Sulle parole – Note minime

di Antonio Binni

La mia operetta Schegge – edita a cura della Regione Massonica Toscana, alla quale qui rinnovo il mio più vivo e sincero ringraziamento per la considerazione dimostratami – altro non è che una minuscola silloge di modesti pensieri che, come lampi, improvvisi, mi hanno attraversato la mente. In uno di essi scrivevo testualmente: “chi parla abbia sempre la massima cura del linguaggio”. L’autocitazione – ne sono ben consapevole – è inelegante. Di regola va pertanto severamente evitata. In questo caso, tuttavia, è quasi indispensabile per spiegare la genesi di questo scritto e pure il suo stesso titolo. Nella mia ottica, si tratta, infatti, di motivare la ragione per la quale è assolutamente indispensabile avere la “massima cura” del linguaggio, spiegando inoltre ciò che si cela dietro la parola pronunciata. Profilo, in verità, rimasto in ombra nella sintetica espressione prescelta dianzi ricordata. Al conseguimento di questi fini a me pare preliminarmente doveroso sottolineare la perfetta identità fra pensiero e parola. Con la conseguenza che, se il pensiero è limpido, pure limpida sarà la parola. Poche parole nascondono poche idee. Molte idee si manifestano necessariamente in molte parole. La ricchezza delle parole è infatti la ricchezza del pensiero perché la ricchezza del pensiero esige ricchezza di linguaggio. Pensare con chiarezza comporta l’esprimersi con chiarezza. Dunque, esige proprietà di linguaggio. È stato Aristotele a ricordare che il linguaggio è la cifra che differenzia l’uomo da qualsiasi altra creatura. Avere cura del linguaggio equivale pertanto ad avere cura del bene più prezioso dell’uomo. Caldeggiando la cura del linguaggio era, infine, mio vivo desiderio ancorarmi alla raccomandazione, negli ultimi istanti della sua vita terrena, fatta da Socrate a Critone: “Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime” (Platone, Fedone, 115, e): lezione particolarmente preziosa ai nostri giorni perché la perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose è autentico arsenico per il cittadino e penosa decadenza inesorabile per la società. La massima cura del linguaggio è ovviamente massima cura della parola nella sua triplice funzione. La parola, innanzitutto, fissa, ordina e definisce il finito. Lo circoscrive e lo determina. Quando celebra l’indicibile diventa esperienza religiosa, parola viva che penetra il cuore, pur rimanendo mistero. La parola, secondariamente, rompendo il silenzio, comunica. E poiché l’uomo è una creatura narrativa, che racconta e si racconta, ecco allora che la parola edifica. La parola costruisce infatti una relazione umana e se ne alimenta, la coltiva, la consolida. La protegge. La parola, da ultimo, ha valore performativo perché, con il suo esile corpo, quasi volatile, è atto che modifica direttamente la realtà in quanto produce effetti immediati nel mondo materiale e delle relazioni umane. Forza e potenza della parola in grado di cambiare il mondo. È infatti sufficiente una parola per scatenare una guerra, per sostenerla, o per porvi fine. Come scrive il principe dei sofisti – Gorgia (V – IV Sec. a. C:): “La parola compie miracoli”. Per questo, la scelta della parola è atto cruciale e decisivo, esercizio rigoroso di etica e di responsabilità. Le parole non sono perciò mai neutre. Anche quando sono corpo e sostanza di una pratica narrativa, come avviene, ad esempio, nella narrazione della storia ad usum delphini. Il padrone della parola rimane l’uomo con tutta la sua natura. Il pensiero oppressivo sarà pertanto parola di violenza, a differenza del pensiero generoso che sarà, invece, parola di empatia e, comunque, di solidarietà. Fra le tante parole, merita speciale considerazione quella del potere. Esempio autoritario di supremazia è, per definizione, parola oscura, di regola non veritiera, sempre pericolosa. Pericolosa, perché porta in sé il germe dell’oppressione fino al punto, in certi infelici periodi storici, di imporre il pensiero unico attraverso frasi ripetute milioni di volte, imposte ed accettate dalle masse meccanicamente e inconsciamente. Oscura, perché non comunica in quanto tende, invece, a nascondere i suoi segreti. Arcana imperii. Non veritiera – di regola – perché prospetta come patrimonio comune idee e valori che invece appartengono soltanto al