Giovanni Pascoli massone

Il 22 giugno 2007 il “Corriere della Sera” strillò  a pagina 55: “Pascoli era massone: il Grande Oriente ora ha la prova”. La richiesta di accettazione in loggia era stata rinvenuta cinque anni prima dal biografo del poeta, Gian Luigi Ruggio. Ma non era affatto una scoperta sensazionale. Sin dal remoto 1962  Michelangelo Raitano aveva pubblicato  il “giuramento” massonico di Pascoli in una tavola fuori testo di Memoria di Giovanni Pascoli (Città di Castello, Edizioni Erretre). La notizia era però passata sotto silenzio. Lambiti da  pochi eruditi, all’epoca massoni e massoneria rimanevano avvolti nelle nebbie del silenzio scontroso. Il documento è poi stato minutamente descritto da Alice Cencetti nel capitolo “Un ‘sonno’ lungo una vita: Pascoli e la Massoneria”, parte conclusiva della bella biografia critica  del poeta (Firenze, Le Lettere, pp.287 ess.): “un foglio con disegnato sopra un triangolo isoscele dagli spessi bordi neri (…); all’interno del triangolo, in corrispondenza dei tre vertici troviamo scritto : ‘Quali sono i doveri dell’uomo verso se stesso? – di rispettarsi”; che cosa deve l’uomo alla patria? – la vita; quali sono i doveri dell’uomo verso l’umanità?- di amarla”. Al centro del triangolo il giovane insegnante si firmò e annotò: “Bologna 22.9.82”, cioè 22 settembre 1882.

A differenza di quanto annunciato dal quotidiano milanese, di per sé il “testamento” massonico non costituisce la “prova provante” dell’iniziazione di Pascoli. Molte richieste di iniziazione si fermarono per via. E’ il caso di Antonio Labriola, caposcuola del socialismo scientifico in Italia. Sottoscrisse il formulario per essere iniziato alla “Rienzi” di Roma (1888) ma tutto lascia concludere che le informazioni sul suo temperamento lo fermarono sulla soglia del Tempio.  Il resto il suo nome non figura nella Matricola degli “iscritti” al Grande Oriente d’Italia. Ma di per sé questo silenzio non costituisce la contro-prova di mancata iniziazione. Infatti, come è stato più volte ricordato, in quel repertorio invano si cercherebbero Andrea Costa (ne ha scritto egregiamente Furio Bacchini) e persino Domizio Torrigiani, sulla cui iniziazione (al grande Oriente Italiano?) è fuori discussione.

Il documento chiave dell’iniziazione di Pascoli (bene ricorda Cencetti) era però noto da tempo. Lo pubblicò un antico valoroso massone, Carlo Manelli, nel saggio  che merita di essere ricordato nel centenario della morte del poeta: tanto più che il neoministro dei Beni Culturali si è affrettato a cancellare il comitato nazionale per la sua evocazione. Già era stata scomoda quella del massone Giosuè Carducci, la cui memoria è eclissata anche nella nativa Pietrasanta; se poi il ministro in cotta e stola  dovesse scoprire che massoni furono anche Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Francesco De Sanctis, Salvatore Quasimodo…, non gli resterebbe che proibire lo studio della letteratura italiana.

Ma torniamo all’iniziazione di Pascoli. Va ricordata l’opera di Carlo Manelli per trarne lezioni di metodo e  di merito. Una prima considerazione s’impone. Essa  apparve due anni dopo le relazioni  (di maggioranza e di minoranza) della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Rifacendosi alla miglior tradizione storiografica, cinque anni dopo la mostra su I massoni nella storia d’Italia (Torino, 1980; Roma, 1981)  e mentre imperversava la “caccia alle streghe”, pacatamente  Manelli propose lunghi veridici elenchi di veri iniziati alla Massoneria. Valga d’esempio quello degli affiliati alla “VIII Agosto”. Senza indulgere alle interpretazioni sociologiche poi e tuttora imperversanti, l’Autore non dedusse l’identità della Famiglia liberomuratòria italiana da professioni, mestieri e titoli di studio (che pur all’epoca ancora indicavano un merito) dei suoi iniziati, né volle accamparne una lettura ideologica dalle opzioni mostrate dai massoni impegnati nella vita politica. In tal modo sbarrò la via a induzioni tendenti a  imbalsamare la peculiarità della Massoneria. Ne riaffermò invece la genuinità: il perenne  divenire  attraverso  la ricerca dialogica, all’insegna della tolleranza e della faustiana ansia di  conoscenza.  Per comprendere la Libera Muratoria d’Italia e in Italia occorre  dunque scriverne la storia, documenti alla mano, senza pretendere di impartire lezioni al passato, sibbene indagandolo quale effettivamente  fu.

