Accenni alla umiltà, regina delle virtù

di Antonio Binni

La pagina è il luogo dell’incontro dialogico fra chi scrive e chi legge. Un luogo, dunque, solo in apparenza muto. Quando è vero invece che, proprio in questo luogo angusto, avviene il miracolo del confronto. Anche se quei segni neri che imbrattano il foglio – eco della coscienza di chi scrive – restano poi parole silenti, fonte di approvazione o di dissenso, motivo, in ogni caso, per una riflessione non inutile. In questo luogo fatato vogliamo oggi interloquire sul tema dell’umiltà. Ovviamente su quella vera e autentica, per intenderci; non su quella del comportamento ipocrita e untuoso di chi china il capo su un’ambizione sfrenata tenuta rigorosamente celata, ma, tutto all’opposto, su quella di chi coltiva l’umiltà nel proprio animo come un abito di vita. Ne viene, quale logico e coerente corollario, che umile non vuole dire sottomesso, docile, rispettoso, ossequente, mansueto, remissivo, obbediente. All’opposto, vuol dire semplicemente uomo di cuore puro. In senso orizzontale, dimentico delle proprie pretese di affermazione, aperto al Bene del proprio simile. In senso verticale, platonicamente aperto alla Verità, come credente aperto invece al Sommo Fattore. La purezza di cuore si situa ovviamente nell’intimo, nel profondo della persona, fonte di precisi comportamenti vissuti giorno dopo giorno. L’umiltà, proprio perché è un atteggiamento interiore, non è allora affatto in contrasto con la mondanità, con la vita sociale in generale, dove anzi può rea-lizzarsi più compiutamente proprio perché manifestazione esteriore di un autentico distacco effettivo dal reale. Anche se vanità, ambizione, invidia, odio, potere rimangono, in ogni caso, preclusi come un autentico veleno a chi vuole conservare un cuore votato alla purezza. Per dirla con Amleto, “sporchi sogni”, pericolose tentazioni da evitare con assoluta fermezza. L’umiltà, intesa come purezza di cuore, scrigno prezioso, nasce dalla consapevolezza che l’uomo è un essere per definizione finito, e dunque dalla presa d’atto di una limitatezza insuperabile, se non con un’alterigia che ferisce a morte la stessa umanità. Humilitas è, infatti, concetto connesso a humus, la terra, che riporta a homo per sottolineare appunto che l’uomo è veramente tale solo quando è umile, quando cioè si riconosce in rapporto con la terra di cui è fatto (Gn. 2,7); non a caso l’elemento più basso nella Fisica aristotelica, se si vuole uscire dal perimetro biblico. Non servo, si noti, ma pur sempre fragile come l’erba – per chiosare Isaia, 40 – che tutti possono calpestare. L’umiltà – il concetto va ribadito trattandosi appunto di un dato essenziale – coincide pertanto con la piena conoscenza di ciò che realmente siamo: terra, semplice terra, elementi determinati nel tempo e nello spazio che spazzano via ogni pretesa di valore innato, così come ogni pretesa di merito, foss’anche conseguente all’impegno. Tocchiamo così l’essenza dell’umiltà, che è, dunque, un sapere. Come a dire, il riconoscere la sudditanza alla natura e alle sue immutabili leggi: dominio che spazza via ogni presunzione di valore che si esprime sempre nel sociale, il “grosso animale” platonico (Repubblica, 493) o, se si preferisce, il “principe di questo mondo” del Vangelo. Questo sapere è poi il più importante, perché marca la distanza dell’uomo dal Bene, che è sempre al di sopra dei fatti (così la Repubblica cit., 509 b). In questo senso l’umiltà è realmente la regina di ogni virtù, perché senza di essa non può sussistere alcun comportamento virtuoso, né ogni indagine conoscitiva. L’umiltà è infatti anche la madre naturale di ogni scienza, in quanto l’atteggiamento umile è il comportamento imprescindibile di chi si accinge a investigare tanto l’uomo quanto l’universo. Questa piena consapevolezza della sottomissione dell’uomo al condizionamento universale, legge di necessità, non deve però ingannare. L’uomo umile, nello stesso tempo, è infatti per antonomasia l’uomo nobile, perché la rinunzia alla pretesa affermazione dell’ego avviene in forza di un amore di Verità che è capace di guardare, senza sbigottirsi, alla perdita di valore di ogni umana realtà, distacco da ogni relativo contingente, per definizione transeunte. A differenza dell’uomo non umile smarrito nel molteplice, che vive nel dolore perché gli è ignota quella beatitudine della quale gioisce invece l’umile (secondo Matteo 5, 3; 18, 4). L’uomo umile è nobile – per dirla altrimenti – perché, nella consapevolezza di essere “tenda d’argilla” che “grava sulla mente colma di pensieri” (così Sapienza 9, 15), ha appreso a non dare valore assoluto a qualsiasi fatto e, dunque, a non dipendere da niente, a non servire niente. Specular-mente, proprio perché spoglio di ogni tentazione orientata alla propria supremazia, riesce invece a cogliere un ordine – e la sua bellezza – che non riusciva all’opposto a vedere quando era impedito dalla pretesa affermativa dell’ego. Vorrei esaurire questa forse troppo breve riflessione con un’affermazione radicale. Se, come in precedenza annotato, l’umiltà riporta l’uomo alla sua essenza – essere null’altro che terra – non sembra affatto azzardato sostenere che l’uomo non umile non è un uomo in senso proprio, esattamente per-ché tradisce la sua indole più profonda, la sua vera essenza. Umili infatti sono soltanto coloro che si ricordano di essere uomini. Ringraziamo la Libera Muratoria per averci impartito anche questa preziosa lezione, perché, mentre smaschera quanti sono abituati alla pericolosa attitudine alla doppiezza e all’ipocrisia, celebra invece nel contempo chi, con purezza d’intenti, vive relazioni di verità, giustizia, pace e amore con tutti gli uomini.