Sulla inesistenza del metodo massonico

Metodo, al pari di numerosi altri vocaboli esistenti nella lingua italiana, è il calco della parola composta di origine greca méthodos che, nella sua accezione originaria, significa via (hodòs) che conduce oltre (metà). Donde l’idea insita nel lemma di un movimento, di un percorso da un punto – materiale o intellettivo –  ad un altro, verso un risultato costituito da un superamento che, come si lascia intendere, comporta problemi da risolvere, molteplici difficoltà da affrontare, ostacoli da superare. Il momento definitorio, come ognuno intende, è stato volutamente mantenuto nel vago e nel generico perché così impone il primo approccio alla trattazione dell’argomento.

Il concetto di metodo è storicamente legato soprattutto al problema della acquisizione della certezza in ambito conoscitivo. In questa accezione, il termine, dal punto di vista soggettivo, coincide con il percorso che l’autore dell’indagine deve seguire per affrontare e portare a termine una ricerca, mentre da quello oggettivo, si identifica con l’individuazione di prescrizioni che, in termini ottimali, consentono di dissodare uno specifico campo del sapere. Sia esso costituito da eventi naturali; da questioni di natura filosofica, teologica, storica; o la stessa costruzione e l’interpretazione dei principi e delle norme che compongono l’ordinamento giuridico. Nella Storia del pensiero occidentale si deve probabilmente a Socrate l’idea che l’attività avente per fine la conoscenza debba, al pari di ogni altra arte, conformarsi a regole precise, il che instaura un rapporto – del quale Socrate si mostra pienamente consapevole – fra la validità di una conoscenza e il modo in cui la stessa viene raggiunta.

Ciò costituisce l’essenza di ogni posizione e riconosce importanza preminente al problema del metodo, inteso, appunto, come procedura volta a evitare ogni forma di errore nell’analisi dei concetti e, in particolare, quell’errore, tipicamente umano, che consiste nella accettazione tacita di pregiudizi.

Tanto il metodo maieutico di Socrate, quanto quello dialettico teorizzato da Platone, oltre a norme di carattere negativo, contiene estorsioni positive da seguire nella ricerca. Mentre le prime (negative) hanno carattere igienico nel senso di prescrizioni volte ad evitare gli errori, le seconde (dette regole euristiche) dovrebbero, invece, realizzare la costruzione della conoscenza rettamente intesa. Al primo tipo di prescrizioni appartiene, per esempio, la regola di Bacone che esige la eliminazione degli idola e lo stesso rasoio di Occam che, nella ricerca, impone l’eliminazione di tutto ciò che è superfluo e pletorico. Al secondo, ad esempio, la terza regola del metodo di Cartesio.

Il metodo, come problema, nel secolo appena trascorso, è stato posto ad oggetto di studi ed approfondimenti in particolare dei filosofi della scienza. Storicamente i modelli più influenti sono stati il metodo matematico di stampo geometrico-euclideo che, a procedere da assiomi e definizioni, deduce i corrispettivi teoremi, e il metodo sperimentale che, viceversa, consiste nella formulazione di ipotesi e nella loro verifica mediante l’esperienza.

In epoca contemporanea entrambi i metodi sono stati sottoposti a serrata discussione. La critica più severa si deve a Karl R. Popper che, nella sua opera Logica della scoperta scientifica, ha introdotto, per la prima volta, la metodologia falsificazioni sta, che si risolve nell’assunto secondo il quale le uniche autentiche teorie scientifiche sono quelle falsificabili, ossia le teorie che resistono alla confutazione sistematica. In quest’ottica, che si discosta radicalmente da tutti i precedenti presupposti metodologici, la scienza diventa così una specie di masochismo intellettuale in cui l’uomo di scienza deve essere un ipercritico e, soprattutto, un autocritico costante e incorruttibile. Nessuno prima di Popper ha sostenuto che la verifica deve estendersi anche a cosa non è opportuno. È questa idea che ha reso famoso lo studioso, sia nella sua epoca, sia successivamente.

