Racconti di viaggio. Ladakh: il Piccolo Tibet

“…Il silenzio era percepibile come un suono muto che si diffondeva con l’energia di un’esistenza negata…”

Il Ladakh è un altopiano immerso tra le montagne della Catena Himalayana. Politicamente appartiene allo Stato indiano e viene  chiamato “Piccolo Tibet” sia per la sua particolare conformazione geologica che per la tipologia etnografica delle genti che vi abitano. Si trova, infatti, localizzato geograficamente nel Tibet, dal quale sono giunti numerosi profughi scampati all’invasione cinese del 1950.

Un robusto giovanotto indiano chiuse con energia lo sportello del piccolo jet, che mi avrebbe condotto a Leh, lasciando all’esterno la calda ed umidissima aria di Nuova Delhi.

Il viaggio era iniziato all’aeroporto di Torino e mi aveva condotto in India attraverso una lunga tappa intercontinentale.

Decollai con altri passeggeri locali, qualche capra ed alcune galline. Durante il breve viaggio dominò un malcelato senso di preoccupazione, interrotto solo dai lamenti discreti di qualche animale. I passeggeri, consapevoli della precarietà della propria condizione di sicurezza, rimasero muti e rassegnati invocando qualche Ente superiore affinché intercedesse a favore della buona sorte.

Il panorama che si presentava oltre i piccoli e sudici finestrini palesava lo spettacolo della catena Himalayana sulla quale galleggiavano bianche nuvole sedotte dai monsoni estivi.

Dopo poco più di un’ora oltrepassammo una catena alta più di seimila metri e ci tuffammo in una vallata stretta ed irregolare, assolutamente priva di neve.

La rotta prese la forma di una spirale e per quasi mezz’ora ci limitammo a perdere quota, sfiorando con inspiegabile disinvoltura  il carosello di montagne, che incorniciavano la discesa del jet.  Al termine di quella temeraria discesa vidi un breve tratto di penna dall’inchiostro verde che aveva segnato il fondo di una vallata, sul quale il jet avrebbe dovuto atterrare.

L’apertura dello sportello ci regalò questa volta la freschezza dell’aria limpida ed incredibilmente secca di Leh.

I 3200 metri di quota si sentirono immediatamente e occorsero un paio di giorni per abituare il fisico a quella repentina variazione d’altitudine.

Dopo aver fatto una breve conoscenza con Lobsang, la guida che mi stava aspettando per proseguire il viaggio, andammo con l’autista della Toyota in albergo per prendere i primi contatti con la nuova realtà.

Due giorni dopo iniziammo il viaggio attraverso le splendide località di quella misteriosa regione che sedusse ben prima di me molti noti viaggiatori

Appena usciti dai confini della città imboccammo una “strada” sconnessa, a tratti nemmeno asfaltata, con grandi buche quasi impossibili da evitare. La grande perizia del nostro autista evitò il peggio: con il palmo della mano perennemente incollato al claxon si lanciava a grande velocità, sorpassando autocarri dagli scappamenti mefitici. I veicoli venivano superati a volte sulla destra, come vuole il loro tollerante codice stradale di origine inglese, altre volte sulla sinistra, forse per farmi sentire meno lontano dal mio Paese.

Giungemmo dopo un paio d’ore alla Gompa di Hemis, un popolato monastero noto per le sue spettacolari  manifestazioni.

In compagnia di Lobsang salii con cautela gli alti scalini che avrebbero condotto all’ingresso, trovandomi quasi immediatamente con il cuore in gola.

La scala portava ad una porta di ridotte dimensioni che immetteva in un grande cortile; si trattava del luogo in cui tra la fine di giugno e l’inizio di luglio si svolgevano le sacre rappresentazioni.

Lobsang mi condusse verso un’altra scala che, salendo ancora più ripida della precedente, conduceva al Tempio del monastero.

Ci togliemmo le scarpe e con riverente rispetto ne varcammo la soglia.

L’emozione mi colse di sorpresa: fu come vedere materializzarsi di colpo l’immagine archetipica del Tibet;  mi sentii proiettato fuori dal tempo, invaso dall’odore del burro di yak e da una teoria di suoni scintillanti nati da strumenti metallici battuti con antica sapienza.

Il profumo del legno vecchio di secoli si mescolava all’odore più acre del burro rancido che alimentava le piccole lampade, una debole luce filtrava dall’alto creando un’atmosfera irreale.  All’interno del Tempio alcuni monaci declamavano antichi versi, scritti su lunghi fogli di carta ingiallita.

Il confronto con il sublime genera il misterioso senso del sacro, che non deve necessariamente trasformarsi in esperienza mistica, ma può, come nel mio caso, farci intendere con maggior consapevolezza che la dimensione divina potrebbe trovarsi quasi alla portata della nostra comprensione.

Una sensazione ricca di nostalgia e di inspiegabile affinità si impossessò della mia piccola anima, generando una leggera vertigine; smisi di fotografare e rimasi alcuni istanti in ascolto delle emozioni.

Avevo tutti i sensi bersagliati da segnali particolari, generati da colori, suoni, odori.

I piedi, in intimo contatto con il pavimento del Tempio, ne recepivano le vibrazioni, stabilendo un intimo rapporto con la dimensione sacra che voleva trascinare la mente fuori dal tempo, lontano da ciò che i pensieri e i ricordi della mia memoria si sforzavano incessantemente di riproporre.