Anche in terre quali l’Emilia e le  Romagne  (ha ragione Lucio Gambi a preferire il plurale allo sbiadito  e troppo generico Romagna, “solatia, dolce campagna” come scrisse il talora troppo languido Giovanni Pascoli) la Massoneria fu varia  e pur continua nel corso dei secoli. Se ne coglie la molteplicità dalla qualità dei componenti. Nel Settecento i massoni vi furono prevalentemente di famiglia aristocratica, della grande borghesia e sempre di  elevata cultura.

Ne ha scritto Furio Bacchini nell’eccellente (e quindi scomodissimo) saggio su La vita rocambolesca del conte Alessandro Savioli Corbelli, 1742-1811 (Bologna, Pendragon, 2011) che fa “punto e a capo” con le chiacchiere sull’identità tra massoneria, illuminismo d’accatto, giacobinismo e quindi è subito finito in un cono d’ombra (dal quale, però, verrà riscattato come sempre accade per le opere di vero valore).

Durante l’età napoleonica, nella lunga attesa del riscatto dal greve  potere temporale  dei papi e poi all’alba dell’unificazione nazionale la massoneria divenne più composita. Dopo il 1860, ebbe innesti di media e piccola borghesia e, in tempi successivi, anche di artigiani e  popolani. Interclassismo? No. Codesto è concetto recente.  Usarlo per quel passato abbastanza remoto è errore imperdonabile: l’anacronismo. I templi massonici non esercitarono preclusioni “di classe”. Si aprirono a quanti bussavano, quale ne fosse la condizione (fu il caso giustamente richiamato da Carlo Manelli, di Giovanni Pascoli, iniziato alla “Rizzoli” con dispensa dalle quote perché povero), giacché il vero comune denominatore dei recipiendari era e sarebbe rimasto uno solo: l’anelito alla libertà e la affermazione della libertà di pensiero.

Ne sono documento le pagine di Romeo Monari, bibliotecario dell’Università di Bologna, Alma Mater Studiorum, sulla Massoneria d’età napoleonica, riproposte pari pari da Manelli anche se comprendenti qualche svista e asserzioni opinabili, poiché sono documento del livello cognitivo dei tempi in cui fu redatto.

Anziché interrogarsi  sul notissimo e scontato tasso di adesione dei “fratelli d’Italia” al disegno napoleonico e di perdersi a contare quanti degli affiliati  tra Sette e Ottocento si siano poi schierati con la Restaurazione, anche tramite le pagine di Monari, il sempre lucido vegliardo Manelli individuò con chiarezza la continuità fra quella stagione, che va dalla cospirazione liberale di Luigi Zamboni e  Giambattista De Rolandis, ideatori della coccarda tricolore  precorrente  il vessillo  poi divenuto bandiera della Cisalpina e quindi del Regno d’Italia, e  il proto-Risorgimento e indicò alcune figure chiave che fecero da pilastro portante fra  età napoleonica, quando a Bologna si contarono quattro logge, e guerre d’indipendenza nazionale: il conte Luigi Zambeccari, il marchese Pietro di Pietramellara,  Francesco Guerzi… Certo ogni sua pagina meriterà approfondimento. E’ il caso, fra altre, della drammatica vicenda di Zamboni e De Rolandis, i cui rapporti con  correnti tardogiacobine e Napoleone stesso, tramite Saliceti, cominciano a  essere messi meglio indagati da studiosi d’Oltralpe.

