Officinae Dicembre 2015

Il ritorno di Corto – di L.Pruneti
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La R.E.A.A. hier, aujourd’hui et demain – di Antonio Binni
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la Massoneria italiana – di Aldo Alessandro Mola
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Il figlio della Verità – di Veronica Mesisca
“Io sono il Figlio della Verità” è scritto nella bara che culla il Maestro. Nato alla luce di tre Magi in una notte del Solstizio d’Estate, con l’avvento preannunciato da una Stella Fiammeggiante, il povero cavaliere delle Grazie rinascimentali – o della trinità cristiana, a onor di Storia – inizia la crociata dichiarandosi “costantemente pronto ed armato per combattere i funesti pregiudizi [e] difendere la Carità, la Verità, la Virtù contro i nemici interessati a proscriverle”. Il Maestro Figlio della Verità, ritualmente chiamato alla battaglia, tra l’altro con la nobile armatura cavalleresca, non può quindi esimersi dall’indagare l’oggetto di difesa, pur consapevole che, come avvisa Ariosto, rischia di smarrire il senno nella ricerca di quella Verità che nei tempi si è dimostrata essere una Terra Santa difficile da custodire, tanto più da liberare o conquistare come vuole il Tasso… Individuarla, scindendola dal falso che nell’Arte Reale prende la forma di “ignoranza, pregiudizio e superstizione”, non è infatti banale poiché questi concetti così modernamente definiti, parrebbero aver tratti ben più sfumati nell’antichità storica, ove verità e credenza, paiono – a titolo personale ovviamente – perdersi nella remota arte misterica, genericamente indicata con il termine alchimia. Questa pratica, di derivazione etimologica incerta stando alla storiografia odierna, pare abbia lasciato tracce risalenti a 30000 anni a. C. nell’Antico Egitto, ma anche in Assiria e Babilonia, in Cina, nell’India Vedica, e oltre… trasversalmente la geografia e la storia, tanto da indurci a definire, ma solo in codesta sede, l’Arte Alchemica come complesso di conoscenze antiche di cui v’è possibile trovare traccia ovunque vi sia stato uomo di autentica ricerca, quindi come Arte del Sapere Universale, limitando comunque la sua indagine nelle terre dell’Antico Continente. Un sapere, pare opportuno precisare, non astratto, ideale e distaccato dal mondo naturale, ma impregnato del frutto del lavoro, dell’opera (grande) di analisi e studio del Creato mediante conoscenze specifiche, tecniche e pratiche quali la forgiatura dei metalli e delle leghe, la tintoria, la lavorazione del vetro, la preparazione di prodotti farmaceutici antisettici, la medicina ostetrico-ginecologica e pediatrica, la definizione di calendari, la previsione dei moti planetari, la numerologia e molto altro ancora… Di fatto, in questa ottica, il Mare Nostrum era, prima e durante l’Europa di Roma, un bacino alchemico ove, tra una guerra e l’altra, Ebrei, Greci, Romani, Fenici, Babilonesi, ma persino, tramite quest’ultimi, Assiri e Caldei, contesero e condivisero, oltre ai domini territoriali, anche le conoscenze relative all’Arte iniziatica del Sapere, venerata come sacra e difesa come tesoro tangibile, poiché legata al progresso sociale e al benessere pubblico di tutti i popoli mediterranei. Un’arte, quindi, custodita – che non è occultata – da Eletti Sacri penetranti i Misteri, la cui sapienza era costantemente nutrita da quel bagno comune ove i numeri arabi si confrontavano a quelli pitagorici, le conoscenze metallurgiche egizie trovavano corrispettivo nei sette pianeti conosciuti dai Fenici e la magia gemmaria persiana, sovente espressa in amuleti, alimentava gli studi delle sacre stanze egizie, ove si riuscì incredibilmente già ad imitare artificialmente le preziose pietre. Eppure questo Impero di Sapere dell’Antico Continente è andato, incredibilmente, via via perdendosi lungo il corso della Storia… re magus, maestri di sophia, sacerdoti del naos, hierogrammateus, faraoni, filosofi taumaturgici, sacerdoti assiri e caldei hanno perso l’Alchimia… naufragata nel Mare Nostrum insieme a Roma. Inutile – almeno in tal sede – soffermarsi sulla presunta rinascita del sapere alchemico avvenuta nel periodo ellenistico, ove l’originaria Arte con la sua imprescindibile tecné, lungi dall’essere ripresa, ricompare