Oltre il nichilismo

di Antonio Binni

Nella società dell’Occidente ottocentesco avanzato era ormai emersa la accelerata tendenza alla globalizzazione. La stessa tecnologia della informazione era divenuta sempre più sviluppata. La scienza aveva inoltre messo a dura prova le verità di fede. Si vuol dire, in estrema sintesi, che i segni di un cambiamento epocale c’erano ormai già tutti. La messa in discussione dei tradizionali valori posti alla base del generale sistema di vita era, infatti, ormai divenuto patrimonio generalizzato di pensiero in tutte le comunità economicamente progredite. Solo una capacità – lucidissima – quale quella di Nietzsche (1844-1900) li ha però saputi cogliere e ricondurre a unità come manifestazione del senso di decadenza che minava la civiltà occidentale, fine di valori considerati, invece, fino a quel momento, come assolutamente immutabili. Perdita – si noti – irrecuperabile dal momento che il valore non ha in sé un significato trascendente, ma puramente umano, posto che, per valore, altro non deve intendersi che l’invenzione di un rapporto che tiene insieme gli elementi della verità. Con la felice – e fortunata – formula “Dio è morto!”, nasce così il nichilismo, per significare che, al posto della trascendenza in qualche cosa – Dio/Verità – subentra invece la credenza nel nulla, perché ormai non c’è più nulla in cui credere, avendo tutte le cose perso di significato e senso. Nel nostro tempo il nichilismo ha completamente vinto. Come è stato felicemente scritto, la Macina del Nulla ha ucciso gli antichi dei. Volenti o no, nel salotto buono di casa, per parafrasare Heidegger, come un ospite indesiderato, si è ormai stabilmente installato un fantasma di nome “nichilismo”, col quale si è costretti a convivere. Per la verità non sono mancati, ad opera dei c.d. nichilisti attivi, tentativi di superare l’assunto secondo il quale la morte di Dio ha trascinato con sé nella tomba tutti i valori. Così, ad esempio, non si è omesso di obiettare che, se dopo il tramonto dei valori non c’è un senso già dato, questo non vuol dire però che non ci sia più alcun senso. Pure perché è lo stesso nichilista attivo che può crearlo inserendo nel vuoto nulla uno o più sensi “terrestri”, dallo stesso creati. A ben vedere siamo, però, ci si consenta l’immagine, alle punture di spillo, visto che il nichilismo, lungi dal costituire un problema, nel suo impianto generale è invece generalmente inteso come una condizione ovvia e condivisa, considerato il dominio sempre più diffuso e sempre più incisivo della tecnologia nella vita delle persone. A osservare però attentamente il fenomeno, il nichilismo, più che una perdita di senso, si atteggia piuttosto come un bisogno di senso; più che una porta chiusa, si presenta invece al contrario come una opportunità per la ricerca di un significato vero e autentico per la nostra esperienza nel mondo. La fase distruttiva di quel pensiero, proprio per la generale eliminazione di ogni ancoraggio a un passato ormai definitivamente tramontato, ha, infatti, suscitato domande inquietanti e brucianti, come, ad esempio, la verità dell’io e della storia; o la domanda ultima del senso finale di sé e della realtà; il rapporto dell’uomo con l’infinito. Interrogativi che tornano tutti all’attenzione del ricercatore inesausto come attuali e, soprattutto, ragionevoli proprio perché si tratta pur sempre di questioni fondamentali del nostro essere al mondo. In questo scritto, avvertito lo scricchiolio di fondo di questa dottrina, vogliamo avviarci in un cammino revisionistico che al suo approdo ha come meta la messa in luce della necessità di superare quell’insegnamento, soprattutto col ritorno alle “domande ultime”: un silenzio nichilista drammaticamente squarciato dalla pandemia tuttora in corso, sia pure fortunatamente più contenuta. Ci rendiamo poi perfettamente conto che entriamo in una sorta di labirinto, nel quale possiamo pure perderci, visto che si può ben spezzare il filo del pensiero che stiamo seguendo. La richiesta di stabilità negata dal nichilismo e la nostalgia di una pienezza di vita e pure di una fede nel significato nel reale ci paiono però tutti motivi prevalenti per rischiare, se del caso, pure il naufragio, in quanto indispensabili per potere continuare a vivere. Da qui la scelta fatta di riconsiderare quel pensiero al fine di saggiarne il permanere della sua attualità o la necessità, invece, di superarlo, avuto riguardo ai suoi (per noi evidenti) limiti. E poi evidente che il riesame che ci siamo proposti di compiere non potrà che essere contenuto unicamente su alcuni punti. Ne abbiamo scelti cinque perché ci sono parsi fra quelli più significativi ed emblematici.