Alla teoria della falsificazione di Popper, obietta, tuttavia, Imre Lakatos (1922 – 1974 in Critica e crescita della conoscenza, 1970; Dimostrazioni e confutazioni, 1970) che tutte le teorie sono invece falsificabili. Le falsificazioni, il più delle volte, metterebbero inoltre capo alla riformulazione delle ipotesi, anziché al loro abbandono. Errerebbe, dunque, Popper nel sostenere che la confutazione sarebbe il punto di non ritorno di una teoria, il che ne giustificherebbe l’abbandono, visto che, secondo Lakatos, si tratterebbe, invece, di un semplice accantonamento.

Oggi si è portati a credere che il processo euristico, proprio a ragione della sua complessità, sia difficilmente riducibile alla osservazione di semplici regole. Anche perché, all’interno della ricerca, specie di natura scientifica, giuocano un ruolo non secondario elementi extra-scientifici, quali fattori psicologici storici e culturali. Si è, perciò, finito col negare lo stesso interesse alla ricerca metodologica. Pure perché l’adesione ad un metodo sarebbe persino di ostacolo alla innovazione scientifica che si realizza, invece, proprio mettendo in discussione i pregiudizi incorporati nelle vecchie teorie e nei dati che le corroborano. Il che – e l’osservazione non è affatto inutile – da altro verso significa ad essere disposti a mettere in discussione lo stesso carattere razionale della scienza.

Nel quadro di riferimento dianzi tracciato si pone il problema, che costituisce l’oggetto specifico di queste note se, in ambito massonico, sia ammissibile – o meno – un metodo proprio esclusivo e peculiare. Se si riconosce come esistente un metodo massonico, codesto metodo non potrebbe, infatti, che essere proprio, esclusivo e peculiare al mondo latomistico. Ad altrimenti argomentare, l’aggettivo massonico perderebbe, infatti, la sua natura di aggettivo qualificativo, tale cioè da differenziare codesto tipo di metodo da ogni altro.

Nell’affrontare l’argomento ci si imbatte subito in una prima difficoltà, per certo, non di lieve momento. Infatti, l’esistenza di un metodo massonico, mentre viene data come sussistente per antonomasia, a rigor di logica dovrebbe, invece, costituire l’oggetto di una rigorosa dimostrazione che, almeno a quanto consta, non è invece mai stata fornita.

Aggiungasi che, ove si ammetta l’esistenza di un metodo massonico, si dovrebbe contestualmente indicare in forma specifica il suo contenuto, id est il percorso che il massone dovrebbe seguire per affrontare e portare a termine la propria ricerca. Anche a questa indicazione tuttavia difetta!

Sicché la duplice lacuna (mancata dimostrazione; contenuto indefinito) sta a comprovare l’errore logico nel quale incorrono tutti gli studiosi che danno per scontata l’esistenza di un metodo massonico come un assioma.

Ai sostenitori della veduta antagonista si presenta un’ulteriore difficoltà, dal carattere non meno dirimente. La massoneria ha il culto della libertà. Sarebbe, pertanto, in contraddizione con se stessa laddove, ai propri adepti, imponesse un metodo che invece, per definizione, ripugna quel principio personale di ricerca che è il cardine assolutamente irrinunciabile del nostro credo.

Dunque è una insanabile contraddizione a non permettere la coercizione che, oltre alla via, dovrebbe pure contenere le modalità da seguire e rispettare per affrontare e portare a termine la ricerca volta all’avvicinamento della verità. Parrebbe pertanto lecito concludere sostenendo l’inesistenza di un qualsiasi metodo massonico. Quanto dire, che il metodo massonico si risolverebbe in un non-metodo.

A questa conclusione eravamo già giunti in una prima riflessione che, ulteriormente approfondita, ci ha lasciato tuttavia insoddisfatti al pari di ogni negatività. In via definitiva, optiamo pertanto per concludere nel senso che, in massoneria, non esiste il metodo, quanto, invece, una assoluta libertà di metodo.

Anzi. La massoneria è una lotta contro il metodo per la libertà del metodo.

Avverso coloro che vorrebbero imporre metodologie prefissate, per di più assolutamente prive di contenuto, noi opponiamo per l’atteggiamento libero e creativo come totalmente indispensabile per conseguire una qualche conoscenza. Senza temere di riconoscere che la scoperta possa essere frutto anche del caso e perfino della fortuna, se non addirittura della deliberata infrazione delle regole comuni.