solo, e nella limitata pratica metallurgica, come maschera criptica di una diffusa filosofia ermetica, bisognosa di occultare all’autorevole Chiesa Cristiana il proprio messaggio speculativo di natura introspettiva (germe morale, forse, del latente protestantesimo), che comunque si distingue sostanzialmente dall’originaria Alchimia, come rivela l’evidente differenza espressa nella distinzione dei metalli ermetici da quelli volgari, anticamente realmente fusi e forgiati nei templi sacri dell’Antico Egitto. Volendo comunque tentare di rintracciare il sapere antico nella sua autentica natura, visto il carattere universale, parrebbe logico piuttosto ritenere l’Arte precursore della scienza che, nella sua forma chimica, da essa parrebbe poter prendere addirittura il nome. Tale disciplina, infatti, oltre alla dicitura, ha in comune all’alchimia sia l’uso di formule di reazione proprie che, pur rimanendo precluse alla categoria di mestiere, sono caratteristica simbolica indispensabile alla preservata volontà di universalità; sia il fatto che, senza de-naturare la disciplina originaria, ha appunto mantenuto intatto l’autentico oggetto di ricerca, continuando l’opera alchemica di indagine del creato. Lo scienziato, o il chimico nello specifico, attua la trasformazione fenomenologica in un laboratorio che è athanor concreto di uno spazio-tempo controllato e soggiogato all’uomo, ponendosi quindi quale Signore della Natura… una Natura, però differente da quella antica, poiché ora, priva di carattere ieratico, indi non più sacra. D’altra parte, in un mondo moderno ove il rituale è diventato religione, alla scienza, forse, non rimaneva altro che de-sacralizzare la sua opera e l’oggetto dei suoi studi, come ben appare dalla spoliazione del prefisso Al- alla parola chimica… La mancanza di Al-lha nella chimica moderna assume così il ruolo di tributo imposto alla scienza per preservare il carattere universale del sapere alchemico, come dazio di passaggio della conoscenza da una terra all’altra di quel Mare che, nel non essere più Nostrum, si riduce necessariamente a frontiera con pedaggio. Tributo, come ben noto, espiato simbolicamente da Galilei con la definizione di un metodo scientifico universale… che poi, per rigore storico, pare opportuno precisare che il metodo in causa non fu da lui definito, ma semplicemente usato, così come pare necessario specificare che il maestro pisano non fosse stato il primo ad avvalersene ma, come spesso accade, ciò che lo distinse dai suoi filosofici predecessori (la Scolastica e Cartesio ne sono noti esempi) fu il momento storico e la ben nota abiura. Abiura che, nel gesto, suggellò la perdita del sacro nella verità scientifica… ma non per la comune opinione della celebre guerra tra fede e scienza che, purtroppo – mi si conceda di aggiungere – non hanno terra in comune, avendola così ben spartita e definita da alimentare, a livello volgare, l’ovvio nazionalismo scientifico da un lato e teocratico dall’altro, magari oggi pacificamente coesistenti e talvolta persino collaboranti, ma sempre preservando un’intrinseca distinzione l’una dall’altra. A rigore di logica, più che di storia, per quanto riguarda Galilei, l’abiura fu piuttosto dovuta, non al timore di labili ripercussioni, visto l’evidente atteggiamento benevolo della Chiesa nei suoi confronti, ma ad onore di quel metodo che lui stesso aveva usato per la definizione del vero. Infatti, allora lo scienziato era accusato – e giustamente – di voler affermare il noto modello di sistema solare copernicano, senza però prove empiriche a supporto. Mancante di osservazioni sperimentali che avvalorassero inconfutabilmente il Sistema Massimo, egli non poteva ovviamente pre-dicarlo per vero! Tant’è che il noto detto “eppur si muove”, presupponente la prova empirica, non è affermazione di Galilei che, invece, con rettitudine e onestà scientifica, esordisce il suo più celebre dialogo specificando che ha “presa nel discorso la parte copernicana [e non tolemaica], procedendo in pura ipotesi matematica [poiché] tutte la esperienze fattibili sulla Terra essere mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente potersi adattare così alla terra mobile come anco quiescente”. L’abiura era, perciò, coerenza a sé stesso e sottile inno alla