Appartenenza

“Ma come vorrei rivedere ancora una volta quelli della mia Loggia Madre!” parole ben note alle quali il pensiero corre, tuttavia, quando la riflessione si porta sul tema dell’appartenenza che, purtroppo, troppo spesso tendiamo a prendere con superficialità o indifferenza. Fare parte è normalità o abitudine e raramente proviene da un assenso, frutto di riflessione e risultato dilla deliberazione di una mente lucida.
in dal concepimento l’essere umano “appartiene” poiché in lui sono determinati razza, sesso, tratti somatici, caratteri psichici, la nascita lo pone in una famiglia, in un paese, in una società, i genitori gli imporranno un nome, gli daranno un’educazione ed un’istruzione, lo avvieranno al mondo del lavoro. Molteplici sono quindi le forme di appartenenza per ogni uomo in qualità sia di soggetto sia di oggetto, sono le stesse quasi per tutti e quando non lo sono nascono i drammi individuali e sociali. Perché un padre ed a maggior ragione una madre abbandonano o gettano via un figlio? Perché un bambino è rifiutata fisicamente o moralmente? Per quale motivo il rumore della televisione sostituisce la conversazione nelle famiglie? Perché gli slogan sostituiscono l’espressione del pensiero? Perché?…Perché?
Queste domande hanno tutte una sola risposta: perché esiste una infinità di istinti, sentimenti, ragioni che soffocano il senso di appartenenza facendo scoppiare i mali che dall’individuo si propagano e moltiplicano nella società e che tutti derivano dall’angoscia del sentirsi o/e essere soli. Per paura, per incapacità soggettiva od oggettiva di “non farcela”, per timore di affrontare la libertà quando la scopre e ne intravede gli ostacoli per attuarla, l’uomo, a qualsiasi età, preferisce rinunciare, più o meno consciamente, alle sue prerogative di essere pensante e si rifugia in tutto quanto, facendogli perdere ogni forma di personalità, lo fa sentire sicuro. Si tratta di una sicurezza fittizia, una sorta di pillola che provoca uno stordimento ed un oblio artificiali e passeggeri che, dopo una falsa euforia, lasciano un vuoto ed un’amarezza sempre più profondi. Questo modo di vivere non è caratteristico di un’età o di una categoria ed è una tendenza generale ad annullarsi nei gruppi che diventano greggi anonimi ma che forniscono un calore fisico a scapito dell’energia mentale.
Spesso la collettività impone forme di rito per segnare le adesioni, gli ingressi ed i passaggi, manifestazioni per ricordare un’appartenenza imposta che sarebbe facilmente dimenticata perché non voluta liberamente ma subita e non sentita. In alcuni casi è l’individuo che chiede, anche al costo della propria integrità fisica e morale, di portare i segni del gruppo o del clan perché sarebbe isolato dalla sua comunità, sarebbe un “diverso”. Donne africane, istruite, inserite nel mondo del lavoro, consentono l’infibulazione per essere uguali alle altre, perché la loro crescita personale non le isoli e non impedisca una vita personale “normale”. Uomini e donne si sottomettono a riti meno cruenti ma altrettanto lesivi, forse più subdoli, per sentirsi uguali, per confondersi portando un marchio. Miete vittime la droga, ubriaca l’euforia della velocità, distrugge il rapporto con il cibo, deturpano i tatuaggi e gli orecchini ma tutti sono inconfondibili segni di appartenenza. I meno giovani hanno anch’essi i loro marchi di gruppo come la lotta sfrenata contro l’incalzare dell’età, vari tipi di status symbol, e, peggio ancora, con l’associazione a club di cui finiscono per snaturare lo scopo originale e le finalità non avendo nessuna intenzione di servire ma di trasformare un impegno morale in un passatempo ed una manifestazione mondana.
L’associazionismo che ha realizzato molto nella società sta crollando perché gli aderenti non hanno motivazioni, entrano ed escono con disinvoltura e noncuranza, se rimangono si sentono tanto più appagati quanto più alta è la quota d’iscrizione e stimano compiuto il loro dovere quando hanno consegnato un assegno e portano un distintivo.
