Considerazioni sulla humanitas

di Antonio Binni

Sotto quella ciotola piena di stelle che gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale. Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta. All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale. Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo, inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo – celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza, ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono – come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa “essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti, un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra, ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis, indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi, degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione, valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.
Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile, tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo, quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi. Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non v’è in verità mai fine.