il sostegno dei Supremi Consigli del Belgio, della Francia, del Lussemburgo e della Grecia era stato molto fraterno. Subito dopo il suo risveglio, il Supremo Consiglio fece un appello e inviò una dichiarazione a tutte le logge del Paese, affinché si unissero per creare una Gran Loggia nazionale. L’appello fraterno fu ascoltato ed il Grande Oriente di Turchia fu creato sotto gli auspìci del Supremo Consiglio per la Turchia, il 1 agosto 1909, con la partecipazione di 8 Rispettabili Logge. L’annuario del 1911 dell’Associazione Massonica Internazionale evidenzia 23 Officine per il Grande Oriente di Turchia. 15 logge create in due anni è un grande risultato. Da notare che un Concordato fu firmato tra il Supremo Consiglio e il Grande Oriente, subito dopo la fondazione del Grande Oriente di Turchia. La storia del nostro Supremo Consiglio è ampiamente riassunta nel libro preparato per il nostro centocinquantenario. Tuttavia è doveroso sottolineare che il Supremo Consiglio per la Turchia ha lavorato senza tregua dopo il proprio risveglio e conserva tutti i propri archivi da più di 100 anni. Nonostante il fatto che una parte importante dell’archivio massonico universale sia stata distrutta o perduta nel corso delle due ultime guerre mondiali, il Supremo Consiglio per la Turchia conserva la propria corrispondenza, la quale sarà diffusa in futuro tramite nuove pubblicazioni. Il Grande Oriente, creato nel 1909, assunse il nome di Gran Loggia di Turchia e rimase in sonno dal 1935 sino al 1948. A seconda dell’influenza anglosassone, durante gli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, alcuni Fratelli, o la maggioranza di essi, vollero aderire alla Massoneria detta regolare. Questo fu il motivo della scissione in seno alla Gran Loggia, tuttavia il Supremo Consiglio, che non era entrato in sonno, rimase sempre unito e fedele ai propri principi europei. Nel 1966, il Supremo Consiglio ha annullato il proprio Concordato con la Gran Loggia, che era divenuta regolare secondo i princìpi anglosassoni. I Fratelli che hanno lasciato la Gran Loggia di Turchia, hanno creato un’altra Gran Loggia sotto l’egida del Supremo Consiglio per la Turchia e con princìpi sempre adogmatici. Il nome di questa nuova Gran Loggia fu “Gran Loggia Liberale di Turchia” e venne creata nel 1966. Un Concordato fu firmato dopo la sua creazione. La Gran Loggia Femminile di Turchia festeggia quest’anno il proprio XXIV anniversario. Il Supremo Consiglio per la Turchia ha sempre sostenuto la massoneria femminile turca. Essendo contro ogni forma di dogmatismo, di integralismo e di dispotismo, noi abbiamo per principio quello di ampliare i limiti del nostro saper vivere insieme, senza distinzione di razza, di sesso, di colore della pelle, di religione, di lingua e di classe sociale. Il Supremo Consiglio per la Turchia ha deciso nel 1994 di creare officine dedicate alla Massoneria Femminile, dirette dai Grandi Ispettori Generali e dai fratelli autorizzati. Non trattandosi di un’Obbedienza mista, ma avendo Officine unicamente femminili dove, a seconda del loro grado e delle loro qualità, le Sorelle assumono di volta in volta la conduzione dei lavori, il Supremo Consiglio per la Turchia ha l’onore, attualmente, di avere Sorelle che rivestono il 32° grado. Verrà presto il giorno nel quale le Sorelle Turche rivestiranno il 33° grado e saranno allora libere di costituire il proprio Supremo Consiglio. Il Supremo Consiglio per la Turchia è un istituzione Laica, Umanistica e Scientifica. Così come recita il suo motto: Laicus, Humanitas, Scienti. La sua filosofia è basata sul pensiero libero e sulla libertà di pensiero. La laicità rispetta ogni genere di convinzione e di opinione. Essa è un modo di vivere contro i dogmi ed i pregiudizi, è una sorta di evoluzione del pensiero, è modernità, democrazia, tolleranza, è il saper vivere insieme e con il rispetto di se stessi e degli altri, delle loro credenze, idee e libertà. L’umanesimo significa porre l’ uomo al centro della vita. È l’arte di lavorare per divenire Uomo. L’umanesimo è sapere mettere le proprie capacità al servizio del processo di evoluzione dell’Umanità, il sapere vivere insieme e il lavorare per il bene del futuro dell’Uomo, anche oltre e dopo la propria personale esistenza. L’umanesimo è la consapevolezza che tutto deve essere svolto con l’impegno del lavoro e con il contributo dell’uomo e che si tratta di un cammino senza confini. L’umanesimo è lo scopo della Massoneria; lavorare per contribuire alla pace e alla felicità dell’Umanità intera. Non siamo tutti uomini di scienza. Non siamo scienziati, ma uomini e donne che utilizzano i risultati dell’evoluzione della scienza nei loro pensieri, nelle loro azioni e nelle loro missioni. Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica turca, diceva: “la guida più sicura nella vita è la scienza”. Egli sottolineava come fosse importante affrontare i problemi della società non con i dogmi o con le credenze, ma con il sostegno dei risultati scientifici e della ragione stessa, per poter lottare contro l’ignoranza. Il Supremo Consiglio per la Turchia con i suoi tre principi sostiene il motto del Rito, Ordo ab Chao, e si rinnova secondo le necessità dei tempi, perché siamo fedeli al Rito Scozzese Antico e Accettato, ma progressisti nell’evoluzione della vita universale. La politica rimane fuori dalle nostre Officine. I nostri pensieri politici personali non contano, non si critica o non si elogia mai un movimento politico durante il nostro lavoro massonico. Noi esigiamo dai nostri Fratelli e dalle nostre Sorelle il rispetto di questo principio, che ci rende più fraterni nonostante le differenze. Così avviene nei confronti delle religioni. Abbiamo membri musulmani, ebrei, cristiani, agnostici, atei e altri ancora. Gli ortodossi e i non credenti possono convivere insieme nel nostro Supremo Consiglio, perché la concordia regna tra noi. Il Supremo Consiglio per la Turchia opera per il bene dell’Umanità intera. È strettamente legato alla Catena d’Unione Universale della Massoneria. Ne è prova il quadro diversificato degli Incontri Internazionali. La Gran Loggia Liberale di Turchia, la Gran Loggia Femminile di Turchia ed il Supremo Consiglio per la Turchia del Rito Scozzese Antico e Accettato lavorano in perfetta armonia e con relazioni strette e fraterne. Le tre istituzioni massoniche lavorano svincolate dalle leggi della Turchia, come organizzazioni civili. Esse sono libere ed eguali, con le medesime responsabilità sociali. Sotto questo aspetto: 1+1+1=3. Il Supremo Consiglio accoglie i membri appartenenti a queste due Gran Logge. La somma simbolica delle matricole della Gran Loggia Liberale della Turchia e della Gran Loggia Femminile di Turchia costituisce un insieme quantitativo, nel quale si trova, a propria volta, la matricola simbolica del Supremo Consiglio per la Turchia. Dunque: 1+1=3. l tre corpi massonici lavorano secondo il Rito Scozzese Antico e Accettato, il quale ricopre i gradi dal 1° al 33°. Essi applicano la struttura e i principi di questo Rito. E sotto questo aspetto: 1+1+1=1. Il Sovrano del nostro Rito per la Turchia è il Supremo Consiglio, come previsto dal R.S.A.A. La Massoneria Scozzese, con le sue aperture realistiche sulla ricchezza della storia, abbraccia l’universalità e i colori delle culture locali. Ed è così che ci troviamo uniti, mano nella mano, al nostro passato, al nostro presente e al futuro dell’Umanità. Infine, il nostro Rito ci impone obblighi nei confronti dell’Umanità intera, senza distinzione di sorta. Queste sono le nostre responsabilità. Noi siamo responsabili di ciò che facciamo e di quanto trascuriamo. Dobbiamo lavorare per il nostro perfezionamento personale, ma anche per il miglioramento del livello culturale, sociale, economico, per la felicità della nostra patria e per la pace in questo piccolo mondo. Non è facile da realizzare, ma i Massoni sono architetti. Essi costruiscono se stessi, ma costruiscono contemporaneamente il loro ambiente, il loro Paese e il mondo ove lasciano le impronte del loro lavoro. Sono gli scultori che scolpiscono l’avvenire. La Massoneria Progressista ed Adogmatica della Turchia apre le proprie braccia ai Fratelli e al le Sorelle della Massoneria d’Italia, oggi come in passato, pronta a lavorare insieme, per un futuro più giusto e più umano. Ordo ab Chao deve essere sempre valido per noi, tra di noi e tra i nostri simili, sia in ambito massonico sia in ambito profano.