1. Cartesio non ha reso un buon servizio alla filosofia quando ha separato il soggetto pensante – il cogito, res cogitans – dalla natura molteplice variegata, la c.d. res extensa. Questa scissione ha, infatti, compromesso l’unità dell’io, un unicum tenuto assieme da un legame forte e inscindibile, posto che si può pensare solo un oggetto, fosse anche l’infinito. Questa soggettività complessa, ma unita, nel mondo contemporaneo versa in una crisi profonda perché, come sostiene il nichilismo, l’io non sarebbe altro che una semplice finzione verbale priva di una realtà sostanziale assoluta, mera pratica interpretativa (dirà Nietzsche) sempre passibile di ridefinizione, prospettazione – si noti – che mette in crisi lo stesso antropocentrismo come vero e proprio sistema di potere. Tuttavia, proprio l’assenza di un io indipendente e reale, al pari dello stesso accorgersi della dissoluzione dell’io in mille lacerazioni, costituisce invece la prova che l’io non si è perso nel nichilismo. Infatti, l’accorgersi di tali lacerazioni può nascere solo da un io dotato di così forte personalità da potersi distanziare dal sé. Sicché proprio il raccogliersi dell’io nel proprio sé costituisce allora la prova più clamorosa della sua presenza. Quanto dire, altrimenti, che l’io può diventare sé stesso solo oltrepassando il nichilismo. Lungi dall’essere una immagine illusoria, l’io è invece il marchio personale dei propri pensieri. La prova clamorosa della sua esistenza. Il che fatalmente apre a nuove speculazioni e riflessioni di rilevante portata. Il che sta appunto a dimostrare che il nichilismo, paradossalmente, non costituisce la pietra tombale di un qualsiasi progresso intellettuale, né un mero ostacolo alla ricerca, in quanto, al contrario, costituisce proprio una opportunità o una occasione per la investigazione del vero. Come del resto è ovvio, visto che il pensiero non si arresta mai nella sua corsa, considerato che il mondo non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre in costante divenire.
2. Cartesio – con l’opera Le passioni dell’anima (1649) – aveva teorizzato che le emozioni non possono influire sulla conoscenza oggettiva del mondo. Avverso questa prospettazione aveva preso posizione antitetica Hume. Secondo il filosofo scozzese del XVIII secolo, l’uomo non conoscerebbe, infatti, mai il mondo, ma solo le sue reazioni soggettive, sensoriali e emotive, nate da quel confronto. La polemica, com’è noto, è durata nel tempo. La posizione predominante ha finito poi per essere quella cartesiana, secondo la quale la ragione è preposta a guidare e orientare i sentimenti permettendo di veicolarli nel giudizio. Alla fredda conoscenza ha finito così per riconoscersi la prevalenza rispetto alla calda emotività dei sentimenti. Uno dei segni più inquietanti del nichilismo della nostra epoca è costituito dall’avere progressivamente rovesciato la posizione fino al punto di far prevalere il momento affettivo della nostra esperienza. Il sacrificio della conoscenza ha finito così per farle perdere di importanza fino al punto di eclissarne l’esistenza. Dobbiamo però chiederci se le cose stanno veramente così, visto che la ragione è una facoltà astratta che “guida” pur sempre le nostre emozioni, che alle stesse conferisce un giudizio di senso. Sicché, più che in termini di alternativa, pare più corretto sostenere che ragione ed emozione operano su piani distinti. Quindi si può ben guardare il mondo con sentimento, ma pure con quel raziocinio che è espressione di libertà. Col che diventa allora possibile, se non addirittura necessario, aprire a quelle domande ultime di senso che, secondo il nichilismo, andrebbero invece dismesse. Questo, all’evidenza, segna una ulteriore crepa nella dottrina nichilista, invero tutt’altro che marginale, visto che il suo impianto argomentativo non sembra più all’altezza della crisi che sta vivendo il nostro tempo.
3. Il nichilismo, com’è noto, ha trovato il suo più solido fondamento e, soprattutto, la sua piena rivincita nella tecnologia e nella scienza contemporanea che, lungi dall’essere manipolate dagli Stati o da interessi privati, sono, in realtà, i veri attori dell’universo mondo. La tecnica, nella sua dimensione reale, si mantiene però sempre aperta fra due possibilità di lettura, senza che l’una annulli l’altra. Questa doppia possibilità impedisce allora di considerare la tecnica come il solo sistema che ingabbierebbe senza via di scampo la vita degli uomini. Dunque non risponde affatto a verità che la tecnica sia l’unica e sola via che porterebbe alla gestione perfetta e felice della nostra vita, come si tende invece a accreditare con martellante ripetitività. Non potendosi, data la sede, approfondire l’argomento, ci limitiamo allora a osservare: a) che l’uomo è reso potente dalla tecnica che è capace di performarci fino al punto di farci diventare inutili e superflui. Come ha immaginato il creatore del Golem e, soprattutto, dimostrato l’ormai diffuso fenomeno della intelligenza artificiale, le cui ricadute sul mondo del lavoro sono oltremodo gravi e preoccupanti, visto che l’automazione di molti processi produttivi e distributivi finora svolti o controllati dagli uomini porta fatalmente alla scomparsa di molti profili occupazionali; b) che l’uomo di oggi non può né escludersi, né estraniarsi dalla tecnica neppure richiamando e insistendo sui valori “umanistici”, ossia riaffermando la centralità dell’uomo e dei suoi fini per la semplice, quanto però decisiva ragione che la tecnica non solo appartiene a questo mondo, ma addirittura lo costituisce da cima a fondo. Ne segue che, anziché impaurirsi di un possesso inevitabile, occorre invece affrontare il problema con coraggio e lungimiranza, quanto dire, accettare la sfida. Profilo che è invece completamente ignoto al pensiero nichilistico. A riprova e conferma di un inquadramento insufficiente di una realtà che, in quanto dinamica, abbisogna di una analisi più penetrante.