Ciò che apre il problema di dare un contenuto alla deliberata libertà di metodo che, a nostro sommesso ma meditato avviso, significa, innanzitutto, natura composita di qualsiasi tipo di indagine dove il dubbio è il principale motore della ricerca, perché il dubbio è il principio primo della natura, secondo l’insegnamento di Protagora.

L’attitudine al dubbio origina poi una interrogazione continua, nel quale contesto non ha peraltro spazio la ragione irragionevole, per tale dovendosi intendere quella che non conosce limiti, sebbene non possa fungere da padrone neppure da padrone la ragione ragionevole, che è strumento di piombo e di cera. Di piombo, perché è faticoso a maneggiarsi, di cera perché adattabile ad ogni situazione. Sicché non resta che l’abilità di saperlo modellare e utilizzare. Mai però con risultati definitivi per una pluralità di motivi che non sarà inutile specificare.

Innanzitutto, perché muta il soggetto che indaga, così come muta l’oggetto di volta in volta descritto nei suoi diversi aspetti e nei suoi diversi punti di riferimento assunti. Sicché l’instabilità strutturale sussistente fra il soggetto e l’oggetto, mentre lascia ampi margini di incertezza, trasforma nel contempo l’uomo sempre in una sorta di tirocinante, una specie di essere in prova. Ammettere poi tutto questo – come è doveroso sottolineare – non significa affatto contraddire la verità, quanto, invece, servirla per ciò che autenticamente è.

In secondo luogo, perché la regola della ragione raziocinante è l’analisi. La ragione, per definizione, nomotizza e divide la realtà. Con il risultato finale che si preclude una visione totalizzante, proprio perché la ragione incalza la realtà, ma subito la spezza e la frantuma. Anche se ha poi la pretesa di cogliere la res sotto i verba.

Alla ragione, presunto criterio principe della conoscenza, preferiamo la ragione – settaccio, a motivo che, alla stessa, può essere affidato unicamente lo scopo di realizzare il compito, per quanto complesso, della sistemazione attraverso il vaglio critico.

Molto più produttiva di risultati ci appare, invece, la intuizione che, della realtà, ha una visione omnicomprensiva, anche se ciò – ovviamente – non significa l’abbandono della ragione raziocinante perché, come conviene ribadire, questo tipo di ragione è chiamato a misurare, a pesare, a bilanciare e controbilanciare.

La ragione raziocinante, per esprimerci in termini massonici, è – e rimane – il compasso che libera dai pregiudizi e dall’intolleranza, vale a dire dai metalli che tiranneggiano l’uomo, mescolanza di beni e mali perché beni e mali sono consustanziali al vivere. Così come complesso di cose opposte fra loro è la realtà. Sicché, per conoscere, più che sulla identità e sulla similitudine, si deve invece far leva sulla diversità. È per questo, ad esempio, che la vera istruzione avviene più per contrasto che per esempio.

Nella composta libertà di metodo, può trovare spazio perfino la immaginazione che, in quanto seme e indizio del nuovo, apre al pensiero vie nuove in precedenza sconosciute, con quel sapere aude che è annuncio di conquiste frutto dell’insperato.

Il carattere composito del libero metodo qui difeso consente, infine, il ricorso, tanto alla induzione quanto alla deduzione, senza dovere discettare sulla prevalenza del primo metodo sul secondo, o viceversa, sulla scorta dei limiti intrinseci e propri di ciascun metodo. In questo senso, il metodo sostenuto ben lo si può definire come euristico.

Tutto ciò che avvicina alla verità può – e deve – essere praticato in quei termini inflessibilmente rigorosi che sono propri della onestà intellettuale. Verità che, in quanto inglobante i contrari, è di per se stessa una contraddizione, ricchezza del mondo, sua essenza. Coglierla è impresa ardua, irraggiungibile obbiettivo, quanto però ineludibile perché lo statuto dell’uomo è conoscere, quanto mento, l’energia dinamica che lega gli opposti.

Con questo studio abbiamo realizzato il tentativo di contribuire ad una corretta impostazione del problema affrontato. Avuto riguardo all’importanza dell’argomento trattato, è auspicabile un serrato confronto. Queste note, almeno nelle intenzioni di chi le ha scritte, sono dunque preordinate anche a quel fine. L’auspicio è che l’invito venga raccolto.

Antonio Binni