Officinae Giugno 2013

 

Per Renata — di LPruneti
[…]

Gli angeli e le “sante” — di Ida Li Vigni
Essere inafferrabile come il guizzo di luce che lo manifesta, l’angelo sembra appartenere più che all’umanissimo bestiario dell’immaginario collettivo all’astratto e lontano mondo del logos. Pura presenza e pura essenza che si manifesta agli uomini in un bagliore accecante o in un’armoniosa onda di suono, voce che “mostra ciò che deve accadere” (per parafrasare un noto versetto dell’Apocalisse) e che disvela a coloro che sanno ascoltarla i misteri del Divino, esso appartiene a un’oltranza così inattingibile che solo chi è toccato dalla Grazia può accostarvisi e parteciparvi. Ormai estraneo ai pagani messaggeri degli dèi che non disdegnavano assumere sembianze e comportamenti umanissimi, l’angelo rimane sempre e comunque estraneo al mondo degli uomini con i quali pure dovrebbe interagire, a differenza del suo “fratello” malvagio che vi si trova fin troppo a suo agio, tanto da confondersi disinvoltamente con il naturale e il terreno. E’ forse per questo suo essere sfuggente, per questo suo non avere corpo pur potendo partecipare al corporeo (se dobbiamo prestare fede ai teologi secenteschi che dissertarono disinvoltamente sulle funzioni “biologiche” degli angeli), che nella letteratura – fatta la debita eccezione delle agiografie o dei trattati di teologia – l’angelo trova raramente ospitalità. Creatura troppo perfetta, egli non possiede quella vis esistenziale indispensabile a costruire un vero personaggio, ovvero una persona in senso teatrale. Se proprio lo si vuole cogliere fra gli uomini, spoglio per un istante della sua intollerabile numinosità, bisogna spiarne il suo manifestarsi alle sante, quasi che dinnanzi alla donna, soprattutto se priva delle armi del sapere teologico, l’angelo ritrovi la sua originaria veste di Messaggero e si conceda qualche atteggiamento umano, da buon angelo custode quale dev’essere. Non a caso, dunque, egli compare a quelle sante e “possibili sante”, quasi sempre di origini umili, che a lungo hanno dovuto combattere per accettare la loro misteriosa “diversità” e per farsi accettare nella loro straordinaria esperienza. Costretto a scendere sulla terra dalla forza dell’immaginario femminile, l’angelo abbandona la sua veste di luce per indossare i prosaici tratti di un bellissimo giovane, forse realmente incontrato, forse soltanto disegnato dal desiderio che si sforza di diventare visione spirituale. Tre casi (ma infiniti altri potremmo citare) sono sufficienti a raccontare questa stupefacente investitura umana dell’angelo; e sono tre casi particolarmente emblematici, in quanto lasciano intravvedere un sostrato di cultura popolare difficilmente afferrabile nell’iconologia e iconografia tradizionali, confermando l’ipotesi di un sussistere umano della creatura di luce solo nell’ambiente non dotto o nella sfera del desiderio. Il primo caso è quello notissimo di Giovanna d’Arco che, tredicenne, viene folgorata dalla visita dall’arcangelo Michele (l’angelo-guerriero), venuto a imporle una missione non propriamente femminile (e dunque scandalosa): guidare la guerra che avrebbe riscattato le sorti della Francia. Un primo dato indicativo dell’humus popolare che contraddistingue l’esperienza di Giovanna è ricavabile da un elemento temporale: questa prima apparizione ha luogo nel meriggio, nell’ora in cui Pan (e le sue successive incarnazioni) appare ai pastori o a chi si avventura nei boschi per apportare visioni. Vediamo come Giovanna, nel corso del processo, rievoca quel primo incontro: […] Sono ora sette anni che le voci m’apparvero per la prima volta. Era un giorno d’estate, verso l’ora del mezzodì. Io avea presso a poco tredici anni ed era nell’orto di mio padre: udii la voce a destra, dal lato della Chiesa, e vidi al tempo stesso un’apparizione tutta risplendente. Ella avea l’esteriore di un onesto e bellissimo uomo, avea le ali, ed era d’ogni lato intorniata da molti lumi ed