sua Scienza… o meglio, a quella “proposizione verissima” con cui egli stesso invitava i savi a differenziarsi “da Aristotile e […] dalla dottrina de i Pittagorici [lasciando] le vaghezze a i retori”. Egli, rimettendosi per primo alle sue leggi e riconoscendo la non verità della sua tesi, assunta solo come pura ipotesi, avvalorò il metodo, distinguendosi così a livello storico da tutti gli illustri filosofi predecessori come primo scienziato moderno… scienziato che, storicamente, non sarebbe mai divenuto se, come altri prima di lui, si fosse fatto ardere dalla superstizione, nel significato etimologico di stare sopra. Con l’abiura di Galilei, elemento di completa sottomissione dell’uomo scientifico alla sua Verità e alla sua Legge, è nata ufficialmente quell’Alchimia priva di Al-lah che ancor oggi obbliga gli scienziati moderni a estraniare il divino dal laboratorio di ricerca. Frattura im-per-donabile, che tuttavia si fa dono inevitabile dal momento che, già da secoli, Allah era stato sottratto alla Natura dalla simbolica figura di Mosè che, nel monoteismo rivelato, aveva posto il Creatore sopra il Creato, verificando – nel senso proprio di conferire carattere di verità – la scissione dell’alto dal basso, del Cielo dalla Terra, del pio dall’empio… Da qui ci pare di poter individuare il noto paragone a l’Hermes greco protettore dei ladri, sottrattore al mondo fenomenologico dell’intrinseca presenza divina, così come anche all’analoga figura mitica di Ermete Trismegisto, quanto Maestro Sommo delle tre grandi religioni monoteistiche, che, lungi dall’essere antico mago alchemico, nel periodo ellenico – ove si edificò appunto il Duomo senese che lo celebra in ingresso – parrebbe fungere da perfetta maschera al Profeta del Sinai, tanto da aver attribuito, nella leggenda, anche a Ermete una fittizia Tavola di Smeraldo che, nel predicare l’analogia, avvalora l’antitesi e cela la frattura espressa dalle tavole mosaiche. Simbolici punti di svolta delle due più grandi rivoluzioni moderne, Mosè e Galileo, nel loro essere rispettivamente legislatore teocratico e naturale, hanno introdotto nel sociale il concetto di verità odiernamente ambivalente nella parte religiosa e scientifica. Come il re di Tiro, il sapere del Mare Nostrum è inevitabilmente naufragato nella verità… scisso in un codice, una legge… anzi la legge, quella legge talmudica del “verum, sine mendacio certum et verissimum”4 che avrebbe nei secoli futuri regolato il regno dell’uomo e la sua condotta morale, analogamente a come il metodo scientifico si farà regolatore del regno naturale con la sua moltitudine di principi matematici. D’ora in poi, per il dèka lògous inciso sul monte dell’odio, “non avrai altro Dio all’infuori che me”5, altrimenti detto “non avrai altri Dei di fronte a me”6… Ovvero, non avrai altra verità se non la mia o comunque non la confronterai alla mia, quindi, volendo essere precisi, il dio di Mosè – forse vista la lunga permanenza in Egitto – non afferma che non esista un’altra verità, ma dice espressamente che tu, uomo, non la avrai… sarai fedele a me. In ciò, sostanzialmente, la concezione moderna di verità come fedeltà… una fedeltà storicamente implicante, che gli altri, ovvero gli uomini che non sono fedeli all’una o all’altra verità, saranno d’ora in poi etichettati come adoratori di falsi Dei, quindi infedeli, volgarmente detti pagani, miscredenti, empi, eretici, superstiziosi, impuri, viziosi, peccatori… con tutto ciò che ne deriva. Di fatto, tornando al tema, d’ora in poi i custodi Eletti dell’antico sapere si trasformano da Re Magi, quali mediatori Sacri nel proprio significato escatologico, in fedeli paladini dell’ematica Verità sbocciata dal Sapere, chiamati infatti a consacrarsi nella spada, come sulla croce dal cui centro sanguigno ri-fiorisce una damoclea corona di spine, ormai necessariamente non più regale. Questo è AdonHiram, il profeta mussulmano, il giudice ebraico, il cristo martire, il genio scientifico, il filosofo iniziato… o in generale l’Eletto Cavaliere di quella celestiale verità che esige uomini Kadosh, o meglio, del Kedushah, costretti a ergersi in punta di piedi per farsi Santi, staccandosi così dal terreno mediante l’abbandono dei metalli alchemici e poter raggiungere la purezza necessaria ad “essere