Valendosi della scarsa documentazione sopravvissuta all’assalto squadristico alla Casa massonica del settembre 1924 e delle  poche annate all’epoca reperibili delle riviste massoniche comparse nel settantennio fra il 1864 (“Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia”) e il forzato scioglimento delle logge (1925), Manelli mise poi a fuoco le vicissitudini delle  officine bolognesi: la “Concordia”, loggia primigenia, la “Severa” dal 1861, la “Concordia umanitaria” e poi la “Galvani” (1863-1868), la “Felsinea”, la “Rizzoli” dal 1882, la “VIII Agosto” dal 1886  al 1924, la “Ca ira” e la “Giosuè Carducci” dal 1908… Né tacque le tensioni al loro  interne o fra singole officine e i poteri centrali alla cui obbedienza  erano sorte. Fu il caso della “Galvani” e della prestigiosa “Felsinea”, quasi una meteora, che passò dal Rito scozzese antico e accettato al Gran Consiglio facente capo in Milano a quell’Ausonio Franchi che, spretatosi e messa a soqquadro la famiglia massonica, tornò qual prima era: don Cristoforo Bonavino, rivestito di abito talare e restituito al sacerdozio cattolico.

Alieno da ogni trionfalismo, Manelli  non tacque che massoni allora e poi illustri, quali Giosuè Carducci, Luigi Cremona e altri componenti della “Felsinea” (la prima “loggia universitaria”  di Bologna la Dotta) videro i propri nomi pubblicati a loro perpetuo disdoro nel “Bollettino del Grande Oriente” quando l’officina venne dichiarata sciolta da parte di un “governo dell’Ordine” che intendeva superare la troppo lunga stagione durante la quale la Libera Muratoria era stata “federazione di logge” assai più che Famiglia unitaria.

Manelli non v’insisté per comprensibile riserbo. Va però ricordato che la Massoneria bolognese (o dell’Emilia e Romagne) ebbe ruolo nazionale di spicco non solo per le logge del capoluogo e per quelle della intera regione (la “Alberico Gentili” a Parma,  la “Girolamo Savonarola”, poi cangiata in “Felice Foresti” a Ferrara, la “Nicola Fabrizi” a Modena, la “Roma Nuova” a Piacenza, la “Torricelli” a Faenza e la gloriosa “Dante Alighieri” di Ravenna negli anni della gran maestranza di Adriano Lemmi), ma anche per la presenza di suoi illustri esponenti nella “Propaganda massonica”. Valgano, al riguardo, i nomi di Giosue Carducci, “risvegliato” dal Gran Maestro Adriano Lemmi nel 1886 e inserito nella “Propaganda Massonica” (nome famoso anche se per alcuni ingenui famigerato),  di Aurelio Saffi, Quirico Filopanti,  Giuseppe Ceneri e dell’Oreste Regnoli nel cui studio forense si formò il forlivese  Alessandro (Sandrino) Fortis, futuro presidente del Consiglio dei ministri in successione a Giovanni Giolitti.

Su quelle premesse la massoneria bolognese nel 1888 si mobilitò direttamente e indirettamente per conferire il giusto smalto alle celebrazioni  dell’VIII Centenario dell’Università: cui Carducci dedicò una forte rivendicazione della cultura laica e della libertà di pensiero, ripubblicata da Fabio Roversi Monaco quand’era Rettore dell’ Ateneo bolognese.

Su quella traccia si mosse Adriano Lemmi nella Tavola pronunciata a Bologna il 30 giugno 1892, nel corso del periplo tra le principali Valli d’Italia, dopo la sua Livorno, Genova, Torino, Milano, e prima di Firenze, Reggio Calabria, Palermo, Napoli e Roma.  In quell’occasione il Gran Maestro rese omaggio a Carducci, “il nostro altissimo Poeta civile”  e invitò a non nascondersi che l’Italia era “sorta in piedi” ma  “troppi e infinitamente perfidi nemici la insidia(va)no”. “Non è qual la vogliamo, proseguì; il coltello del papato, che ella portava da secoli confitto nel core, le fu tolto e spezzato dalla rivoluzione (cioè, chiariamo, dall’unificazione nazionale); ma la piaga è ancora aperta e sanguina. Importa che quella ferita si rimargini(…) A questo grande intento patriotico deve convergere, tutta, sempre, l’azione morale dell’Ordine”.