Impero Ottomano – di Roberto Motta Sosa
Massoneria europea e Grande Oriente d’Italia tra nazionalismo egiziano e Giovani Turchi
La cosiddetta “Massoneria moderna”, già operante nel continente europeo dai primi decenni del XVIII secolo, ebbe un ruolo tutt’altro che marginale nell’Impero Ottomano, considerato il ruolo che questa istituzione ebbe negli sviluppi politici e culturali della Sublime Porta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, fino alla rivoluzione dei Giovani Turchi2 (1908). Quest’ultimo evento può essere considerato come l’inizio di una nuova fase nella vita politica dell’Impero Ottomano, contrassegnando l’ultimo periodo della sua esistenza fino all’istituzione della Repubblica nel 1923, data dalla quale tradizionalmente si fa principiare la storia della Turchia moderna e laica e, in senso lato, di buona parte del Medio Oriente contemporaneo. Come ha infatti posto all’attenzione Sergio Romano, l’importanza dei Giovani Turchi è legata pure alla circostanza non irrilevante che: «[…] da quel piccolo gruppo di ufficiali laici e massoni, spesso educati nelle accademie militari europee, emerse alla fine della Grande Guerra Kemal Ataturk, […] e da lui discendono tutti i “colonnelli” che hanno governato i Paesi islamici dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale: Reza Khan in Iran, Nasser e Sadat in Egitto, Kassem e Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia, Amin el-Hafez e Hafez al-Assad in Siria»4 . Tale pagina di storia ottomana è stata ben illustrata dallo studio italiano Il mito dell’Oriente e l’espansione massonica italiana nel Levante, di Barbara De Poli, che ha messo in luce come le logge massoniche nell’Impero Ottomano costituissero, nella maggior parte dei casi, una sorta di rifugio (anche in virtù dell’allora vigente regime delle capitolazioni) per le dissidenze ideologiche e politiche, rappresentate in particolar modo dalla borghesia emergente liberale e democratica, dalle minoranze etniche e religiose attive tra Ottocento e Novecento e non ultimi dagli ambienti militari più progressisti, alcuni dei quali formatisi, come già visto, nelle accademie europee. Il merito principale del lavoro di Barbara De Poli è però quello di avere dipinto un quadro esaustivo della situazione specifica della Massoneria italiana nell’Impero Ottomano, a fronte di una condizione in cui: «[…] la storia generale della Massoneria in Medio Oriente ancora attende di essere scritta […]». In generale nell’immaginario massonico sono numerosi i riferimenti (in alcuni casi mitici) a contatti e scambi di idee e conoscenze ermetico-filosofiche tra l’occidente cristiano e l’oriente islamico, avvenuti antecedentemente la nascita della cosiddetta “Massoneria speculativa moderna” nel 1717, tanto che la studiosa italiana scrive che: «La “colonizzazione” massonica del Levante, che ha inizio nell’ultimo scorcio del Settecento, è preceduta da un immaginario potente, che ambienta nell’Oriente antico il mito fondativo della Massoneria stessa». Tale “mito fondativo” si richiamava espressamente a: «un Oriente mitologico – segnatamente all’Egitto – quale fonte originaria […] segnandone sin dalle origini la simbologia […]»10. La genesi e la successiva evoluzione storica della Libera Muratoria, specificatamente nell’Impero Ottomano, fu debitrice nelle sue fasi iniziali degli apporti di francesi, italiani e del non meno rilevante ruolo svolto dalla componente ebraica, in particolare per quel che concernette lo sviluppo della Massoneria in Egitto, soprattutto negli anni Ottanta del XIX secolo, e in Turchia. È però innegabile che quello italiano fu determinante per il radicamento della Massoneria nel Levante, tanto che Barbara De Poli sottolinea come le logge italiane fossero: <>11. La prima “officina”, alle dipendenze del Grande Oriente d’Italia, fu fondata in Siria, a Aleppo, dove cittadini italiani istituirono la loggia Helbon. Dalla loggia Helbon derivarono altre logge come la Surea a Antiochia, Siria a Damasco, Speranza a Alessandretta, Henderson a Ayintab, Luce d’Adana e Unione di Homs a Homs. Dove però l’azione della Massoneria italiana risultò più incisiva fu in Egitto e in Turchia e, dato importante, sottolinea la studiosa, non solo nell’ottica della fondazione “delle identità massoniche nazionali”, il cui interesse era prevalentemente rivolto ai lavori rituali di loggia, ma: «pure nella sfera più strettamente politica», tanto che l’azione massonica italiana nei due Paesi: «si trovò di fatto fortemente incardinata nelle vicende dell’epoca che avevano come posta da un lato la penetrazione delle potenze coloniali, dall’altro la realizzazione delle istanze nazionaliste locali»12, che si scontravano con l’assolutismo anti liberale del potere sultanale di Costantinopoli. Il pensiero mazziniano in particolare, come si vedrà più avanti, ebbe forte impatto su questi movimenti politici, per mezzo dei suoi contenuti ideologici e dei programmi di gruppi quali la Carboneria e la Giovine Italia. I due casi, uno egiziano e l’altro turco, sono fondamentali quindi per la loro specificità e importanza nell’evoluzione, non solo della storia dei rituali massonici concernenti il dibattito sulla tradizione iniziatica nelle diverse logge ottomane, ma pure delle vicende politiche e economiche dell’Impero Ottomano. Per quel che riguardò l’Egitto di Mehmet ‘Ali è noto che le prime logge furono fondate da militari francesi che giunsero con la spedizione di Napoleone Bonaparte nel 1798. Queste “officine” ebbero tuttavia, fa notare De Poli, vita breve svolgendo la loro attività durante gli anni Quaranta del XIX secolo, quando cioè l’Egitto iniziò a rappresentare un nodo strategico nel quale si intrecciavano gli interessi di Francia, Gran Bretagna e Impero Ottomano per il controllo dei traffici coloniali. A partire dal 1849 alcuni italiani fondarono a Alessandria d’Egitto e al Cairo due logge aderenti al Rito Scozzese Antico e Accettato (o Antico Accettato). Fin da subito queste, oltre a rappresentare centri di emanazione per opere filantropiche e attività culturali, divennero in breve anche: «luoghi fortemente politicizzati»16. Un dato, quello dell’influenza politica delle officine italiane in Egitto, condiviso e messo in risalto anche da uno studioso di formazione cattolica quale Massimo Introvigne, secondo cui: «Nel 1874 il Grande Oriente di Palermo – negli anni delle complesse trattative per la riunificazione della Massoneria italiana – aveva concesso una regolare patente per la costituzione in Alessandria di un “Grande Oriente d’Egitto” (di lingua italiana) […].» il quale : «[…] esisteva già in Egitto […], fin dal 1856 e è continuato fino ai giorni nostri godendo di un grande prestigio per il suo carattere insieme massonico e “egiziano”, influenzando le vicende politiche del Paese fino all’epoca del re Faruk […]». L’intreccio tra logge italiane e politica locale fu tale che a un certo punto non mancò di produrre ingerenze che furono prontamente sanzionate dall’autorità del kedivè. Infatti: «gli italiani, soprattutto, erano accusati dal governo di utilizzare la Massoneria come copertura di attività sovversive; segnatamente, di cospirare contro il kedivè Ismail in favore del principe Halim». Tali fatti non furono dunque incidenti di percorso, frutto di atteggiamenti dettati dall’imprudenza o dalla scarsa conoscenza delle cose locali, ma derivavano da una cosciente e calcolata azione massonica occidentale funzionale agli interessi