Le vecchie Tanka sbiadite stavano appese alle travi del soffitto pronunciando con forme e colori i concetti più occulti del Buddismo tibetano. In quel caotico insieme di paramenti e di oggetti rituali avvolti dalla debole luce di poche fiammelle, si potevano percepire sottili sensazioni provenienti dal profondo: lontani richiami mai dimenticati si affacciavano alla parte emotiva della mente regalando intimo benessere.

In quel momento mi domandai se fossi fuggito dal mio Paese per trovare una pace interiore o se quel mondo così particolare e differente dal nostro avesse organizzato l’atteso incontro.  Provai a non pensare ed a rimanere semplicemente in ascolto avvolto dalle sensazioni evocate dal luogo.

Durante i giorni seguenti visitai molti altri monasteri, apparentemente simili tra loro, respirando in ognuno una diversa atmosfera, quasi fosse presente un’impronta in grado di rendere unici quei sacri spazi.

Nel Monastero di Phyang visitai un piccolo tempio posto in basso rispetto a quello principale: entrai preceduto dalla guida, chinando il capo per assecondare l’altezza ridotta della porta di legno che ne limitava l’ingresso, trovandomi in un locale dalle dimensioni contenute.

All’interno erano presenti alcune colonne, laccate di rosso, sulle quali si trovavano appese grandi maschere rituali di cartapesta. Ogni oggetto era parzialmente coperto da sottili sciarpe di seta, rendendo così più difficoltosa l’osservazione; un vecchio trampoliere impagliato pendeva dal soffitto aggiungendo una nota lugubre all’insieme.

Si respirava un’aria molto pesante: un profumo dolciastro invadeva ogni angolo, mentre una debole corrente d’aria muoveva i numerosi addobbi coloratissimi, che ondeggiavano pigramente come spinti da mani invisibili. Un raggio di sole tagliava la stanza materializzando una lama di particelle in sospensione che sembravano danzare al ritmo di lontane melodie, provenienti da sale distanti.

Osservando quell’insolito movimento di colori e di profumi percepii uno strano senso di irreale leggerezza, che invitava al totale distacco.

Lobsang, sussurrando, mi confidò che In quel tempio così particolare avvenivano delle riunioni segretissime, delle quali, però, non volle riferirmi nulla.

Dopo i primi giorni i tragitti tra un monastero e l’altro divennero meno difficili da affrontare: mi abituai a quella guida così bizzarra e a quegli scossoni improvvisi che sembravano volerci gettare nei  fossati ai lati della carreggiata.

A volte imboccavamo delle stradine laterali, appena accennate, che si trasformavano subito in ripidi tornanti privi di protezioni a valle; i frequenti incontri con veicoli provenienti dalla direzione opposta si traducevano in pericolose acrobazie automobilistiche, e gli effetti di alcune meno fortunate manovre risultavano ben visibili nei sottostanti burroni.

Fortunatamente a noi toccò sorte migliore e riuscimmo ad attraversare il passo carrabile più alto del mondo:  Khardung La, quota  5604 m. s.l.m.

La strada precipitò in una spettacolare vallata  aperta al turismo solo da pochi anni, regalando dei panorami unici sia per conformazione delle montagne, che per i colori del paesaggio: un tuffo nel vuoto creato dalle spaccature di pareti alte cinquemila metri alla base delle quali scorreva il “Nubra”, un fiume dal colore grigio, limitato da verdissime strisce di terra coltivata.

Raggiungemmo un modestissimo villaggio per turisti senza pretese, dotato di spartane toilette  e di tende per affrontare la notte.

Dopo aver cenato in modo frugale feci una breve passeggiata nei dintorni del campo. L’assenza di altre luci creò una situazione suggestiva: spensi la torcia e scoprii la luminosità di un cielo che non avevo mai potuto osservare in precedenza. L’assenza di Luna favorì lo sfavillio della miriade di stelle che sembravano incollate alla volta di un firmamento troppo vicino.

Le montagne che cingevano la vallata erano sagome di cartone nero ritagliato da abili mani.

Pensai che l’uomo abbia necessità di vivere questi rari momenti di grande intimità con il proprio essere profondo, per iniziare l’interminabile cammino verso la conoscenza di se stesso.

L’ultimo giorno visitai la Gompa di Tak Thog, un curioso Monastero costruito sfruttando la naturale cavità di una grotta.

Questa caratteristica particolare rendeva unico quel sacro luogo: l’interno appariva essere definito realmente dalle irregolarità della viva roccia; un colore molto vicino al nero ricopriva come manto di caligine ogni parte delle pareti e della volta.  Alcuni lumini tentavano di rompere le tenebre, rischiarando leggermente la zona circostante; anche le statue di legno raffiguranti Budda ed alcuni Santi personaggi del pantheon indiano apparivano immerse nelle tenebre.

Il silenzio era percepibile come un suono muto che si diffondeva con l’energia di un’esistenza negata.

La guida mi disse che in quella grotta, che era in realtà il sancta sanctorum di tutto il complesso, la temperatura rimaneva stabile tutto il periodo dell’anno, permettendo ai monaci di officiare più agevolmente. Ci disse anche che in inverno, all’esterno, il termometro poteva scendere sotto i quaranta gradi centigradi.

Tornai quindi a casa, con gli occhi pieni di colori vivaci portando nel cuore un pizzico di nostalgia per quel senso di pace così tangibile e naturale. Tornai a casa accompagnato da sensazioni che non si potranno mai esprimere a parole, così come non si potrà mai esprimere l’insieme delle emozioni nate dal contatto con una realtà dalla profonda essenza spirituale, che di fatto appartiene all’India pur avendo l’anima e la morfologia tipiche del Tibet.

Giancarlo Guerreri