accompagnata dagli angeli. Perché gli angeli vengono spesso tra i cristiani, senza che questi li notino: io stessa li ho veduti spesso fra loro. Quello era l’arcangelo Michele […] egli m’insegnò e mi mostrò tante cose […]. All’ingenua fanciulla, educata dalle prediche e forse anche dalle gesta cavalleresche che ancora si raccontavano nelle campagne, l’esperienza delle “voci” che appaiono (ovvero si manifestano e non si ascoltano, con uno slittamento semantico denso di significati inconsci, quasi che la voce, per sottrarsi allo statuto di allucinazione, debba accompagnarsi al corporeo) appare subito quale evento celeste, miracoloso. Non a caso, dunque, le voci s’incarnano nelle sembianze umane dell’arcangelo Michele (la cui natura angelica è appena accennata dal fin troppo scontato motivo delle ali) e delle sante Caterina e Margherita, dove però è l’angelo-guerriero a guidare la pulzella, a consigliarla (anche e soprattutto militarmente) e a confortarla, con un’emblematica rimozione dell’elemento femminile che la dice lunga sulla fin troppo “virile” volontà di autoaffermazione della Pulzella d’Orleans. Che l’immaginario di Giovanna sia decisamente poco ortodosso e fin troppo legato ai topoi cavallereschi (basti pensare al ritrovamento della “spada santa” e all’investitura militare rappresentata dalle vesti maschili che l’arcangelo Michele le fa indossare) appare indubitabilmente chiaro ai giudici che la interrogano: questa scandalosa virago di umili origini, che pretende di indossare l’armatura e di impugnare la spada per volontà divina e che dichiara tranquillamente di colloquiare con angeli e sante, non sa nulla di quelle essenze angeliche su cui dissertano elegantemente i teologi e risponde con il buon senso, troppo terreno e quindi demoniaco, degli uomini comuni. Le si chiede se l’arcangelo le sia apparso nudo e come abbia i capelli ed ella replica indignata che Dio veste gli angeli e non taglia loro le chiome. Ma dove scivola è allorché descrive l’investitura angelica di quell’Orleans tanto ingrato da prendere le distanze da quanto Giovanna dichiara. I giudici chiedono: […] In che modo l’angelo portò la corona? […] veniva dall’alto o toccava terra? […] avanzò toccando terra? […] C’erano altri con lui? […]. Ed ella replica: […] Egli entrò dall’alto, passò dalla porta e toccando terra avanzò verso il re […] Era accompagnato da molti altri angeli, che non tutti potevano vedere [ma il re, sì, e non lo dice], e nella schiera v’erano anche santa Catterina e santa Margherita […]. Un angelo che cammina toccando terra e che varca la soglia come un semplice mortale è veramente troppo per i giudici di Giovanna, abituati a presenze angeliche ortodosse che volano o levitano e che comunque mai si sognerebbero di consegnare spade e vesti maschili ad una fanciulla veramente timorata di Dio. Se l’arcangelo della Pulzella sembra uscito da un poema cavalleresco e assomiglia fin troppo a Parsifal o a Lancillotto, l’angelo custode di santa Francesca Bussi (1384-1436) non disdegna le manieri forti di un burbero pater familiae pur di avviare verso la Grazia la sua protetta. Come i santi di Jacopo da Varagine puniscono duramente i recalcitranti pagani, l’angelo di Francesca non esita a picchiarla ogni qualvolta commette una mancanza. Così, per citare un passo della biografia della santa: […] Una volta, mentre faceva la sua confessione, dimenticando di raccontare di una grazia poco tempo prima ricevuta, fu colpita dall’angelo in modo sì violento, che la sua testa fu piegata infino a terra […]. A quest’angelo indubbiamente manesco ma efficace si sovrapporrà, allorché Francesca perderà via via i figli e il marito (ovvero quei legami terreni che le impediscono l’ascesi mistica e da cui prende le distanze quasi con un sospiro di sollievo) un angelo-guida più mansueto e affettuoso che la introdurrà ai misteri delle gerarchie angeliche e dei regni ultraterreni. Né è l’unico, dal momento che questa santa sembra avere un