europei, aventi come obiettivo la penetrazione culturale e economica nelle terre della Sublime Porta. Le due “comunità massoniche” di maggiore rilievo in Egitto fino alla fine degli anni Settanta del XIX secolo furono, come accennato, quella francese e italiana. Gli italiani in particolare poterono vantare una sorta di diritto di primazia, derivante dagli esuli carbonari e mazziniani già presenti in loco dopo i moti del 1821, del 1830 e del 1848. A questo dato va aggiunto che la comunità italiana, a prescindere dalle appartenenze muratorie, derivava la sua importanza anche dalla sua consistenza demografica, essendo seconda in numero solo a quella greca. Fu tuttavia la componente italiana a prevalere in un Grande Oriente d’Egitto pur fondato, come detto prima, da francesi al seguito del primo Bonaparte. Va altresì sottolineato che l’influenza italiana nelle logge egiziane era svincolata dal Grande Oriente d’Italia (GOI), che pure annoverava alcune logge in Egitto. La “Rivista della Massoneria Italiana” nel 1873 citava infatti quattro sole logge affiliate al Grande Oriente Italiano e tutte a Alessandria d’Egitto: Socrate, Nuova Pompeia, Lealtà e Moeris. Il peso della componente italiana si evince anche dal fatto che il consolidamento del Grande Oriente d’Egitto fu opera di personalità italiane: in particolare si ricorda la figura dell’ingegnere piemontese, e ex garibaldino, Solutore Avventore Zola, che riuscì a riscattare le sorti della comunità massonica italiana in Egitto, caduta in disgrazia per avere appoggiato Halim nella lotta politica tutta interna con il kedivè, cui si accennava sopra. Il 21 marzo 1873 infatti Zola: «venne proclamato all’unanimità Gran Maestro del Santuario di Memfi, Grande Oriente Nazionale d’Egitto, instaurando tra Massoneria e governo un rapporto che sembrava meglio garantire gli interessi di entrambe le parti». Sotto l’azione di Zola la comunità massonica italiana, che guidava il Grande Oriente d’Egitto, stabilì con il kedivè una sorta di patto nel quale si contemplava la possibilità per le logge italiane di continuare a avvicinare (e cooptare o influenzare) le élites locali, purché non fossero condotte azioni ostili all’ordine costituito facente riferimento all’autorità del kedivè, secondo la seguente formula riportata da Zola stesso nel suo Sunto Storico del Grande Oriente Nazionale d’Egitto del 1883: «Noi abbiamo impegnata la nostra parola d’onore che mai e poi mai ci saremmo occupati di politica senza essere dal Capo dello Stato invitati»21. L’importanza dell’elemento italiano nelle costituite logge egiziane è comprovato inoltre dall’uso, accanto all’arabo, della lingua italiana nei documenti ufficiali del Grande Oriente d’Egitto e dalla presenza di cittadini italiani nelle alte cariche muratorie. Questo nonostante molti cittadini egiziani fossero affiliati alle varie logge: questi ultimi infatti si vedevano sopravanzare negli alti gradi pure da affiliati francesi e greci. A partire dal 1876 tuttavia il quadro parve cambiare. L’egemonia italiana nel Grande Oriente d’Egitto iniziò a perdere terreno a favore di una sempre più consistente prevalenza britannica. La De Poli mette questo evento in relazione alla crescente pressione economica e politica esercitata da un “cartello” di interessi guidato dalla Gran Bretagna. Nell’aprile del 1876 le pressioni di Francia e Gran Bretagna sull’Egitto si fecero infatti più intense, fino a dare forma a una Commissione di controllo, avente come scopo quello di gestire le finanze egiziane per sanarne il debito estero, (così come, circa un decennio più tardi sarebbe avvenuto a Costantinopoli con la costituzione del Consiglio del Debito Pubblico Ottomano). Nel 1876 il Grande Oriente d’Egitto operò una fusione con il Supremo Consiglio dei 33° di Rito Scozzese. L’operazione non mancò di suscitare polemiche sia all’interno che all’esterno, tanto che si produsse una scissione dalla quale scaturì una Gran Loggia Nazionale d’Egitto. La prima Potenza estera a riconoscere tale secessione fu la Gran Bretagna, attraverso la Gran Loggia d’Inghilterra, con l’opera di mediazione svolta dal viceconsole britannico, Ralph Borg. A partire da questo evento l’influenza britannica nell’evoluzione della Massoneria egiziana nazionale, come in quella politica, assunse sempre più un peso maggiore. Sarebbe dunque sullo sfondo di questo scenario, suggerirebbe Barbara De Poli, originatosi a partire dalla scissione delle logge egiziane, che andrebbe inquadrata la grave situazione finanziaria e politica che non mancò di generare sommovimenti nazionalisti come quello urabista, a cui si oppose però una parte dell’élite egiziana, la cosiddetta aristocrazia turco-circassa, tendenzialmente vicina agli interessi britannici che, assumendo una posizione anti nazionalista, generò una frattura la quale ebbe come risultato quello di innescare rivolte e lotte intestine. Tale scontro di potere sortì l’effetto non irrilevante, per le sue conseguenze politiche, di limitare fortemente la sovranità egiziana, nonostante il Califfo e Sultano di Costantinopoli mantenesse una sorta di autorità nominale su questa zona dell’Impero. A tale processo involutivo della sovranità statale non fu estranea, come visto, la crisi finanziaria della Porta acuitasi a partire dagli anni Settanta del XIX secolo. La spaccatura si ripercosse pure sulle logge massoniche, alle quali appartenevano molte personalità di entrambi gli schieramenti. Ismail venne infatti deposto in favore del figlio Tawfiq il 26 giugno, mentre per tutto il 1879 si consumarono diatribe, scissioni e sconfessioni all’interno del Grande Oriente d’Egitto e della Gran Loggia Nazionale d’Egitto. De Poli riporta alcuni nomi di notabili egiziani filo britannici, implicati nella lotta politica e allo stesso tempo membri della Massoneria egiziana: Mahmud Sami Pasha al Barudi, colonnello dell’esercito e capo delle rivolte armate del 1879, Al-Afghani, il pubblicista israelita Ya’qub Sanu’, i giornalisti siro-libanesi Adib Ishaq, Ibrahim al-Laqqani e Salim al-Naqqash, Adb alSalam al-Muwaylihi (capo dell’Assemblea nazionale). Quest’ultimo in particolare ebbe rapporti e tenne riunioni segrete con Ismail Raghib Pasha, ex ministro delle Finanze e padre di Idris Raghib Bey, che fu Gran Maestro della Gran Loggia Nazionale Egiziana dal 1891 al 1922. La frattura tra nazionalisti urabisti e filo britannici ebbe conseguenze importanti pure all’interno delle comunità massoniche occidentali. Francesi e italiani infatti, questi ultimi spinti anche dal ricordo delle lotte dei movimenti patriottico-risorgimentali, i cui ideali come visto costituivano l’originario nucleo del Grande Oriente d’Egitto, si schierarono a fianco dei nazionalisti urabisti. Mentre la componente filo-britannica confluì nella Gran Loggia Nazionale d’Egitto di cui divenne Gran Maestro nel 1888 il kedivè Tawfiq, insediato dagli inglesi al governo dell’Egitto al posto del padre Ismail, che anni prima era stato l’attore principale del patto di “concordia” tra il Grande Oriente d’Egitto, guidato dall’italiano Zola, e il governo egiziano. Si concludeva così una fase della Massoneria egiziana in cui aveva predominato la componente italiana che, forte delle esperienze dei moti risorgimentali e delle imprese garibaldine, aveva contribuito in maniera significativa alla costruzione della forma mentis delle élites egiziane per circa tre decenni. Se in Egitto lo sviluppo dell’azione massonica italiana fu legato a logge operanti