La Temperanza

di Antonio Binni

L’educazione moderna è tutta indirizzata alla trasmissione di esperienze – la c.d. cultura delle mani – e di professionali-tà propedeutiche a una futura attività lavorativa, prospettata come la più lucrosa possibile. Personalmente siamo invece, nel profondo, dell’avviso che innanzi tutto si debba formare l’uomo e che, solo successivamente, lo si debba arricchire con specifiche abilità e competenze. Un uomo abile e competente, ma non formato, non sarà infatti mai in grado di argomentare corretti giudizi e di vivere la società in termini pienamente umani in nome della ragione, della tolleranza e dell’evidenza storica. Da qui il nostro costante insistere nell’approfondimento delle virtù: un argomento centrale nella antica speculazione, del tutto ignorato invece dalla moderna filosofia. Forse perché il mondo moderno ha totalmente dimenticata la virtù e, soprattutto, la sua pratica. Sicché porre al centro della nostra riflessione un argomento così negletto finisce inevitabilmente per risolversi in un implicito, ma non per questo meno chiaro, richiamo a ideali e valori oggi purtroppo smarriti. Quando, all’opposto, gli stessi sono invece fonda-mentali, e per una corretta formazione dell’uomo e per il vivere comune. Atteggiamento dunque, il nostro, meritevole di positivo apprezzamento, pure perché si tratta di far rivivere finissime, preziose analisi, nel presente velate dalla polvere posatasi su librerie purtroppo poco frequentate nel corso degli anni. Dopo avere approfondito la virtù della prudenza (in Officinae del settembre 2021), della giustizia (ivi, ottobre dello stesso anno) e, infine, della fortezza (ivi, novembre del medesimo anno), oggi con questo nuovo scritto intendiamo concentrare tutta la nostra attenzione sulla temperanza. Che, a differenza della prudenza e della giustizia, che ri-guardano il bene comune, al pari della fortezza coinvolge invece la dimensione intima dell’essere umano, proprio per questo indispensabile per l’agire virtuoso che ha, come condizione imprescindibile, la rettitudine della persona. Per temperanza – secondo l’accezione comune – si intende la capacità di padroneggiare i propri pensieri e le proprie inclinazioni: atteggiamento indispensabile per non essere vittime dell’impulso del momento. In estrema sintesi è moderazione, misura, capacità di governare se stessi. Che l’essenza della temperanza consista appunto nel governo di se stessi, ancora una volta lo mette in luce la “lingua geniale” greca, per rubare il felice titolo del famoso e fortunatissimo saggio di Andrea Marcolongo (La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco. Economica Laterza, 2018). La parola greca enkrateia (temperanza) è infatti formata dalla radice krat (potere, dominio, governo) unita a en (se stesso). Nel mondo antico la temperanza era virtù molto pregiata. In quanto punto d’arrivo di un duro cammino di conoscenza e di una faticosa formazione di sé, era infatti l’ideale per eccellenza della filosofia antica, capace di padroneggiare an-che l’aggressività (così Senofonte, Memorabili II, 1,1). Spia eloquente, anzi conferma incontrovertibile, di codesta centralità per l’etica greca è l’opera Gorgia, dedicata da Platone alla temperanza. Ivi, come è noto, si tratteggia un dialogo fra Socrate e il “libertino” Callicle che, mentre inneggia al libero corso dei sensi, irride la temperanza quale atteggiamento proprio dell’uomo debole. Tesi contrastata invece con ferma determinazione da Socrate, secondo il quale, all’opposto, è proprio l’uomo debole ad essere intemperante in quanto incapace di auto-controllo, perciò uomo destinato per definizione alla infelicità, in quanto impossibilitato a raggiungere quel piacere che pure ricerca disperatamente: botte forata, impossibile da riempire. Conclusione – si noti – alla quale molti secoli dopo è giunto pure Freud nel suo saggio intitolato Al di là del principio del piacere, confermata poi anche dalla psicologia moderna, la quale ribadisce che chi cerca il piacere come fine a se stesso non lo troverà mai. Aristotele affronta a sua volta l’argomento nel VII libro della Etica Nicomachea. Lo Stagirita osserva che la persona continente obbedisce alle indicazioni della ragione e così padroneggia i propri desideri. In questa capacità di auto-dominio il filosofo ravvisa poi la differenza fra l’uomo e gli altri animali, posto che, con riferimento a questi ultimi, non si può parlare né di continenza né di incontinenza. Dopo avere osservato che l’intemperanza è propria di chi è rimasto allo stadio infantile (op. cit. 1147 a 25 – 1152 a 25), lo Stagirita conclude che l’intemperanza è un male, perché l’intemperante segue la sensibilità disattendendo la ragione. Nello stoicismo il tema della temperanza ritorna centrale come capacità di astenersi dal piacere, condizione indispensabile per divenire liberi da ogni condizionamento. Sulla stessa linea di pensiero si colloca Cicerone che traduce enkrateia come temperantia, che definisce poi come “la ferma e moderata padronanza della ragione sui desideri e le passioni, e sulle altre sfrenate emozioni della mente” (De inventione, II, 164): definizione particolarmente puntuale e acuta perché sottolinea il ruolo centrale che riveste la ragione sulla concreta possibilità di moderare le passioni. L’enkrateia è del tutto assente nei Vangeli. Compare invece in Paolo nell’elenco delle virtù, contrapposta alla sfrenatezza nei confronti del cibo, delle bevande, e della sessualità (Gal. 5, 23). Nel complesso, nel Nuovo Testamento colpisce la sua scarsa presenza, ma non meraviglia. È infatti