Da Bologna Lemmi indicò il cammino: “educare il popolo  a forti propositi, a virtù civili…sollevare il sentimento della forza e della  dignità dello Stato (…)” “Io vi parlo così  – aggiunse – perché  so che nella intrepida e leale Romagna questo alto e generoso amore della Patria sovrasta a tutti i partiti; perché so che voi foste e sarete sempre nelle prime file delli eserciti della libertà (…) La prima libertà da conquistarsi intiera e da conservarsi inviolata è quella del pensiero e della coscienza. Per conquistarla e per mantenerla occorre l’assoluta e completa laicità dello Stato. Se il nostro diritto pubblico non si svolge sulla base laicale, non avremo nessuna influenza decisiva sulla civiltà contemporanea. E pensiamo che laicità non significhi indifferenza  stupida o scettica che avvizzisce e mortifica il corpo sociale, ma è coscienza piena di tutto il pensiero, di tutto il progresso morale e scientifico; è ideale  ed  ha militi; è fede ed ha martiri (…) Conseguenze: questo tipo di stato laico deve svolgersi ed incarnarsi nella scuola, nella famiglia in ogni forma e manifestazione della pubblica vita. Nessuna religione deve insegnarsi nella scuola; ciascuno si faccia il culto a suo modo; lo Stato forma il cittadino, non il devoto (…) Il concetto di Stato laico include quello di  Stato educatore e giusto: quindi continua vigilanza sulla istruzione, perché sia profondamente ed efficacemente educativa (…)”.

Dalla terra del massone  Andrea Costa, dieci anni addietro riproposto  all’attenzione nella sua autenticità liberomuratòria da Furio Bacchini in 200 anni di Massoneria ad Imola, il Gran Maestro lanciò anche un appello agli italiani a conservare l’impronta “di popolo civile ed autonomo”. “Di sottili disquisizioni socialistiche – precisò – poco c’importa; a noi basta il nostro buon senso, il nostro naturale istinto del vero: non vogliamo socialismo pontificio e nemmeno cattedratico o di Stato o imperiale (…) purché l’opera sia buona, ci basta; meglio se anche sia schiettamente e coraggiosamente italiana”.

La Massoneria bolognese venne dunque chiamata a far  da guida al  rinnovamento civile e culturale  della Terza Italia: un impegno di lungo periodo e  impegnativo per l’Ordine, quando si pensi che nell’età di Lemmi (considerata la più gloriosa per la Famiglia postunitaria) le iniziazioni  oscillavano fra tre e quattrocento l’anno e le logge nei confini del regno, tra demolizioni e innalzamento di colonne, nel 1897 non erano che 113 (poco più di una per provincia, in media; con molte terre un tempo massonicamente fiorenti del tutto deserte di Officine) e  salivano a  172 computando anche quelle all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia attive in Romania, Serbia, Impero ottomano, Siria, Egitto, Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Perù, a Tripoli e a Capo di Buona Speranza…

Quattro anni prima che Lemmi visitasse il suo Oriente, la loggia “VIII agosto” promosse l’erezione del monumento a  Ugo Bassi. Nell’ultima parte del suo saggio Carlo Manelli ne ripropose la drammatica vicenda. Già a fianco di Giuseppe Garibaldi nella difesa della Repubblica romana e poi suo compagno sulla via verso Venezia, catturato il 3 agosto 1849 dalla milizia pontificia con il capitano milanese Giovanni Livraghi e consegnato agli asburgici, Bassi venne fucilato dagli “austriaci” l’8 seguente. Facendo sua una consolidata  tradizione orale, Manelli ribadì che Bassi era stato iniziato  alla loggia “Concordia” fondata in Bologna da Francesco Guerzi nel 1848 (Il  sigillo in legno di quell’antica Officina sopravvisse al tempo e fu collocato tra i cimeli della Massoneria italiana. Il nome di Guerzi apre il Libro d’Oro del Supremo Consiglio del Rito scozzese. E’ pressoché dimenticato, ma solo per la confusione delle lingue dominante tra i profani che invasero i Templi).  Sulla scorta di una lettera dell’avvocato socialista  Ugo Lenzi, futuro Gran Maestro, al podestà di Bologna (1° giugno 1925), Manelli  ribadì l’affiliazione di Ugo Bassi  e attribuì la sua condanna a  una commissione di dodici  ecclesiastici (tre dei quali, ungheresi, avrebbero rifiutato di sottoscriverla, commossi e solidali con la vittima), d’intesa o su impulso  del cardinale Opizzoni. Mancano prove documentarie a sostegno  di tale addebito, che va ricondotto  all’animoso anticlericalismo di chi aveva sperimentato o serbava viva la memoria, tramandata dai padri, delle efferatezze perpetrate dal cardinal legato Agostino Rivarola, implacabile persecutore di carbonari, in parte già massoni, arrestati e condannati a  centinaia (1824-26),  e identificava pertanto il governo pontificio  e , in generale, “dei preti” con quello dell’anticristo, come scrisse Carducci in memorabili versi giovanili. Se oggi il giudizio storico sulla tragica fine del barnabita va temperato e riveduto alla luce dei documenti disponibili, quella tradizione orale è di per sé un fatto, giacché mette in evidenza il  comune sentire dell’opinione.