indipendentemente dal GOI, non così si può dire di quelle attive in Turchia (intendendo le due province dell’Impero sotto il diretto controllo del Sultano: l’Anatolia e la Rumelia, quest’ultima comprendente parte della Grecia). Nonostante il loro operato fosse in parte contemporaneo (anni Sessanta-Ottanta del XIX secolo), esso fu infatti la diretta emanazione del Grande Oriente d’Italia. Pure in Turchia come in Egitto la comunità italiana poteva contare su di un cospicuo numero: nel 1871 nella capitale Istanbul la componevano cinquemila individui, potendo vantare una storia importante fondata sulla storica presenza dei mercanti Veneziani nel quartiere di Galata, che per secoli era stato una zona franca per gli scambi commerciali della Serenissima. Allo stesso modo che in Egitto, la Massoneria italiana in Turchia si diffuse inizialmente grazie all’apporto di esuli italiani aderenti alla Carboneria dopo i moti del 1820-21 e soprattutto del 1848. La fondazione della prima loggia risale al 1863, a opera dell’Oriente di Costantinopoli e fu intitolata Italia. Inizialmente posta alle dirette dipendenze del Grande Oriente di Torino, vide in seguito il sorgere al suo interno di lotte intestine, fino a che venne rifondata nel 1867 con il nome di Italia Risorta, per rimanere attiva fino alla fondazione della Repubblica Turca nel 1923. Nell’arco dei suoi cinquantasei anni di operatività essa vide aderire complessivamente 245 fratelli, tra i quali la De Poli cita: il dottor in Turchia 56 Riccardo Zeri, direttore dell’ospedale italiano, Carmelo Melia, l’addetto commerciale dell’ambasciata d’Italia, il viceconsole Giuseppe Rosset e il chirurgo Emilio Cipriani, Senatore del Regno d’Italia. Nel momento di massima espansione il GOI in Turchia poteva contare su undici logge distribuite tra Istanbul, Smirne, Magnesia e Salonicco. Non in tutte queste logge tuttavia la presenza degli Italiani risultava esclusiva o maggioritaria: nelle logge di Smirne a esempio, dove si contavano affiliati greci, turchi e armeni, gli italiani erano solo nove. I componenti di queste logge provenivano in massima parte dalla piccola e media borghesia o da operai e funzionari sia della comunità italiana che straniera. L’ideologia, un po’ come si è visto per le logge egiziane, attingeva molto dal radicalismo risorgimentale italiano e tendeva a avere un’influenza sull’operato delle logge stesse verso l’esterno. Secondo un articolo pubblicato nel 1890 dalla Rivista della Massoneria Italiana infatti l’obiettivo prioritario era: «aprire le menti al popolo, fondando scuole laiche specie nelle colonie ove se ne sente più bisogno, ove con la lingua madre l’operaio va perdendo spesso le memorie della patria»26. Tuttavia, secondo la De Poli, l’importanza sostanziale della Massoneria italiana non andrebbe rintracciata negli sviluppi interni o nei contatti con la comunità italiana residente in Turchia, bensì nel rapporto: «che questa intrattenne con gli attori politici internazionali e nazionali dell’epoca, rapporto che ne condizionò lo sviluppo e, segnatamente, la rese protagonista della nascita della Turchia moderna»27. Inoltre l’insediarsi del GOI nelle province turche dell’Impero Ottomano con l’apertura della prima loggia nel 1863, accanto a quelle precedentemente fondate dalla Gran Loggia d’Inghilterra, dal Grande Oriente di Francia e dalla tedesca Gran Loggia di Amburgo, : «si integrava, direttamente o indirettamente, nel progetto di penetrazione politica dell’Italia in Medio Oriente»28. Tale obiettivo pare avesse avuto perfino una sorta di beneplacito dall’ambasciatore del Regno d’Italia presso la Sublime Porta, anch’egli massone. Nell’ottica del diplomatico italiano infatti, agendo in tale maniera, la Massoneria italiana avrebbe potuto costituire un utile strumento per estendere, ulteriormente, la sfera d’influenza degli interessi italiani nel Levante. Questa valutazione ebbe modo di essere confermata nel 1895 dal Gran Maestro della loggia francese L’Union d’Orient, Louis Amiable, il quale scrisse che la diplomazia italiana, comprendendo la grande utilità dell’espansione massonica e i vantaggi che da questa potevano derivare per i governi che la favorissero, riprendeva la tradizione dell’ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano Henry Bulwer. Il riferimento a Bulwer non è di scarsa importanza, giacché gli intrecci della Storia abbiano voluto che rimandi al più famoso fratello di questi: Edward Bulwer-Lytton, parlamentare britannico, ministro Segretario alle Colonie (carica ricoperta da Winston Churchill nei cruciali anni del primo dopoguerra durante i quali si svolse anche la conferenza del Cairo per la sistemazione dei Mandati britannici in Medio Oriente), prolifico scrittore, una cui nipote sposò il fratello maggiore di Arthur James Balfour, famoso per la Dichiarazione del 1917 in favore di un “focolare ebraico” in Palestina. Il connubio d’interessi tra ambasciata d’Italia e Massoneria italiana pare tuttavia non sfuggisse al Sultano ‘Abd ul-ahmid II (1867-1909) il quale, a differenza del suo predecessore Murad V, che fu affiliato al Grande Oriente di Francia, osteggiò radicalmente la Massoneria nei territori ottomani. La generale politica intrapresa da ‘Abd ulahmid II fu infatti avversa non solo alle logge italiane, ma pure alle varie manifestazioni di penetrazione occidentale, caratterizzandosi come una ferma politica di chiusura alle precedenti riforme modernizzatrici attuate dai suoi predecessori, fino all’annullamento della costituzione, peraltro da egli stesso concessa, già nel primo anno del suo regno. A partire dal 1876 infatti, il numero delle logge italiane in Turchia subì un drastico ridimensionamento, la maggior parte entrando “in sonno”, tanto che solo la loggia Italia Risorta continuò i lavori. Nell’ultimo decennio del XIX secolo ‘Abd ul-ahmid II riuscì inoltre a contenere l’azione di un’organizzazione rivoluzionaria che agiva con l’obiettivo di rovesciarlo, la quale, collegata ai Giovani Turchi in esilio a Parigi e nata negli ambienti della scuola militare di medicina, era guidata dall’albanese Ibrahim Temo. Questi era a sua volta collegato a massoni italiani, con l’ausilio dei quali tentò di creare dei circoli simili alla carboneria italiana, per realizzare un colpo di Stato nel 1896, che, seppur effettivamente tentato, fu sventato dagli agenti del sultano. Ciò non impedì tuttavia che la comunità muratoria italiana continuasse a tessere relazioni con le élites Ottomane, soprattutto negli ambienti progressisti e nazionalisti dei Giovani Turchi. Nel 1885 a esempio furono affiliati all’Italia Risorta alcuni notabili ottomani, tra cui Mahmud Jelaleddin Bey e Mehmet Reshad Pasha, quest’ultimo destinato a diventare esponente di spicco del movimento dei Giovani Turchi. Sarà questi infatti a essere scelto, in qualità di consigliere di Stato, come membro della delegazione giovane-turca in visita in Italia subito dopo la rivoluzione del 1908 – 1909. Lo stato “di sonno” delle logge italiane ebbe termine nel 1900 con l’arrivo in Turchia di una eminente personalità del panorama massonico italiano: Ettore Ferrari, Gran Maestro Aggiunto della Massoneria italiana, che in qualità di inviato del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Ernesto Nathan, portò un messaggio ai fratelli “dormienti” di Costantinopoli, Smirne e Salonicco, sollecitandoli a risvegliarsi dal “sonno” che perdurava oramai da vent’anni. Questo atto rappresentò un momento