In ricordo di Max Weber nel centenario della sua morte

di Antonio Binni

Ricorre quest’anno il centenario della morte di Max Weber a causa della influenza spagnola avvenuta a Monaco il 14 giugno 1920, a appena 56 anni. Un’occasione propizia per ricordare l’uomo dalla coscienza inquieta che lo stimolava senza sosta alla ricerca della verità e lo studioso, originale e profondo, che, più di ogni altro, ha influenzato il pensiero sociologico del Novecento, una nuova disciplina fondata da Auguste Comte definitivamente elevata a scienza rigorosa dal Nostro, che, per quanto filosofo, voleva, però, non a caso, essere definito con l’appellativo di “sociologo”. È noto che l’opera di Weber è tanto prolifica quanto frammentaria. Da qui la difficoltà di ricostruire un pensiero affidato a gran parte degli scritti pubblicata postuma (la monumentale Economia e Società e Sociologia delle Religioni). Consapevoli della vastità dell’opera e del dibattito interpretativo che tuttora verte sul pensiero del Nostro, si è preferito circoscrivere questo contributo ad alcune tematiche frutto di una drastica selezione, come tutte le cernite, dipendenti da criteri strettamente personali, non di meno ugualmente in grado di fare apprezzare il rigore di un percorso intellettuale assolutamente inedito e geniale. Nel nostro studio prendiamo le mosse dal “disincanto del mondo moderno”, l’affermazione più nota che ha reso celebre Weber. Chiariamone il senso e la portata. Il sociologo di Erfurt, con una indagine storica rigorosa, degna del suo grande Maestro Theodor Mommsen, ricostruisce il distacco del mondo occidentale moderno da qualsiasi senso magico, religioso, metafisico. Secondo Weber, nell’evo moderno, non è più necessario, come faceva il selvaggio, ricorrere agli strumenti della magia per dominare e ingraziarsi gli spiriti. A questo fine, secondo l’idea corrente, sarebbe, in linea di principio, sufficiente il dominio della ragione. Il che, secondo Weber, renderebbe la società occidentale estremamente diversa da tutte le altre. Il “disincanto”, come caratteristica fondamentale della mentalità moderna, secondo il Nostro, deriva altresì dal fatto che, nel mondo fisico, non c’è più soprannaturale. Da qui anche la mancanza di una qualsiasi religione degradata a mero guscio, uno scheletro privo di anima, mera forma dallo spirito a poco a poco scomparso. Ogni interrogativo, dominante il capitalismo come il risultato più alto del processo di razionalizzazione proprio del mondo moderno, nell’ottica qui considerata, rinvenirebbe pertanto adeguata e persuasiva risposta nella scienza. L’uomo vivrebbe, così, in una “gabbia di acciaio”, società disincantata perché senza Dio né profeti, senza possibilità di far capo ad un altrove per attribuire un senso e uno scopo al proprio agire terreno. È questa una ipotesi di lettura degli eventi storici largamente condivisibile, dall’approdo, però sicuramente pessimistico. Secondo Weber, la scienza, strumento conoscitivo del mondo moderno, non è, infatti in grado di rispondere alle “domande ultime” dal momento che si limita a fornire all’uomo gli strumenti tecnici necessari per dominare la realtà nelle sue manifestazioni conflittuali. Intendendo Weber le “domande ultime” quelle di Tolstoi che negava alla scienza un qualsiasi senso perché non fornisce risposta all’unica domanda importante per l’uomo: cosa fare? come si deve vivere? Né la scienza indica la via “per giungere alla felicità”: Tesi, per dirla con il Nostro, creduta solo da grandi fanciulli sulle cattedre o nei comitati di redazione. Ne consegue che la scienza, per Weber, non è una religione, come pretendeva Comte, ma una semplice professione, una vocazione, semplice beruf intesa in senso secolare, trasferita cioè dall’ambito sacerdotale-religioso a mera attività del credente. Riassumendo e concludendo sul punto. Weber parlava di “disincantamento del mondo” per sottolineare la fine della ricerca del senso magico, spirituale, trascendentale del vivere, a tutto vantaggio di una spiegazione razionale, tecnica, scientifica. In un mondo razionalizzato e secolarizzato all’uomo, secondo questa tesi, non rimane che il disincantamento, ma pure il disorientamento, privo com’è della risposta principe alla domanda sul senso della vita. Oggi gli scienziati sostengono che non è compito della scienza fornire risposte alle “domande ultime”. Sembra, col che, che abbiano recepito l’insegnamento di Wittgenstein secondo il quale “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso” (così in Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi 1964, 