Il rispetto e la cultura delle appartenenze naturali, lo smascheramento di quelle false, sviluppano nell’uomo il senso di responsabilità nella scelta e la consapevolezza che sciogliere il nodo del fare e non fare dipende dalla libertà d’intenti che sola procura la certezza di poter affrontare i doveri conseguenti alla decisione di appartenere.
Pensiamo a quante volte nel corso di una iniziazione massonica il Maestro Venerabile invita il postulante a riflettere, a valutare, a non impegnarsi non sapendo, a considerare il significato di ogni punto del giuramento la cui sottoscrizione mette in atto “voi apparterrete a noi, e noi a voi”.
Tra tutte le parole pronunciate, tra gli infiniti concetti espressi ed esposti al neofita che varca la soglia del tempio, sono quelle più significative se consideriamo il fattore appartenenza. Potrebbero sembrare un vincolo imposto e gravoso e quasi certamente all’orecchio di chi le sente per la prima volta evocano dei toni di cospirazione che possono dare un senso di fastidio e disagio. Infatti il neofita, anche dopo il giuramento, non “appartiene”; sentirsi massone, parte di un’Obbedienza, di una Famiglia universale nello spazio e nel tempo, non può avvenire nell’arco di pochi secondi a seguito di alcune parole e di un giuramento solenne impegnativo ma, cosa normale in una iniziazione, letto più con la voce ed il cuore che con la ragione. Il senso di appartenenza nasce con l’intenzione posta nel decidere e si sviluppa con l’acquisizione del senso vero e profondo dei valori iniziatici, segue il passaggio dall’iniziazione formale all’iniziazione reale, è un fenomeno che si sviluppa nel corso di tutta la vita e che in certi momenti sentiamo più forte in altri meno a seconda che in noi prevalga la profanità o il crisma dell’iniziazione, sulla base della nostra capacità di liberare la Pietra, la nostra volontà di costruirci.
La forza del vincolo deriva dal sentirsi sempre più consci della scelta fatta, di cosa comporti l’ingresso nell’Istituzione massonica, che cosa significhi appartenere non con una tessera ma grazie all’iniziazione. La responsabilità dell’impegno preso diventa parte integrante della nostra coscienza e si evince dalle nostre azioni ed i nostri pensieri perché scaturita dalla libertà ne è anche manifestazione. Siamo stati liberi di non promettere e giurare, siamo stati liberi di ritirarci ma compiendo l’atto del giuramento ci siamo “ liberamente e spontaneamente” impegnati davanti a noi stessi, davanti ai Fratelli, davanti a tutta l’umanità. Il valore della nostra appartenenza, del pegno dato è evidente nel primo paragrafo della formula di giuramento. Troppo poco ci soffermiamo sulla forza delle parole, troppo poco ascoltiamo la voce profonda dei nostri rituali. Quando noi annunciamo di fare un giuramento “con pieno e profondo convincimento dell’anima, con assoluta ed irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell’Universo” abbiamo manifestato l’impegno della ragione, del sentimento e dello spirito, abbiamo coinvolto l’intero nostro essere, la nostra essenza di uomini, di uomini di buoni costumi convinti che il miglioramento umano sia legato al rispetto del dovere individuale, morale, civile e sociale, all’applicazione della tolleranza, la diffusione della fratellanza.
Riflettiamo su questi contenuti, coltiviamoli nelle azioni, le parole ed anche i gesti della nostra vita quotidiana; sentiremo di rappresentare una parte di un insieme non aggregato dalla bruta violenza, il livellamento, la distruzione della personalità e della dignità ma di un ordine vario, armonioso e spontaneo. Non riveliamo il nostro essere massoni soltanto con l’esibizione dei nostri paramenti, dei nostri riti, delle nostre tradizioni che sono il nostro “segreto” alla cui penetrazione dedichiamo i nostri sforzi e la nostra ricerca. Rendiamo manifesta la nostra identità nelle piccole cose, in una parola, un pensiero, una decisione piuttosto che un’altra, un comportamento, un modo di vivere, magari un sorriso in un momento difficile per noi stessi.