importante per la storia delle logge italiane in Turchia, soprattutto nell’ottica vista prima relativa all’influenza sulla politica ottomana. Non è inoltre casuale che tale rinnovato impegno politico venisse sollecitato con vigore proprio da una figura quale quella di Ettore Ferrari. Il pensiero di Ferrari divergeva infatti da quello di Nathan soprattutto per quel che concerneva l’azione massonica in ambito politico e sociale: mentre il secondo era più propenso a una sorta di neutro distacco dalle cose dei partiti, il primo non esitava a incitare i massoni italiani a confrontarsi con la vita politica attiva del tempo. Ben presto infatti in Turchia le officine italiane divennero le sedi per le riunioni clandestine dei Giovani Turchi. A Salonicco, a esempio, la loggia Macedonia Risorta divenne il fulcro delle attività del giovane avvocato sefardita Emanuele Carasso, che viene citato (De Poli) come il vero anello di congiunzione tra il GOI e i Giovani Turchi. L’utilizzo dei locali della loggia italiana poneva inoltre i vari movimenti clandestini al riparto dalla repressione poliziesca di ‘Abdallah II, anche sulla base del vigente sistema delle capitolazioni. Infatti con il beneplacito del Maestro Venerabile Carasso, i Giovani Turchi fecero della loggia Macedonia Risorta la sede dell’archivio del loro movimento, il cui obiettivo primario era la reintroduzione della costituzione liberale abolita dal sultano. L’apporto italiano non si limitò solo alla logistica, ma si estese pure alla formazione culturale e organizzativa, basata sulle esperienze dei moti italiani del 1821 e 1848, sulle “Vendite carbonare” risorgimentali e sull’azione dei gruppi garibaldini. Un esule dai moti del 1848 come Emilio Cipriani a esempio, e già stretto compagno di Giuseppe Garibaldi, ebbe notevole influsso sul modus agendi dei movimenti clandestini come il Comitato Unione e Progresso (CUP) e i Giovani Turchi, tanto che questi adottarono non solo il generale sistema organizzativo carbonaro, ma pure parole d’ordine, cerimonie e giuramenti. Fondato da Mehmed Talaat, con il nome appunto di Comitato Unione e Progresso (CUP), il movimento divenne noto poi anche come partito dei Giovani Turchi o semplicemente Giovani Turchi. Il “rito di affiliazione” alla società prevedeva un voto solenne sul Corano e su un’arma da fuoco. Quando la rivolta del 1908 scoppiò a Salonicco, città dove risiedeva e lavorava nel locale ufficio postale Talaat, e dove era stanziata la 3a Armata ottomana, il movimento balzò alle cronache della stampa europea, guadagnandosi in alcuni casi le simpatie dell’opinione pubblica e del Foreign Office. Diverso invece l’atteggiamento dell’ambasciata britannica a Costantinopoli. Ciò fu dovuto al fatto che l’ambasciatore, Sir Gerald Lowther, fosse sotto l’influenza del primo consigliere e interprete per gli affari orientali, Gerald FitzMaurice, il quale aveva un’opinione negativa del CUP. FitzMaurice diede un’interpretazione particolare: «[…] degli eventi del 1908 […] influenzata dal fatto che essi erano iniziati a Salonicco, i cui abitanti erano quasi per metà israeliti o dunmeh, ossia membri di una setta nata nel diciassettesimo secolo dalla conversione all’Islam di un gruppo di ebrei. A Salonicco, inoltre, le legge massoniche erano particolarmente numerose […] La conclusione di Fitz Maurice fu che le attività del CUP rientrassero in una cospirazione internazionale, e specialmente latino-mediterranea, manovrata da ebrei e massoni. Una volta, informando il Foreign Office – com’era suo dovere – dell’evolversi della situazione, l’ambasciatore definì il CUP “il Comitato ebraico per l’Unione e il Progresso”»42. L’analisi di FitzMaurice, al di là delle fascinazioni complottistiche, rispondeva anche a una precisa preoccupazione politica. Infatti: «In seguito […] condusse un’indagine sul CUP, i cui risultati furono esposti in un rapporto confidenziale che Lowther inviò a proprio nome, il 29 maggio 1910, al responsabile ufficiale del Foreign Office, Sir Charles Hardinge. Nel rapporto, Lowther faceva notare che Liberté, Egalité, Fraternité, il celebre motto della rivoluzione francese, era anche la parola d’ordine tanto dei massoni italiani […] quanto dei Giovani Turchi. Questi ultimi, proseguiva Lowther, intendevano «imitare la rivoluzione francese e i suoi metodi atei e livellatori. Gli sviluppi della rivoluzione francese [avevano portato] all’antagonismo fra l’Inghilterra e la Francia, e se la rivoluzione turca dovesse imboccare la Massoneria 59 stessa strada, essa potrebbe in modo analogo entrare in conflitto con gli ideali e gli interessi della Gran Bretagna […]»43. Fu così dunque che: «[…] Lowther sostenne che gli ebrei si erano impadroniti di una organizzazione segreta massonica […] e che attraverso quest’ultima erano in grado di influire profondamente sulle vicende dell’Impero Ottomano. Uno dei membri più importanti della cospirazione ebreo-massonica sarebbe stato, secondo Lowther, l’ambasciatore statunitense […] Oscar Straus, il cui fratello era proprietario dei grandi magazzini newyorchesi Macy’s e Abraham & Straus. Il pericolo per l’Inghilterra, scriveva Lowther, stava nel fatto che «gli ebrei odiano la Russia e il suo governo, e l’amicizia che attualmente caratterizza i rapporti fra Russsia e Inghilterra ha l’effetto di renderli […] anti-inglesi» […] Lowther così concludeva: «Ho motivo di ritenere che il mio collega tedesco sappia benissimo fino a che punto gli ebrei e la Massoneria latina sono le forze ispiratrici del Comitato, e abbia informato il suo governo, in forma confidenziale, di questo aspetto della politica dei Giovani Turchi»46. Secondo l’ambasciatore britannico inoltre: «[…] il movimento sionista mirava a creare un focolare nazionale ebraico non già in Palestina, ma in una parte del territorio dell’odierno Irak». Di fatto l’azione italo-turca, intrapresa da Ferrari e Carasso, pare producesse buoni risultati, giacché pressappoco nel primo decennio del Novecento (1901-1908) aderirono alla loggia Macedonia Risorta 188 affiliati, di cui ventitre alti ufficiali delle forze armate ottomane, e De Poli riporta che Ettore Ferrari scrisse, sulle pagine della rivista massonica “Acacia”, come alla loggia Macedonia Risorta andasse riconosciuto il merito di avere: «formato il primo gruppo di agitazione organizzata del partito dei Giovani Turchi»48. Peraltro il riconoscimento dei Giovani Turchi a questa opera di sostegno del GOI non mancò successivamente di arrivare pubblicamente nel 1908 da uno dei capi del Comitato Unione e Progresso, Reshid Bey, il quale ebbe modo di spendere parole d’elogio e di ringraziamento per l’appoggio ricevuto dalla Massoneria italiana. Dall’archivio storico del GOI risulta come tre dei quattro capi del CUP fossero stati iniziati nella loggia Macedonia Risorta nel 1903. Uno di questi, Rahmi Ben Riza, fu eletto, insieme a Carasso, deputato del parlamento ottomano per il collegio di Salonicco, mentre Midhat Sukru divenne il segretario del CUP, oramai legale. Un dato interessante è quello che sottolinea come il rapporto tra Massoneria italiana e (massoni) turchi si mantenne anche dopo la rivolta degli ufficiali del 1908, evidenziando così come tali legami andassero al di là delle contingenze politiche del momento. A riprova di questa interpretazione intervenne il tempestivo riconoscimento ufficiale del neo costituito, nel 1909, Grande Oriente Ottomano a opera del Grande Oriente d’Italia, nonostante pure il Grande Oriente