L’abito del male. Riflessioni sul Vizio nella Iliade di Shakespeare

di Veronica Mesisca

Nella Londra teatrale a cavallo del Seicento montava Sir William Shakespeare, giunto nel mezzo del cammin della sua vita con alle spalle una ventina d’opere di cui circa la metà svolte in compagnia dei vari Re Giovanni, Riccardo, Enrico e, ultimo, il giovane principe Amleto. Ormai esperto di oscenità inscenate, il celebre drammaturgo di Stratford Upon-Avon pare voler rivolgere la sua indagine, non tanto all’atto malvagio in quanto tale, ma alla sua propria fonte nell’animo umano, da Aristotele filosoficamente riconosciuta nei vizi capitali, spesso apostrofati come peccati, seppur impropriamente, visto che, nell’esserne etimologicamente a capo, ne fungono da causa antecedente. Lasciata quindi la Danimarca e, con essa, tutta una serie di contesti storici, il prologo maligno è ambientato nell’epica città di Ilio, che offre al microscopio della ribalta londinese – non meno di quanto aveva offerto con Omero – il vizio come protagonista principale del testo immediatamente successivo al famoso essere o non essere … perché poi, se essere, cosa essere? Sulle peripezie di un’incerta definizione, il caleidoscopico capolavoro di Troilo e Clessidra propone una caricatura dell’uomo come connubio di eroiche virtù innalzate su oscure – e non abbastanza profonde – prigioni al vizio… segrete da cui il recluso carcerato evade, travestito con l’aristotelico abito del male, ogni qual volta sfugge all’occhio vigile del suo coscienziale secondino. Nell’opera del bardo letterato, i virtuosi eroi vengono singolarmente caratterizzati attraverso i propri (mal-)costumi, cromaticamente sfaccettati nei colori della dissolutezza, precedendo così di quasi duecento anni l’Antropologia Pragmatica di Kant, ove il filosofo tedesco, parimenti al drammaturgo inglese, costruisce uno dei suoi ultimi e più dilettevoli trattati attorno alla domanda su cosa sia l’essere umano. Se comprendere il divino è impossibile, abbracciare l’uomo nella sua interezza diventa ovvia missione per la ragione kantiana che qualifica temperamenti e malattie dell’anima con variopinta e caricata precisione, tanto che il lavoro filosofico del Settecento degenera, nel secolo successivo, in quella analisi psicopatologica che, nell’identificazione medica del male con la malattia, impaluda il libero arbitrio nella normalità sociale. Difatti, dopo la lezione illuminista e l’avvento industriale, la visione morale, propria di una religione ormai in disuso, viene soppiantata da una concezione robotica dell’essere umano, derubando la società non tanto della categoria di male – come sostiene il cardinale arcivescovo Ravasi – poiché esso esiste ancora in forma patologica, quanto del concetto di volontà coscienziale implicante la libera scelta consapevole. L’atto malvagio, in pratica, a fine Ottocento è scientificamente incatenato all’antropologia umana di una la società che, non avendo più la libertà di escluderlo, con il supporto aristotelico, ha normalizzato il vizio ad una misura standard su cui poter gettare le basi per la costruzione della moderna concezione di mercato e di sviluppo commerciale… La favola delle api di Bernard de Mandeville prende forma: il vizio privato è tramutato in virtù pubblica e il male in bene di consumo, principio di sostegno economico – indi amministrativo – della polis moderna, tenuta in piedi, come la mitica città della Troia shakespeariana, da una crescente “febbre invidiosa di pallida ed esangue emulazione. Non [dal] suo vigore” 1. Il grembo omerico in Shakespeare assume esplicita parodia di un sociale che offre la porta dell’infernale atto dacché avente per eroi le stesse fiere dantesche, trasfigurate, nella tragedia, in un Ettore con il “fegato chiazzato” 1 d’ira come mantello della lonza, un Achille