rapporto privilegiato con le gerarchie angeliche, addirittura impegnate a illuminarne le fatiche domestiche. Vediamo altri passi della sua biografia: […] Oltre il suo angiolo custode [quello manesco] Francesca aveva altresì […] un arcangelo ad assistente perpetuo. Esso lo vedeva giorno e notte sotto la forma umana di un giovane, vestito di una tunica bianca al paro della neve. Il suo volto raggiava più che il sole, a tal ch’ella poteva vederne lo splendore ma non tener fissi gli sguardi a lui. In due sole occasioni poteva contemplare la sua figura […]: quando parlava dell’arcangelo al suo padre spirituale, allora ella poteva ben considerare i suoi capelli, i suoi occhi e le altre sue membra; indi, allorché era travagliata dagli spiriti maligni, ella guardava senza alcuna difficoltà l’arcangelo […]. […] Era tale lo splendore che mandava l’arcangelo, che al suo lume Francesca faceva la notte tutti gli esercizi necessari nella casa, senza bisogno di alcun lume materiale […]. Grazie a questo gentile angelo domestico Francesca apprenderà il destino generale degli angeli buoni e cattivi e diventerà esperta nello smascherare quegli “spiriti aerei” ingannatori che tormentano gli uomini con malattie, tentazioni e calamità di ogni genere, mentre ad accompagnarla nel suo viaggio oltremondano sarà l’arcangelo Raffaele, assai più luminoso e splendente dei suoi predecessori. Il destino di Francesca sembra consumarsi tutto all’insegna dell’angelologia, anche se non poche perplessità dovette suscitare questo via vai di angeli nel padre confessore della santa. Sparito l’arcangelo Raffaele, ecco al suo fianco un arcangelo di ancor più luminosa bellezza. E’ il momento tanto atteso della tardiva consacrazione a Dio: accolta fra le Benedettine, Francesca ha subito una visione: […] Ella era stata ammessa al Tempio celeste, davanti al trono luminoso di Dio, il cui sguardo, dopo aver percorso l’insieme della sua corte, si era arrestato sul quarto coro e si era fissato su uno dei più sublimi spiriti […] Assai più grande e incomparabile era la bellezza del nuovo Custode […]. Sarà quest’ultimo Custode a presentare Francesca allo Sposo mistico, per poi sparire in un guizzo di luce, lasciando la santa, ormai giunta all’ultima tappa del suo viaggio mistico, in sereno colloquio con Dio. Se si analizza la biografia di Francesca Bussi ci si rende conto del ruolo particolare che l’angelo viene ad assumere nella vita delle sante che hanno conosciuto l’inferno della condizione coniugale. Come nel caso di Angela da Foligno o, più tardi, di Caterina Fieschi Adorno, l’angelo svolge una funzione mediatrice, di correttore e di guida ad un tempo, quasi che l’esperienza laica di sofferente soggezione all’universo maschile vissuta da queste sante inibisca l’ascesi mistica e renda necessario un lungo percorso di affrancamento dai legami e dai ruoli terreni. Di questo bisogno interiore di autoaffermazione mediato dal messaggero di Dio è perfettamente consapevole Jeanne des Anges, splendido caso di santa “mancata”. Nota più per la spettacolare possessione demoniaca di cui fu protagonista indiscussa a Loudun che per i suoi successivi tentativi di “costruirsi” quale santa, suor Jeanne des Anges chiude emblematicamente questo breve excursus sulle visitazioni angeliche. Creatura votata agli angeli, Jeanne reca nel nome scelto allatto della monacazione la cifra oscura di un destino ambiguo, di una predestinazione destinata a rimanere incompiuta perché inficiata fin dalle origini da un eccesso di superbia: legarsi agli angeli per affermarsi come santa in terra. Sarà proprio questo desiderio così forte e caparbio a condannare Jeanne alla disperazione e al paradossale risultato di confondere gli spiriti maligni con quelli angelici, ovvero di farsi possedere dai nomi sbagliati. Ma poiché è il regime del nome che domina, Jeanne saprà superare l’esperienza demoniaca per ritornare a Dio, ricollocando il proprio destino nell’area numinosa di quella purezza