di Francia si fosse impegnato e adoperato per garantirsi una stabile influenza sulla nascente Massoneria nazionale turca. Il felice connubio tra GOI e Massoneria turca ebbe pure modo di concretizzarsi con un “Trattato di Unione”, che garantì alla Massoneria italiana la possibilità di mantenere e costituire officine nel territorio ottomano, consentendo così a entrambe le obbedienze, oramai distinte (ma non distanti), di svilupparsi autonomamente. Questa “relazione speciale” tra Massoneria ottomana e italiana soffrì tuttavia un momento critico durante la guerra italoottomana per la Libia nel 1911. Il governo di Costantinopoli infatti, spinin Turchia 60 to dalla volontà di impedire l’annessione della sua provincia nordafricana al Regno d’Italia, tentò la via della mediazione con il GOI, cui si rivolsero i Giovani Turchi. Nelle intenzioni ottomane il GOI avrebbe dovuto fare pressioni sul governo di Roma per scongiurare la perdita della provincia libica. La risposta dei “fratelli italiani” fu però che Palazzo Giustiniani non avrebbe potuto prendere nessuna iniziativa che fosse risultata in antitesi con gli interessi e la dignità dell’Italia. L’iniziativa diplomatica “ufficiosa” della Massoneria turco-ottomana mise infatti in difficoltà la posizione del Grande Oriente d’Italia, esponendo Palazzo Giustiniani e il suo Gran Maestro agli attacchi della stampa nazionalista e cattolica italiana, sulla base dei legami tra Ferrari e i Giovani Turchi. Si insinuava infatti, soprattutto sulla stampa cattolica, il timore che il GOI potesse privilegiare il legame massonico rispetto agli interessi nazionali. Tale situazione spinse Ferrari a prendere una posizione netta allorché, rispondendo a una lettera della loggia Macedonia Risorta di Salonicco che chiedeva di non umiliare la Turchia, scrisse nei seguenti termini: «Egregi e cari fratelli, la vostra lettera […] fu da me sottoposta all’esame della Giunta del Governo dell’Ordine, della quale vi esprimo subito, liberamente il pensiero. È vero, come massoni e come italiani, noi salutammo con gioia l’abbattimento della tirannide che opprimeva il vostro paese e l’instaurazione, favorita con tanta efficacia dalla famiglia massonica, del nuovo ordinamento politico […] Le nuove combinazioni che si andavano determinando nella politica internazionale e l’atteggiamento irriducibile delle autorità ottomane in rapporto ai nostri legittimi e pacifici interessi, indussero il governo italiano a riprendere in esame l’antica questione della Tripolitania: tutta Italia sentì che erano giunti i termini fatali della risoluzione […] Fallite le trattative diplomatiche, fu dichiarata e iniziata la guerra. Se le logge ottomane, e più specialmente la vostra, si fossero rivolte al Governo dell’Ordine durante la prima fase della contesa, che poi divenne conflitto armato, avremmo potuto adoperarci per una soluzione che, tutelando gli interessi italiani, rispondesse, in pari tempo, alle aspirazioni umanitarie dell’Ordine: oggi, allo stato dei fatti, ogni intervento è impossibile. Comprendiamo le vostre apprensioni di patrioti: ma voi ugualmente comprenderete che i massoni italiani non possono e non debbono assumere iniziative che, a guerra aperta, costituirebbero un tradimento e un attentato contro gli interessi e la dignità della patria. […] Il G.O.d’I. deve dunque limitarsi a esprimere l’augurio che non tardi troppo, in ragione e per la forza dei fatti compiuti, il ritorno di quella pace dignitosa e sincera, che, senza dubbio, è nel desiderio e nell’interesse dei due popoli […]». Peraltro una diversa versione circa l’approccio del GOI nei confronti dell’impresa bellica italiana fu espressa dal Grande Oriente d’Italia stesso secondo cui: «In realtà lo scarso entusiasmo [per la guerra] era legato al minacciato pericolo che la nuova colonia potesse diventare “soltanto una colonia clericale”». Simili preoccupazioni erano state manifestate nella Seduta della Giunta del GOI dell’11 ottobre 1911, sulla base dell’analisi della generale situazione politica italiana, nella quale il blocco progressista aveva dovuto cedere dinnanzi al coagularsi delle forze liberal-conservatrici, nazionaliste e clericali. Forze in alcuni casi non avulse da interessi finanziari e bancari con mire su alcune aree dell’Impero Ottomano, come appunto la Libia, e aventi come riferimento la finanza cattolica che si riconosceva nel Banco di Roma, la cui propaganda per mezzo della stampa dipingeva l’intervento militare italiano in Libia come una sorta di nuova e moderna crociata. L’episodio libico fu tuttavia il segnale che i rapporti tra Grande Oriente Italiano e il neo costituito Grande Oriente Ottomano si stavano avviando lungo strade diverse. Infatti la rottura politica consumatasi con gli eventi bellici libici, insieme alla crescita in autonomia del Grande Oriente Ottomano, che finì con l’assorbire gradatamente la maggior parte delle logge straniere, sancì il declino delle officine italiane in Anatolia, che, già provate dal Primo conflitto mondiale, subirono un ulteriore indebolimento all’avvento del fascismo. In conclusione è dunque lecito affermare che la Massoneria (sia anglosassone -inglese-, che “latina” -francese e italiana-) rappresentò un importante bacino di coltura e diffusione di quegli ideali che, ispirati al liberalismo e al razionalismo illuminista, caratterizzarono il “clima di fervore e risveglio culturale che attraversava i territori dell’Impero Ottomano dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento”54. Secondo il giudizio di Barbara De Poli a ciò va in parte ricondotto il modus agendi di figure che ebbero larga influenza sul Novecento arabo-musulmano quali a esempio Al-Afghani, Muhammad Abduh e gli animatori della stampa riformista progressista (come le riviste “alMuqataf” e “al-Lata’if”) i quali espressero idee e orientamenti culturali, politici e ideologici, che, quando non direttamente ispirati a modelli di matrice massonica, furono comunque diffusi e condivisi in quegli ambiti, confermando in questo senso anche la natura di strumento privilegiato di penetrazione delle Potenze europee rappresentato dalla Libera Muratoria, tanto che: “espansionismo massonico e coloniale andavano a convergere e talvolta a identificarsi”56. Si riconferma inoltre il dato per cui il contributo italiano a tali influssi non fu secondario potendosi basare su alcuni fattori ben definiti. Da un lato la preponderanza numerica dei “fratelli” di nazionalità italiana, cui già si accennava, per cui nell’Impero, e in particolare nelle sue province arabe, le logge da essi fondate, animate o frequentate, risultarono più numerose di quelle di altre nazionalità, soprattutto britanniche e francesi. Dall’altro la componente risorgimentale forgiata nelle lotte e nei moti indipendentisti, che influenzò in maniera notevole personalità ottomane le quali ebbero poi ruoli importanti nella diffusione degli ideali nazionalisti e liberali determinando in alcuni casi svolte epocali, onde per cui l’analisi delle influenze culturali della Massoneria in Egitto e in Turchia porta a concludere come: «[…] senza dubbio […] una parte non irrilevante della costruzione dell’identità nazionale egiziana e turca è transitata all’interno o intorno all’esperienza massonica italiana», in considerazione soprattutto del fatto che negli stessi ambienti si poté assistere alla circolazione di intellettuali e politici antesignani del panarabismo e perfino del fondamentalismo islamico.