A consolidare l’attribuzione della esecuzione capitale di Ugo Bassi anche alla Chiesa di Roma  concorsero soprattutto i versi famosi  di Carducci. Due anni dopo la radiazione dalla Massoneria,  nel ventennale dell’esecuzione del barnabita, la bolognese Via dei vetturini venne mutata in Via Ugo Bassi. Come via Rizzoli essa era molto diversa da quale risultò dopo l’ampliamento del 1924-1930 e l’edificazione delle nuove cortine di edifici. Nello stesso torno di anni, del resto, a Roma  il  famoso quartiere di Borgo, culla (o “covo”) dell’anticlericalismo più intransigente e pugnace, non immaginava di dover un giorno cedere alla devastante apertura di via della Conciliazione. Nel luglio 1869, dunque (appena due anni dopo Mentana) , in occasione dell’intitolazione della via bolognese al barnabita Bassi, la Società Tipografica dei Compositori pubblicò  il sonetto carducciano su un manifesto che recava in apertura, a mo’ di epigrafe: “Questa via, o bolognesi,/ prende nome da un cittadino/ fucilato/ perché amava la Patria, / dai soldati di un imperatore,/ complici i preti./ Ricordate.”

Il sonetto recita:

Quando porge la man Cesare a Piero,

da quella stretta sangue umano stilla:

quando il bacio si dan Chiesa ed Impero,

un astro di martirio in ciel sfavilla.

Ma nel cuor delle genti il chiuso vero

con un guizzo d’amor risponde e brilla:

ne la notte l’amor e nel mistero

le folgori de l’ira  dissigilla.

Di ghirlande votive or questa via

nel solenne suo dì Bologna adombra

D’un prete sconsacrato a l’alma pia.

Ma lascia tu nel gran concilio sgombra,

Roma, una sedia: a te Bologna invia

tra’ carnefici suoi del Bassi l’ombra,

con riferimento all’imminente inizio del Concilio Ecumenico Vaticano (8 dicembre 1869), cui laicisti e anticlericali contrapposero l’Anticoncilio inaugurato a Napoli il 9 seguente (ma subito interrotto e sciolto per intervento di un commissario di pubblica sicurezza).

Ma in quale massoneria venne iniziato Giovanni Pascoli? Come documentò Manelli nell’arco di quasi quarant’anni  gli affiliati della  prestigiosa “VIII Agosto” furono appena 572: in una città che nel 1861 contava 90.000 abitanti, crebbe dai 121.000  del 1881 ai 173.000 del 1921 e salì a 185.000 nel 1921, e al centro di una provincia la cui popolazione  sommava a  circa 600.000 persone. Alla luce di questo  solo dato si percepisce che la storia della Massoneria  in Italia richiede ulteriore meditazione:  emerge infatti a luce meridiana  la disparità tra le sue forze, numericamente esigue (per quanto valenti e poliedrici fosse i suoi  affiliati) e i compiti  che essa si assegnò e mirò ad attuare. Motivo  in più  per apprezzarne il ruolo di minoranza eroica: non per caso da Mario Panizza proprio in età lemmiana i liberi muratori vennero definiti “templari della democrazia”, con riferimento alla loro coerenza e allo spirito di sacrificio che ne animò l’impegno. Fu anche società segreta? Si. Aveva motivo di esserlo. Doveva “coprire” i suoi Figli e Fratelli.

Come, appunto, Giovanni pascoli, la cui iniziazione è a verbale della “VIII Agosto”:

“Il Fratello Venerabile avvisa quindi i Fratelli che il profano Giovanni Pascoli, professore, desiderava farsi iniziare Massone, ma dovendo egli partire subito per il luogo del suo impiego, occorreva eccezionalmente ed in vista della bontà dell’elemento che avrebbe arricchito la grande Famiglia massonica, che la loggia soprassedesse alle formalità d’uso. Il Fratello Venerabile ed altri Fratelli offrendosi della moralità di detto profano, l’Oratore conclude appoggiando la proposta che viene approvata ad  unanimità. Si procede  dunque all’ammissione di detto profano Giovanni Pascoli, professore di San Mauro di Romagna di anni 27”.