angelica cui si era consegnata attraverso l’investitura di un appellativo: la suora degli Angeli. Guarita, Jeanne si vota dunque agli angeli e, con la stessa forza con cui si era identificata nella parte dell’ossessa, si applica alla via della santità, tanto da sfiorare il successo. Alle sue spalle ha ormai lasciato l’unica guida terrena che ha saputo leggere nel suo animo tormentato e che ha pagato di persona, con una lunga sofferenza corporale e spirituale, la battaglia contro i nomi di Jeanne: quel padre Surin, esorcista e geniale conoscitore delle anime tormentate, che in una lettera alla monaca di Loudun aveva scritto: […] Vi prego di porre le basi dell’autentica vita spirituale nella sincerità del cuore. Intendo dire che in voi sottigliezze e astuzie sono così numerose, che è difficile rintracciarvi uno spi-rito di verità […]. Ben altre sono le guide di cui ha bisogno per accedere alla santità, custodi divini come San Giuseppe (che, guarda caso, richiama il nome di padre Jean-Joseph Surin) e un angelo così affascinante e terreno da rivelarsi subito all’occhio attento del saggio esorcista come la proiezione angelicata di quel giovane Duca di Beaufort che più volte aveva presenziato agli esorcismi pubblici di Loudun e che di certo aveva colpito la fantasia di Jeanne. Ma vediamo come la monaca descrive l’apparizione angelica in un passo delle sue memorie: […] Era di una strana bellezza, simile a un giovine di diciott’anni, con una lunga chioma bionda e rilucente, che ricadeva sulla spalla sinistra […] Quest’angelo indossava una veste candida come la neve e reggeva in mano un cero bianco, molto lungo, molto grosso e molto fiammeggiante […]. Questa presenza angelica (e poco conta, tutto sommato, quali materiali siano stati utilizzati dalla monaca per dare corpo al suo desiderio) accompagnerà Jeanne des Anges lungo la via della santità, rinnovandole periodicamente i nomi sacri impressi sulla mano sinistra e ponendosi quale garante assoluto dei segni (ancora una volta dei nomi) che orientano senza più esitazioni e confusioni la suora degli Angeli verso Dio. Sotto la guida del suo angelo “buono”, Jeanne non conoscerà più smarrimenti o, per lo meno, non sembrerà avvertire il drammatico paradosso cui s’era consegnata, in gioventù, fermando la sua volontà su quella semplice apparenza che è un nome. Invertito il segno del suo cammino ma per nulla mutata nell’animo, ella continuerà a esibirsi, anche se stavolta si tratta di una folla riverente che ne vuole vedere le misteriose lettere impresse sulla mano e non della folla che un tempo accorreva a contemplare intimorita le contorsioni di ossessa. Non è certo il caso di assimilare Jeanne alle autentiche sante, anche se la ferrea coerenza del suo desiderio ci spingerebbe a suggerire straordinarie analogie (e, d’altra parte, tanto incerto è il confine fra santità e perdizione che solo agli uomini di Dio è dato pronunciarsi); piuttosto, occorre collocare la sua esperienza in una dimensione altra, tutta racchiusa nel dominio assoluto dei segni e delle loro infinite significanze. Come dichiara Saussure: “… Tutto accade al di fuori dello spirito, nella sfera dei mutamenti di suoni …”. A differenza di Giovanna d’Arco, di Francesca Bussi e delle altre sante per le quali gli angeli sono tangibili manifestazioni del numinoso che aprono la via alla conoscenza e alla Grazia, per Jeanne des Anges essi non sono altro che “segni” che attendono invano di fermarsi in una forma, in un suono, anche in un inafferrabile guizzo di luce. Confondendo significato e significante, essenza e forma, Jeanne si condanna al mondo disperante del desiderio, all’universo caotico e disviante dei poteri del nome. Con lei gli angeli si allontanano definitivamente dall’umano per fermare il loro battito d’ala nei gessi dei rosoni delle chiese, nelle buie tele o nel freddo marmo delle statue di un Barocco che tutto congela in vuota forma, in nome.

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