Applauso o batteria – di Elisabetta Pabis Ticci, Riccardo Cecioni
Un aspetto della ritualità massonica
Il linguaggio è un sistema di segni condivisi, ma è necessario chiarire bene di quali segni ci si serve e quale valore si attribuisce loro, in quanto ogni cultura attribuisce a ciascun segno un significato del tutto arbitrario che può variare incredibilmente e anche contraddirsi. Nella comunicazione molto spesso l’abito fa il monaco, intendendo con abito il complesso delle manifestazioni esteriori che caratterizzano la nostra maniera di esprimerci. Risulta infatti che circa il 70-80% dell’informazione che raggiunge la corteccia cerebrale giunge dagli occhi, contro il 10- 15% che proviene dall’udito. Le ricerche neurolinguistiche, inoltre, indicano chiaramente la priorità dell’elaborazione visiva, globale, simultanea, contestuale, analogica delle informazioni nell’emisfero destro del cervello, anche se le informazioni sono linguistiche e quindi andranno poi rielaborate dall’emisfero sinistro (verbale, analitico, sequenziale, logico). Siamo dunque prima “visti”e successivamente uditi e ascoltati. La cinesica studia la comunicazione non verbale (o paralinguistica) e, soprattutto, quella che si attua attraverso i movimenti, i gesti, le posizioni, la mimica del corpo, in modo volontario o involontario. Fa particolare riferimento ai codici comunicativi antropologici, culturali o artificiali, quali i gesti di cortesia o di disprezzo, la gestualità nelle varie tradizioni teatrali, la gestualità oratoria, il mimo, il linguaggio gestuale muto dei monaci di clausura, dei sordomuti, degli zingari ecc. La maggior parte dei moti dell’animo, degli impulsi emozionali, si esternano in maniera udibile. Tutte le creature superiori esprimono emozioni e sentimenti col movimento, con gesti. Solo l’uomo però appare capace di regolare e coordinare i suoi impulsi emozionali e i suoi gesti, egli soltanto è dotato di coscienza ritmica. Anche l’Occidente, ovviamente, ha conosciuto l’arte del gesto, la cinesica, come atto significante. Molti etnologi e filosofi sono unanimi nel sostenere l’anteriorità del linguaggio gestuale rispetto a quello verbale. Si può definire gesto qualsiasi movimento fatto con le mani, le braccia o le spalle. Esistono gesti pratici (quelli che si fanno per afferrare o per costruire un oggetto, aprire una porta, appoggiarsi a un tavolo e gesti comunicativi. Un gesto è comunicativo quando la forma che assumono le mani e il loro movimento sono prodotti per comunicare. Un gesto comunicativo è un segno: una coppia significante-significato in cui il significante è una particolare forma del movimento delle mani o delle braccia o delle spalle e il significato è una conoscenza di formato proposizionale o un’immagine mentale visiva. I gesti simbolici delle mani sono conosciuti in diverse tradizioni, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Molti gesti sono simili, per esempio quello di congiungere le mani in preghiera, è uno dei simbolismi più diffusi. Nell’arte le mani hanno spesso forme stilizzate e immobilizzate in un gesto simbolico: l’indice rivolto verso l’alto, o la mano con il palmo aperto. Non solo, ma è da notare la differenza diametralmente opposta che si ottiene nell’approccio con un animale, quando gli si tende la mano bassa col palmo rivolto verso l’alto o alta col palmo verso il basso: in entrambi i casi l’animale ha perfetta visione del palmo della mano che può sempre verificare non armata, ma il significato che ne coglie è amichevole nel primo caso e minaccioso, temibile nel secondo e quindi, al minimo, degno di un avvertimento sonoro di altolà. Secondo Aristotele le mani sono una diramazione del cervello: le mani parlano. Le raffigurazioni sacre sono ricche di questi esempi. I gesti simbolici delle mani si trovano anche nelle danze orientali. La danza indiana Natya, per esempio, racconta attraverso la gestualità simbolica delle mani vere e proprie storie. Altre forme di gestualità simbolica delle mani si trovano anche tra gli Indiani d’America, gli Egizi, gli Africani, gli Aborigeni. Nell’universo dello yoga le mani occupano un posto di rilievo, fanno da regine. Le posizioni mistiche delle mani, i gesti simbolici sono i cosiddetti mudra, termine che in sé però accoglie anche alcune posizioni di occhi, corpo e persino tecniche di respirazione. I mudra delle mani sono anche gesti simbolici che impegnano parti diverse del cervello e dell’emotività: il loro fine è di creare un collegamento energetico tra i vari livelli di percezione: corporea, mentale e spirituale. In India, insieme alle posizioni sacre delle braccia (hadra), i mudra delle mani assumono precise valenze simboliche nella raffigurazione delle divinità induiste. Noi non dialoghiamo solo con le parole. Ma anche con il corpo. Soprattutto le mani sono in grado di esprimere simboli. La mano è allora l’espansione spazio-temporale del pensiero, interviene nel linguaggio con azione espressiva sorreggendo la parola; ciò vale particolarmente per noi italiani, famosi nel mondo in virtù dell’ampio “lessico gestuale” che accompagna la comunicazione verbale. Tutti i Liberi Muratori possono affermare che il loro percorso è iniziato inevitabilmente dall’affermazione di Sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum”, inquietudine che talvolta i più fortunati hanno potuto placare con serietà, senno, benefizio e giubilo nel lavoro di loggia. L’uso dei simboli è alla base di ogni nostro insegnamento: esso consente il gioco delle analogie e delle corrispondenze. Ma il simbolismo mal compreso può trasformarsi in un ostacolo o, peggio ancora, in un dogma ancora più avvilente di quelli che condanniamo. Lezione di Rabelais: “la scienza senza coscienza è la rovina dell’anima”.