radicalmente mutata la prospettiva. L’elemento centrale per l’uomo biblico, infatti, non è più il dominio di sé quanto invece l’accoglienza della volontà salvifica di Dio. La temperanza ritorna al centro della riflessione con il contributo, profondo, dato all’argomento da Tommaso nella sua opera monumentale Summa Thelogiae. L’autore nel suo trattato riprende molti aspetti noti alla riflessione dei classici. Fra gli studiosi pagani richiamati figurano anche Seneca (soprattutto il De ira e il De clementia), Cicerone e Macrobio. Quanto agli autori cristiani, il riferimento è specialmente ad Agostino. L’intera opera del vescovo di Ippona è infatti da Tommaso continuamente citata. Avuto riguardo alla sede e alla natura della nostra analisi, non è, all’evidenza, possibile alcuna epitome seria dell’opera di Tommaso. Anche il semplice tentativo di formularne una sintesi, in questo contesto, finirebbe per risolversi in un autentico atto irriguardoso, perché non può ridursi a un abbreviato compendio un pensiero così vasto, profondo e acuto quale quello di Tommaso. Ci limitiamo pertanto a ricordare che, tra le passioni oggetto della temperanza, vengono da Tommaso menzionate in particolare quelle che mirano alla conservazione dell’individuo (mangiare, bere, vestire, la cura di sé, il danaro) e della specie (l’unione tra l’uomo e la donna). Tommaso mostra poi la gravità della intemperanza, quanto dire dell’aspetto negativo della virtù in esame. Profilo che, nell’analisi dell’argomento da parte dei suoi studiosi, ha finito poi per divenire prevalente, perché solo valutando gli effetti negativi della intemperanza può rifulgere l’aspetto positivo della virtù. Nei piaceri oggetto della intemperanza riveste poi un profilo massimamente rilevante quello di natura sessuale, alimentato dalla fantasia. La lussuria è infatti il vizio più grave della intemperanza, posto che, oltre a spogliare l’uomo della sua dignità, infetta pure la sua facoltà più alta: l’intelligenza. Per questo degrada l’uomo fino a renderlo schiavo (Summa Theol. II – II – q.142 a; ma pure 99. 148 – 158). Non è poi privo di significato il fatto che la modernità, anziché considerare e valutare la temperanza nel suo vasto ambito di applicazione (cibo, bevanda, attività, riposo, ecc.), abbia invece finito per ridurla al solo regolamento dei comportamenti sessuali. Da qui è infatti originata la crisi – che pare inarrestabile – della morale corrente, fino al suo integrale e totale rifiuto, più fermo e determinato, posto che la morale e il conseguente modello di vita vengono negativamente contrapposti a tutto ciò che invece è fonte di gioia e piacere. La morale si è ridotta così a sinonimo di condanna di una vita triste e spenta, a differenza della immoralità, figlia della intemperanza, divenuta invece espressione di felicità, frutto di piacere sfrenato: movimento libertino del quale de Sade è l’esponente più noto, per avere teorizzato il libero corso delle fantasie più perverse come l’espressione più intensa di una vita pienamente vissuta. Si impone così il ritorno alla moderazione rettamente intesa. Altrimenti se ne fa una virtù svalutata. Contrastare la propria natura per definizione impulsiva, sapersi attestare nell’attesa valutativa delle circostanze, indispensabile per adottare un corretto comportamento, è contegno complessivo che si pone in netto contrasto con l’inclinazione naturale precipitosa, comportando una costante attenzione e un impegno non saltuario. Se ne deve concludere che la temperanza finisce per essere un atto violento, perché il governo di se stessi richiede proprio di violentare la propria natura fino al punto di impedirle quel contegno al quale si sente invece intimamente portata. Quanto dire altrimenti che la temperanza è un comportamento non naturale, proprio perché postula un atto di ragione consapevolmente deliberato contro il proprio essere: il che, a sua volta, presuppone un lavoro su di sé faticoso ma necessario, per la corretta formazione della propria personalità. Il che rientra nei compiti propri – ineludibili – di chi pratica l’Arte regia, nel cui contesto il dominio di sé costituisce virtù per eccellenza, non potendosi conseguire la saggezza senza la enkrateia. La violazione del governo di sé spalanca infatti le porte all’impulso incontrollato, alle tentazioni, all’intolleranza e, da ultimo, perfino alla stessa violenza: situazioni – tutte – che, per definizione, cozzano proprio con quella serenità d’animo che è invece l’approdo faticosa-mente raggiunto dall’autentico iniziato. La Massoneria, riconoscendone l’efficacia distruttiva, rifugge per definizione dalla violenza, sia pure con questa unica eccezione: quella appunto che, in ossequio della temperanza, ha come sua destinataria esattamente la propria persona, e con essa la propria natura irriflessiva perché assolutamente necessaria alla formazione dell’uomo, che è forma del suo bene più prezioso: l’umanità, dono inestimabile ricevuto con l’atto stesso della sua nascita. Concludendo la nostra riflessione sull’argomento prescelto, per la sua attenta analisi non possiamo dunque esimerci dall’invito – che per il massone è propriamente una accorata raccomandazione – di coltivare quotidianamente la temperanza, perché il combattere la sfrenatezza costituisce proprio la porta d’ingresso alla verità di se stessi, quando ci si riconosce parte integrante di un disegno più grande, oltre che di un ordine che arricchisce i tratti dell’umanità, della premura per il bene comune, del culto della verità. A nostro sommesso giudizio, è così che si diventa uomini autentici.