il cui “cuore [del leone è] malato di superbia” 1 e, infine, Aiace che “abbaia” 1 per lo stomaco invidioso della lupa. Complice della corruzione organica degli eroi è il Tempo che, in un mondo privo di scelta morale, si tramuta da padre di un futuro inconoscibile, ergo fonte salvica di libero arbitrio – reale o presunto, poco importa nella vicenda –, in un “vizioso e capriccioso”1 costumista che, nel dubbio e nell’incertezza del domani, trae il filo usato per tessere l’abito al male. L’uomo, nella fretta d’essere, distrugge il divenire. Solo la pazienza, quella “dea, [che] non impallidisce meno dell’[essere mortale] di fronte alla sofferenza”1, diventa, quindi, nell’analisi shakespeariana, la “virtù fissa”1 in grado di arginare la corruzione temporale, frenando le viziose brame personali, di fatto più interessate più alla conquista dell’onore, quale encomio del valore, che al suo esercizio. La sola conquista dovuta all’uomo virtuoso è la dignità, intrinsecamente bastevole alla consapevolezza di meritare quell’onore che “cammina per una via così stretta che ci si passa solo uno per volta, tenendosi sulla retta via”1, ovvero quella giusta. Tenendosi, appunto, con pazienza, intesa come perseveranza – letteralmente “continuità del fare”2 –, l’unica in grado di “conservare all’onore il suo fulgore” 2 visto che “il Tempo ha sulla schiena una bisaccia, in cui ripone elemosine per l’oblio” 1 e i meriti reclamati per la virtù passata (“la buona nascita, il vigore del corpo, il merito in servizio, l’amore, l’amicizia, la carità, …”1) sono tutti suoi indiscussi sudditi che “trasform[ano] i cherubini in diavoli, ciechi alla verità” 1. Per codesto motivo, secondo Sir Williams, il valore vero – pertanto eroico – dell’essere mortale, emerge solo al momento del mancato ottenimento del riconoscimento di medaglie, titoli, aumenti di paga e quant’altro testimoni le passate imprese, poiché “ottenere è comandare, non avere costringe a pregare, [e con] costanza, la cui purezza non si scorge quando la Fortuna arride [eguagliando] il saggio e lo stolto”1, ma nel momento in cui “colei che tutto dispone è indisposta”1. Difatti, “è alla prova della sfortuna che si saggiano gli uomini”1, quando la Sorte, “accigliata, manda vento e tempesta [così] che Distinzione, col suo ampio e potente ventaglio, sbuffando su tutti, spazza via chi è leggero, e solo ciò che ha massa e materia resta, ricco di virtù” 1. Codeste parole, di fatto ricamate sul detto aristotelico secondo il quale la virtù risplende nelle disgrazie, diventano argomento di Agamennone per incentivare gli achei a “saggiarsi” in guerra… se non fosse che, nel suo esercito, il “Cavalier Valore [va morendo] nei risi e nelle dicerie”1 proprio per mano dei suoi prodi eroi che, con l’invidiosa diffamazione chi ha loro grado superiore, si dilettano a nutrire l’inosservanza, strozzando ogni onore. Tuttavia, appena l’uomo di buoni costumi (ergo vestito con il bene, aduso ad atti benevoli) concede inconsciamente l’ora d’aria viziata al proprio prigioniero, il male trae occasione per generare il caos e confonderlo… difatti, mancando di rispetto a “grado, priorità, collocazione [… e] ruolo”1, malamente mescola “l’ordine gerarchico, ch’è scala ad ogni più elevata meta”1, inducendo così una “maligna confusione [in cui] la forza diverrà il diritto, o, piuttosto, il diritto ed anche il torto” e nel disordine ove “tutto e il contrario di tutto dive[nta] materia di paradosso, […] la Giustizia stessa perde il suo nome”1. La viziosa malattia, che nel caos della tragedia è ormai irrimediabilmente evasa dalle sue oscure prigioni, infetta ad uno ad uno ogni virtuoso “Fedele in Amore”1, persino il giovane principe Troilo, figlio di re Priamo, che, da promettente e saggio paladino, perdendo di vista il reale oggetto di valore, cederà la