I Gesti Rituali.
1. Il segno d’ordine.
Il segno d’ordine corrisponde al segno penale e ricorda: preferirei farmi tagliare la gola piuttosto che rivelare i segreti che mi sono stati confidati. Questo segno separa la testa dal resto del corpo, l’intelletto dalla sfera emotiva. Il segno d’ordine favorisce il risveglio della coscienza e la concentrazione necessaria a ogni lavoro di ordine interiore.
2. L’ordine
Ordine si traduce in greco con la parola kosmos. Questi gesti rituali possiedono tre virtù: ordinano il corpo, assicurano il potere dello spirito e collegano all’universale. Essi unificano quindi il corpo, l’anima e lo spirito.
3. Il toccamento
Nel primo grado, il toccamento è ternario e riproduce la batteria del grado secondo il ritmo, continuo o discontinuo, del rituale praticato.
4. La batteria
Ogni batteria è preceduta e conclusa dal segno d’ordine. Simbolo sonoro e manuale della Libera Muratoria col suo specifico linguaggio. Annuncia l’apertura e chiusura dei lavori, tracciando un limite, un confine, ma essa serve anche a celebrare un evento importante: onore di un nuovo Venerabile, esultanza per celebrare un avvenimento lieto, lutto quando un massone passa all’Oriente Eterno. Rappresenta insieme un mezzo di espressione e di riconoscimento. L’origine del gesto “battere le mani” è da ritrovarsi nel teatro classico greco dove si era soliti esprimere apprezzamento facendo il più rumore possibile, sbattendo i piedi, battendo le mani e urlando. Ai tempi dei romani le cose degenerarono talmente violentemente che Augusto fu obbligato a introdurre una figura che indicasse quando era tempo di applaudire. L’applauso è poi rimasto come segno di apprezzamento universale ed è giunto fino a noi. Se ci pensi, in effetti, sembra quasi un riflesso spontaneo. Nell’Antico Testamento, questo gesto rituale appare alcune volte usato in segno di indignazione e scherno: “Come vive Dio che mi ha privato del mio diritto, e l’Onnipotente che mi ha amareggiato l’anima, […] la gente batte beffardamente le mani nei suoi confronti e fischia dietro a lui dal suo posto” (Giobbe 27:2, 23); “Tutti i passanti battono le mani contro di te; fischiano e scuotono la testa contro la figlia di Gerusalemme: «È questa la città che chiamavano “la bellezza perfetta”, “la gioia di tutta la terra”?»” (Lamentazioni 2:15). Una volta per applaudire il re: “Poi Jehoiada condusse fuori il figlio del re, gli pose in testa il diadema e gli consegnò la legge. Lo proclamarono re e lo unsero; quindi batterono le mani e esclamarono: «Viva il re!»” (2 Re 11:12). … in forma poetica, per invitare la natura a lodare il Creatore: “I fiumi battano le mani e i monti esultino insieme di gioia davanti all’Eterno” (Salmo 98:8). Una volta per invitare coloro che non conoscono l’unico vero Dio ad adorarlo: “Battete le mani, o popoli, celebrate DIO con grida di trionfo.” (Salmo 47:1). Un’altra affermazione a sostegno dell’applauso dice che esso sarebbe un mezzo di partecipazione e condivisione e ciò può essere entusiasmante, quando è spontanea e corale dimostrazione di appagamento dell’anima e dei sensi o del desiderio di conoscenza, ricevuto in dono da qualcosa o qualcuno. Oggi però è venuto di moda anche applaudire l’uscita dal tempio del feretro dopo la cerimonia funebre, quale tributo a cielo aperto o espressione sonora della pia comunione con il defunto per le azioni da lui fatte o da lui subite: vera mutuazione dal teatro alla chiesa, dalla scena alla realtà, dalla commedia alla tragedia. Ma di questo potremo parlare in altra occasione.
Riflessioni conseguenti
Ebbene, cosa pensare quando l’applauso è solo abitudine e reiterazione di un gesto usuale, specifico di momenti ben determinati, magari senza reale comprensione dei valori di quello? E quando è volontà più o meno palese di piaggeria, con conseguente semplice ma indispensabile adeguamento del gregge raggruppato e inquadrato dai pastori o dai loro cani, a mo’ di “massa oceanica”? Entrambi questi casi dovrebbero essere materia d’indagine seria, da parte del destinatario del plauso, sull’appropriato significato di tale reazione ottenuta e sul reale valore dell’uditorio partitamente e nel suo complesso. Cose, queste, abbastanza normali nel mondo cosiddetto “profano”: il problema sorge naturalmente quando si vuole, o volontariamente o per ignorante dabbenaggine, trasferire l’applauso a scena aperta in una Comunità Iniziatica che sa leggere, o dovrebbe, i valori mutuati dalla Tradizione e conservati con il proprio linguaggio inconfondibile. Nella Comunione della Libera Muratoria si crea il clima di fraternità, di libertà e di conseguenza di armonia ricorrendo all’applauso nella sua forma codificata: il gesto di “battere le mani” in questo contesto è comunemente riconosciuto da più etnie come gesto di aggregazione. Da un punto, poi, di vista antropologico l’applauso viene considerato come metafora dell’abbraccio, ossia un abbraccio manifestato a distanza. Se si vuole tributare un segno di stima, di ringraziamento, di ossequio i Liberi Muratori sanno perfettamente come realizzarlo in luogo e tempo sacralizzati. Tale gesto non può e non deve essere spontaneo, caotico, prevaricatore: esso deve essere ordinato da chi ne ha il potere in Loggia o Camera del Rito, sia essa locale, periferica o nazionale. Potere detenuto esclusivamente da una delle Tre Luci, a seconda di chi sia il destinatario del plauso, Sorella o Fratello, considerato nel suo personale e contingente ruolo, Ufficio o Dignità. Sarà pertanto dato ordine di eseguire una Triplice Batteria di plauso, disciplinata nella sua cadenza e regolata nel suo limite temporale. Solo in casi particolari può essere dato ordine di eseguire una “Libera Batteria”, ma sempre soppesata opportunamente e contenuta adeguatamente dal segnale di cessazione impartito dal colpo di maglietto. Non è ammesso che nel mondo che pretendiamo essere dell’equilibrio e dell’armonia una espressione, anche di giubilo, sia attuata indisciplinatamente da individui come avviene nel mondo profano, senza eccezioni, da una massa amorfa di gente.

Massoneria perduta – di W.Bencini
[…]

Costruire il Tempio – di M.Andreini
[…]

I vari livelli della Massoneria – di R.Ariano
[…]

Il riso sardonico – di Paolo Aldo Rossi
[…]

Le lettere all’Ordine del Tempio – di L.Artini
[…]

Dante in soffitta – di L.Pruneti
[…]

Lete e Mnemosyne… – di Paolo Maggi
[…]

Mademoiselle Connaissance – di Veronica Mesisca
[…]

Victor Horta – di J.M.Schivo
[…]

Il tavolo di Leicester – di M.Gilhuys Notarbartolo
[…]

Imparzialità e segretezza – di I.Iurlo
[…]

Meeting di Atene – di Veronica Mesisca
[…]