79 [prop. 6, 41]). Non si può negare tuttavia che, quando gli scienziati rivendicano alle loro ricerche le uniche certezze, fanno in verità una affermazione totalizzante in contrasto, peraltro, con la stessa natura provvisoria di ogni scoperta scientifica. Comportando, per definizione, il suo superamento, ogni trovato, con la sua morte, condivide infatti lo stesso destino dell’uomo. In una società secolarizzata, Weber, per la prima volta, delinea poi la figura del burocrate, nuovo sacerdote dell’epoca moderna, affrontando a fondo il tema della burocrazia. Di fronte alle esigenze connesse alla amministrazione di massa, la burocrazia, per il sociologo di Erfurt, è un destino inevitabile. Nel contempo è pure una forza espansiva posto che pervade ogni genere di raggruppamento “moderno” (Stato, Chiesa, esercito, partito e pure la stessa Comunione massonica in misura abbastanza preoccupante). Stante la loro indispensabilità, i burocrati finiscono per concentrare nelle loro mani un potere che trascende la loro strumentalità. La loro forza dipende dalla loro natura singolarmente invisibile e impersonale, oltre che alla loro estraneità alla lotta politica ai suoi approdi, per definizione transeunti, a differenza, invece, della totale inamovibilità della burocrazia. Per questo -sostiene Weber- il governo dei funzionari è pericoloso in sé. Donde, per il Nostro, la necessità di una autorevole direzione politica idonea a dominare l’apparato burocratico esistente. Secondo Weber, l’unica giustificazione possibile della burocrazia è la sua efficienza, lezione e ammaestramento da imparare particolarmente nel nostro Paese, dove la burocrazia, com’è noto, soffoca e strangola purtroppo ogni iniziativa creativa delle forze produttive. Più che alla questione del perché gli uomini obbediscono, Weber si concentra sul concetto di potere. Vogliamo chiudere questo contributo su quest’ultimo tema con la convinzione che alcune osservazioni sull’argomento sono sicuramente meritevoli di richiamo e attenzione. Il “potere carismatico”, secondo il Nostro, per sua natura, origina da situazioni eccezionali. Si afferma rovesciando le regole. È legato all’esistenza biologica della persona eccezionale che lo incarna. Per questo è il meno durevole. Se vuole sopravvivere al portatore del carisma, deve necessariamente trasformarsi. Il “potere plebiscitario” è il tipo più importante nel quale può trasformarsi il potere carismatico. Un secondo paradigma di potere viene individuato da Weber in quello “tradizionale”, al quale si obbedisce, in quanto espressione della “autorità dell’eterno ieri”. La terza forma di potere, tipica del moderno occidente, si risolve invece in un sistema di norme e regole impersonali, alle quali quotidianamente si obbedisce perché legittime in quanto provenienti dalla autorità regolarmente costituita mediante elezioni. Si può pertanto parlare di “potere elettivo” fondato sulla buona prova fornita dall’eletto nella cerchia dei notabili. In questo senso, per il Nostro, è vero che, proprio in democrazia, le grandi decisioni della politica vengono prese da pochi singoli individui. Weber, con sensibilità e realismo, non manca inoltre di segnalare il pericolo insito in questa forma di potere collegiale ristretto puntualmente individuato nella tendenza del gruppo a consolidare il proprio potere mediante l’allungamento temporale della carica. Fino al punto di renderla stabile con conseguente allontanamento dalle leve di comando di chiunque azzardi la scalata al potere. Pericolo grave -afferma il Nostro- perché chi opera in codesti termini non è più in grado di fare evolvere e di fare progredire la comunità. Il consolidamento della propria condizione di comando rende infatti incompatibile una giusta gestione. La lunga permanenza nella carica finisce infatti per ingessare la comunità governata appiattendola su di una posizione nella quale predomina la paura di discostarsi dall’indirizzo uniforme di pensiero dominante. Quando, invece, il pensiero diverso non deve essere considerato un tradimento, quanto, invece, una ricchezza, perché, senza dialogo, non c’è vita garantita solo dal confronto. L’accenno ai soli pochi temi prescelti, per altro sommariamente trattati, attesta la ricchezza e la profondità di un pensiero sicuramente meritevole ancor oggi di studio e approfondimento: Una lezione per certo importante da meditare con ogni dovuta attenzione non solo dai sociologi, ma anche da chi -come il massone- intende rendersi conto della origine e della complessità dei problemi che lo avviluppano e lo coinvolgono nel profondo.