gruppuscolo che incarna il potere. Non meno pericolosa è la parola della politica per sua natura abituata a cambiare a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti, distorti, piegati, snaturati in relazione allo scopo perseguito spesso con violenza. È fenomeno noto in questo periodo di confusione democratica nel quale, ai giorni nostri, vive il massone che deve, dunque, conoscere i meccanismi della parola, e del potere, e della politica, per potere maturare e rendere poi attivo l’impegno a contrastarla e a combatterla in entrambe le forme. E questo con diuturna determinazione, rivendicando, in particolare, l’esatto significato del concetto di libertà, non dalle leggi, ma grazie e in virtù proprio delle leggi. L’osservanza delle leggi, infatti, non solo non è schiavitù, ma per dirla con Dante (nella Epistola agli scelleratissimi Fiorentini), è essa stessa suprema libertà. Libertà cercata fino al sacrificio della vita. Come è stato per Catone Uticense che rifiutò la vita come atto morale di protesta proprio in nome della libertà. Come, ancora una volta, ci ricorda Dante con due versi immortali che è perfino doveroso citare alla lettera: “Libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta” (Commedia, primo canto del Purgatorio, vv. 71 – 72). Fra le tante possibili, dobbiamo ora chiederci quali siano le parole predilette dal Fratello massone, oltre a quelle, ovviamente, di libertà, uguaglianza, fratellanza, tolleranza e solidarietà. Mi focalizzerei su tre termini: dubbio, scelta, coraggio. Dubbio, perché costituisce l’anima di quella ricerca che contiene in sé un elemento di eternità che così si colora d’assoluto. Donde il punto interrogativo come il segno di interpunzione più caro fra quelli che il massone impiega tanto nel pensare, quanto nello scrivere. Scelta, perché, dopo la più attenta valutazione, il dubbio va comunque risolto in una scelta di campo che, per definizione, è l’antitesi della indifferenza, che è il male principale dell’era presente. L’abulia è, infatti, la causa prima di quella che, in termini appropriati, è stata a suo tempo definita come la “servitù volontaria”. Sopruso sistematico che, dunque, non è fatalità, ma proprio mancata resistenza, prima, e, opposizione, poi, alle ambizioni e passioni personali di minuscoli gruppi attivi. Coraggio, perché nonostante i venti dell’ora, il massone deve rimanere sempre padrone della propria anima e della propria sorte, senza farsi mai dominare dall’altrui volontà o anche soltanto dalla feroce morsa del caso. Parole precise, univoche, giuste, che nascondono, ma non troppo, quel desiderio di elevazione che, per il massone, è quotidiano impegno a spingersi fuori di sé e al di sopra di sé. Infatti, come scrive Dante, “solo chi vuole s’infinita.” Che abbia una spiccata predilezione, come si è visto, nei confronti di alcune parole, ciò non toglie però che il massone debba avere cura di tutte le parole, nessuna esclusa. E ciò per un motivo particolarmente importante che, al momento del congedo da queste note, va richiamato e sottolineato. La democrazia si fonda sul confronto, se del caso pure aspro, delle opinioni ragionate e, più in generale, sulla discussione critica. Dunque, tanto più ampio è il numero delle parole a diposizione per argomentare le proprie rispettive vedute, le proprie prospettive morali, il proprio sistema di valori, tanto più ampia sarà la diffusione della democrazia. Per questo, con tutte le forze, occorre contrastare e combattere il fenomeno, al presente, purtroppo molto ampio e diffuso, per l’imperante tecnologia, della scomparsa delle parole. Ogni parola persa è infatti una crepa all’edificio della democrazia. Parimenti si dica dell’impoverimento del linguaggio spia e indice, a sua volta, di una progressiva perdita di libertà. Non si tratta, dunque, della sola riduzione del vocabolario e della perdita delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare pensieri complessi con sfumature e varietà di espressioni atte a comunicare emozioni. In gioco, c’è molto di più! Tutti i regimi totalitari hanno infatti sempre ostacolato il libero pensiero operando sul linguaggio, in specifico, riducendo il numero e il senso delle parole. Sarà perciò sempre doveroso ricordarsi di questa verità perché, in serio pericolo, dietro le parole, sono propriamente la libertà e la democrazia.