condott[i] sopra ali d’aquila nel regno superiore” a rigor del testo biblico. … Detto ciò, “Io sono il Figlio della Verità” resta scritto nella bara che culla il maestro. Ma questa Verità non si può affermare. Non è possibile affermarla né con il principio parmenideo di non contraddizione e del terzo escluso che, nell’identità, genera il nazionalismo di pensiero; né, però, si può affermare con il riconoscere parimenti tutto per vero che, irresponsabilmente, fonda la ben nota ambivalenza democratica. Ergo per cui la Verità non si afferma in una religione teoclasta che rende il sacro soprannaturale umiliando il corpo chimico nel peccato volgare; parimenti non si afferma in una scienza che assume la dogmatica credenza di un creato inanimato, pregiudicando indi il superstizioso; ma, la Verità, pare bene precisare, nemmeno si può affermare in quell’alchemico sapere antico che, nel suo totalitarismo, non ammette la salvezza. Ne consegue che il Maestro costruttore, non possa ambire ad un progetto basato sull’affermazione di un a-teismo che rinnega il sacro, di un politeismo che cela l’unico alle masse, di un monoteismo che degrada la diversità, e nemmeno sull’affermazione di una tanto e-voluta fittizia laicità (laikos) che, di fatto, non essendo popolare, è condannata al mondo platonico ideale senza poter concludere alcuna pace in terra. La Verità, seppur assolutamente certa, stabile e con-creta, non si può affermare poiché l’uomo, sottoposto allo scorrer del Tempo, la può percepire solo come a-leukos greca, perpetua privazione dell’oscuramento che risorge nella negazione e, se a-fermata, si assidera nella realtà di fatto… da ciò la figura di un cavaliere perennamene errante, di un amor cortese mai corrisposto, della ricerca infinita e ricorrente sulla scala del sapere… e non perché la Verità sia essenzialmente irraggiungibile o perché abbia natura intrinseca mutevole, ma perché essa è in-fermabile in un mondo in divenire obbligato a descriverla nella ambivalenza bifronte come perenne alternanza solstiziale. Perciò al vero profeta, come il testo rivelato insegna, non rimane che la distruzione della tavola ove la verità incisa, perdendo sé stessa, trasmuta nel vello d’oro che ancor oggi idolatriamo. E, ovviamente, non fu solo Mosè giunto all’amara comprensione che non si può affermare alcuna aletheia, ma anche molti altri socratici profeti… biblicamente tutti salomonici giudici senza legge, custodi di quella Verità che si svela nella menzogna, sapientemente in-dotta dalla Saggezza… l’unica reale detentrice della grazia involta celata da una moderna verità spezzata che, come chiave rotta del Sapere Universale, non può aprire il tabernacolo divino senza, come dimostra la moderna scienza, disperdere l’onda aleatoria inverificabile nel suo complesso… In questo, forse, la Verità del Maestro. Quella Verità che, se mai affermata in niente e in nessun luogo, si può vedere chiaramente risedere silenziosa in un pantheon circolare di pensiero ove lei, fonte del gorgo, è la calma vacanza al centro che si scolpisce a terra e trafigge il cielo, vacanza nel Mezzo della Camera ove il Vero Maestro – non resta, ma – torna liberamente al silenzio originario… perché, finendo, l’Agg Sein Hagg, giunto a tale punto della storia, sa di dover necessariamente perdere la parola.

Raimondo Lullo – di G.Boaretto, M.Rivolta
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Giacomo Carboni – di A.Zarcone
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Cronaca di una esecuzione – di A.Orefice
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XXI Aprile: Natale di Roma – di R.Cecioni
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I giustiziati di Napoli – di A.Orefice
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Una passeggiata nell’arcano – di A.Alessandrini, E.Bertorino, A.Scartoni
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Le metamorfosi di Pinocchio… – di Paolo Aldo Rossi
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Parigi 2015 – di J.M.Schivo
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Memorie e simboli… – di R.Manetti
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In cammino verso al Casa della Sapienza – di Veronica Mesisca
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