promessa Cressida alla parte greca, esponendosi così alle ovvie fiamme dell’ira che lo renderanno non “più padrone di sé stesso”2 quando l’amata, venduta ai diletti lussuriosi del campo straniero, mancherà di una fedeltà non di diritto all’infedele atto, smerciando il proprio cuore a colui che le dimostrerà di saper mantener il pegno. Come è dubbio il diritto del principe Troilo, primariamente colpevole di non tener fede alle promesse, parallelamente è incerto il diritto del fratello Paride che, macchiato del “gentil ratto”1 della sua bella Elena a cui “rifà il trucco con il sangue dei compatrioti”1, in nome dell’onore continua a reclamare la donna vilmente sottratta e che, forse, insinua Shakespeare, “non vale ciò che costa tenerla”1… La pace, se ha un valore, ha anche un prezzo. La resa di Elena è armistizio a patto della perdita di diritti e onori che i “virtuosi” principi troiani non sono disposti a pagare, nonostante Cassandra profeticamente ammonisce loro che “il male non estingue il male”1, pertanto è vano impegnare il proprio onore “nel gusto di una contesa [sperando di] rende[rla] sacra”1, poiché “gli dei sono sordi ai voti avventati [delle] offerte impure”1. Ma i paladini, “inadatti ad apprendere la filosofia morale”2 di Aristotele – secondo il drammaturgo – in nome del diritto e dell’onore, non ascoltano… d’altronde “voluttà e vendetta hanno orecchie più sorde delle vipere alla voce di una decisione veritiera”2. La tragedia esalta il carattere strumentale del diritto, poiché l’uomo, incapace di tenere a bada i propri appetiti, perde di vista la funzione di ricerca ed affermazione della verità e della giustizia divina, rivendicata dalla parte achea con il diritto di legittimità secolare, mentre dalla parte troiana in onore della legittimità individuale… omericamente, la ragionevolezza illuminata di Atena contro la fedele passione di Venere. Tuttavia, così come la giustizia è prerogativa della divinità somma, il diritto che serba in seno appartiene solo a Zeus che, non a caso, non prende parte al conflitto umano. L’uomo ha solo un diritto naturale e, cavillando legalmente, può supportare quello pubblico o il privato, così come può costituire società strutturate nel rispetto di legislature religiose che sfidano il potere temporale o, viceversa, può decretare razionali legislature statali che bandiscono dalle regole civili l’irrazionalità delle leggi teoclaste… eppure, l’uomo non può muovere guerra in nome di un diritto che, seppur ragionevole ed illuminato, non sarà sacro, inviolabile e, tantomeno, sarà un diritto universale… anche perché, se così fosse, sarebbe universalmente valido, quindi incapace di essere fonte – reale – del conflitto umano. Forse, allora, non c’è alcun virtuoso valore nella guerra… Gli eroi dormono il sonno dei giusti, ma Sir Williams nutre il dubbio che conserva svegli… perché poi, se non c’è uomo che possa punire uomo, società che possa giudicare altra società, allora, per Dio (della Ragione o della Fede), chi applicherà la frusta ai pensieri e al cuore la disciplina perché non siano risparmiati gli errori e i peccati non restino impuniti, moltiplicandosi? Shakespeare non dà risposta. Si limita ad ammonire la coscienza di ciascuno nel sussurro profeticamente vero di Cassandra: “non è cosa santa fare del male per essere giusti”1 … ma è tardi, ormai la notte cala su qualsiasi valore negli eserciti di Oriente e di Occidente, parimenti legittimati a spargere sangue per una causa “giusta”, votata a un Sacro che, come Zeus, rimane sordo al loro credo.

1 William Shakespeare – Troilo e Clessidra, a cura di I. Plescia con Introduzione di N. Fusini, Ed. Universale Economica Feltrinelli, I Classici, 2015

2 http://www.liberliber.it/mediateca/libri/s/shakespeare/troilo_e_cressida/pdf/troilo_p.pdf

3 La Sacra Bibbia, Sir. 23, 2-3