Apprese “le parole, i segni e toccamenti del grado”, Pascoli prese posto  “alla colonna del Nord”.

E da lì, con la parola e l’esempio, riscaldò milioni di Uomini liberi e di buoni costumi altrimenti intirizziti dallo smarrimento dei valori costitutivi della Libera Muratoria. (*).

(*)  A sostegno della necessità di una storia documentata ed esauriente della  Massoneria bolognese (come dell’intera regione) notiamo che, senza citare fonte alcuna, Pier Paolo D’Attore in La politica (Aa.Vv., Bologna, a cura di Renato Zangheri,  Roma-Bari, 1986, pp. 76-77)  scrisse: “Nel 1881  la Loggia Rizzoli contava tra gli adepti  tutti i leaders democratici (Ceneri, Filopanti, Carducci,ecc.); nuove leve, come Barbanti Bodano, Golinelli, Pascoli; liberali come Magni e Tacconi stesso”. Eppure nel 1986 da anni era disponibile il  presente saggio di Carlo Manelli, dal quale si evince in modo inoppugnabile che la “Rizzoli” alzò le colonne il 21 dicembre 1881, ma non affiliò affatto  Carducci, mentre Pascoli vi venne iniziato  23 settembre 1882. Anche illustri storici scrivono “a orecchio” e, purtroppo, “fanno testo”.

Nella scheda dedicatagli in L’Italia dei Liberi Muratori (Roma, Erasmo, 2005, po.27-28) Vittorio Gnocchini scrive che  Bassi venne condannato dal tribunale austriaco e fucilato “all’insaputa delle autorità   religiose e della stessa autorità pontificia”.  Quanto alla sua iniziazione liberomuratoria anch’egli, sulla scia di Manelli, riprende la lettera di Lenzi. V. però Rosario F. Esposito, Garibaldi e il p. Ugo Bassi in  Santi e massoni al servizio dell’uomo, Foggia, Bastogi, 1992, pp. 99-118, con ampia bibliografia.  Esposito cita l’articolo di Alessandro Luzio, massonofobo ma scrupoloso, il quale, sulla scorta di p. Antonio Bresciani S.J. (Don Giovanni Verità, ossia il benefattore occulto, “La civiltà cattolica”, 1856) scrisse che il comandante asburgico Gorzkowski  mirò “con affannosa cura a non lasciar tempo all’autorità ecclesiastica di avocare la sua (di Bassi) causa al foro ecclesiastico: cosicché non hanno ragion d’essere le sanguinose invettive contro il clero, come complice dell’assassinio del Bassi, lanciate poi da ,molti, da Garibaldi per primo”.

Alla vigilia del forzato  scioglimento, nel 1925, le logge dell’Emilia del Grande Oriente d’Italia erano così distribuite:

Bologna, “VIII Agosto”  e “Ca ira”;

Ferrara, “Fratelli d’Italia” con triangolo a Codigoro;

Forlì, “Aurelio Saffi”; Cesena, “Rubicone”; Rimini, “Giovanni Venerucci”.

Modena. “Nicola Fabrizi – Secura  Fides”, Carpi. “Ciro Menotti”; Sestola, “Luce del Frignano”;

Parma, “Alberico Gentili”, con triangoli a Bedonia, Borgotaro, Colorno, San Secondo  Parmense;

Salsomaggiore, “Emilio Zola”, triangolo a Borgo S. Donnino;

Piacenza: “Ernesto Nathan” e “Roma Nuova”;

Ravenna: “Dante Alighieri”, Faenza ,“ “Torricelli”, Lugo “Dovere e Diritto”;

Reggio Emilia, “G. Carducci – P. Pirondi”, triangolo a Guastalla.

Negli Annali della Gran Loggia d’Italia (1908-2012) Luigi Pruneti documenta la forte presenza della  Serenissima Gran Loggia in Emilia e Romagne, in specie nel 1918-25: un mondo del tutto ignorato dal volume collettaneo Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, a cura di Giovanni Greco (Bologna, Clueb,2007), ove spicca  il saggio di  Stefano Scioli, Giovanni Pascoli, poeta e massone (pp. 301-318).

L’Autore esprime gratitudine alla Signora Angela Melgrati che propiziò lo studio dell’opera di Alice Cencetti.