4. Il nichilismo è il regno del deserto. Potremmo però ragionevolmente chiederci se, nella nostra esperienza, siamo disposti a perdere tutto o se, invece, vi è qualcosa che vogliamo salvare perché ci interessa di salvare: qualcosa alla quale non siamo disposti a rinunziare, qualcosa che nella realtà ci sembra troppo prezioso da non potere perciò sacrificare. In così dire, si apre la riflessione sul bene più prezioso costituito dalla libertà, nel nichilismo ridotta invece a una semplice illusione, perché l’uomo sarebbe in realtà determinato unicamente dalle leggi necessarie della natura, condizionanti, secondo l’antico insegnamento di Schopenhauer. Noi siamo invece profondamente persuasi che, all’opposto, esiste sempre una possibilità di scelta, visto che tutto ciò che esiste al mondo non è riducibile a leggi fisiche. Squalificare la libertà, come insegna il nichilismo, equivale a squalificare l’uomo che nella libertà ha la sua cifra distintiva più nobile, la sua peculiarità più preziosa, il suo problema irrinunciabile. Né aiuta a sostenere il contrario la pur connessa dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. Il ciclo vede, infatti, il viaggiatore sempre diverso, oltre che sempre orgogliosamente libero. Libero di essere sé stesso perché in questo essenzialmente si esaurisce il senso profondo della libertà, come capacità di scelta fra le diverse possibilità offerte dalla realtà, ossia di scegliere liberamente ciò che si è.
5. La critica più severa che noi muoviamo al nichilismo, in tutte le forme in cui è stato declinato, è costituita però dal fatto – irrinunciabile – che questa dottrina ruba all’uomo la speranza. Quella speranza che accompagna la possibilità di potere realizzare, direttamente o indirettamente, ogni progetto. Quella speranza che trascende la vita quotidiana, che la rende perciò meno agra, perfino più dolce, in quanto “prova di ciò che non si vede” (Eb. 11,1). Se, come ha sostenuto Heidegger in una nota intervista ora pubblicata nel volume dal titolo “Ormai solo un Dio ci può salvare” (Milano, Guanda, 1988), non si può allora non convenire sulla necessità di salvaguardare questo bene che contiene in sé l’ansia del miglioramento della situazione in essere e dei desideri di chi lo mette in atto. Speranza: slancio vitale che proprio quando si è voluto evitare, prepotente si riafferma invece come dimensione irrinunziabile dell’essere umano che deve continuare a salvaguardare la sua dignità di uomo nonostante l’esperienza del male. Rinunziare a questa spinta significherebbe rinunziare a essere uomini. Non si può dunque lasciare l’ultima parola né alla alienazione né al disagio che pure esistono. La vita va accolta illuminata però da quella possibilità realizzativa che è insita nella speranza che è posta in un oltre, insieme presente (perché c’è) e assente (perché va ricercata).
Concludendo. Sulla scorta delle plurime argomentazioni addotte, ci lusinghiamo, all’atto di prendere congedo, di avere dimostrato alcune delle più importanti manchevolezze del nichilismo emerse, fra l’altro, in maniera palese durante la situazione di incertezza globale venutasi a creare a causa della nota pandemia. Nello specifico abbiamo messo il cono di luce particolarmente sul punto nel quale il nichilismo mostra tutto il suo limite insuperabile, vale a dire su quella speranza che era già stata al centro della riflessione di Kant, quando il metodico e acutissimo Maestro di Konigsberg si domandava: “Cosa mi è consentito sperare?” (in Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1981, 612). Il nichilismo non potrà, dunque, mai essere la filosofia del massone, uomo padrone della sua interiorità tramite la quale è chiamato pure a confrontarsi con la trascendenza, senza mediazione di un qualsiasi garante che non sia la sua severa coscienza, la sua costante ansia di libertà, la sua indicibile gioia di Verità. Il massone, nella sua dimensione più elevata, deve restare stoico perché questo è – e rimarrà sempre – il suo principale, anche se non esclusivo, credo filosofico.