Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia (1814-1861)

Dall’11 al 13 ottobre si è svolto a Gibilterra il XIII Simposio Internazionale del Centro di studi storici della Massoneria spagnola (Università di Saragozza) con il  patrocinio del Governo di Gibilterra e il concorso di Università di Cadice, King’s College di Londra, Gibraltar Heritage Trust,  Museo di Gibilterra, Garrison Library, Archivi di Gibilterra, The Gibraltar Chronicle” (il più antico quotidiano locale) e la Società Filosofica di Gibilterra.

Forte di un comitato d’onore comprendente i ministri della Cultura (Steven Linares) e del Lavoro (Joseph Bossano), che hanno assistito ai lavori, e i  Rettori delle Università di Cadice e di Saragozza, il Simposio  si è valso di un comitato organizzatore e di un comitato scientifico che per mesi ne hanno curato la preparazione.

In tre giorni si sono susseguite un’ottantina di relazioni, seguite da dibattito ogni tre o quattro esposizioni. Più che internazionale, il Simposio orchestrato dal presidente del CEHME, José Miguel Delgado Idarreta (Un. Della Rioja), sulla scia del presidente onorario José Antonio Ferrer Benimeli, a buon diritto va considerato intercontinentale, per la partecipazione di relatori da Messico (Carlos Francisco Martinez Moreno), Costa Rica (Miguel Guzman-Stein e i suoi collaboratori) Stati Uniti d’America (Maria Victoris Vazquez Semadeni),  Cuba (Eduardo Torre Cuevas) e altri, tutti da anni a contatto con la Scuola storica spagnola cresciuta dal primo Simposio (Saragozza, 1983), tra i cui protagonisti ricordiamo almeno  Susana Cuartero Escobés, Eduardo Enrique del Arbol,  Pere Sanchez Ferré, ai quali poi si aggiunsero  Francisco Lopez Casimiro, José Ignacio Cruz Orozco, Agustin  Martinez de las Heras  e molti ancora sino ad Andrew Prescott del già ricordato King’s College di Londra, José Eduardo Franco  dell’Università di Lisbona, Eric Saunier (Le Havre, curatore della nota  Encyclopédie de la  Franc-Maçonnerie, La Pochothèque, 2000)  e altri, tra i quali Juan José Ruiz  Morales, più volte relatore ai convegni della Gran Loggia d’Italia, come del resto José Antonio Ferrer Benimeli. 

Al XIII Simposio del CEHME l’Italia ha partecipato con le relazioni di Guglielmo Adilardi su “Lo Statuto di Pio IX (14 marzo 1848) ed il riverbero della Costituzione di Cadice” e di Aldo A. Mola, membro del Comitato d’Onore, veterano dei Simposi, con Luigi Pruneti e pochi altri studiosi italiani.

Nel corso dei lavori i congressisti sono stati ricevuti alla Garrison Library e, per i buoni uffici di Keith Sheriff, in una tenuta aperta della antichissima  Loggia  San Giovanni all’obbedienza della Gran Loggia Unita d’Inghilterra: un evento memorabile. Merita sottolineare che alla loggia si  accede da un portone affacciato sulla via ed evidenziato dalla riproduzione delle colonne  del Tempio, con tanto di insegna  ormata dai simboli dell’Arte Reale.   D,

La segretaria del CEHME, Isabel Martin Sanchez (Università Complutense di Madrid) ha volto un ruolo superiore a ogni elogio. Gli Atti, anticipati in  un robusto Quaderno comprendente le loro sintesi, verranno riprodotti a stampa e in cd, sull’esempio dei Simposi precedenti, arricchiti da un poderoso volume di indici, vera e propria guida alla massonologia contemporanea, di concerto con la Bibliografia de la Masonerìa curata da Ferrer Benimeli e da Cuartero Escobés (Madrid,2004,voll.3).

Aldo A. Mola, componente della redazione di “Officinae” e croce doro di I classe della Gran Loggia d’Italia,  ha presentato la relazione, che qui pubblichiamo senza apparato critico per non appesantirne la lettura.

 

SEGUE IL TESTO

Il Mito della Costituzione di Cadice nel Risorgimento e nell’unificazione italiana.

1 – Il quadro geostorico

Negli anni dal 1814 al 1821 la Costituzione spagnola del 1812 ebbe enorme influenza nell’opinione dei liberali italiani. Essa ispirò organizzazioni settarie, cospirazioni, insurrezioni e la cosiddetta Rivoluzione del 1820-21 nel regno delle Due Sicilie e in quello di Sardegna. Per comprendere l’influenza della Carta  di Cadice nella storia italiana di quel periodo bisogna ricordare che la sconfitta di Napoleone I nel marzo 1814 la conseguente pace di Fontainebleau ripristinarono sui troni  papa Pio VII nello Stato pontificio, Vittorio Emanuele I di Savoia sui possedimenti sabaudi di Terraferma (Piemonte, Savoia, Nizza cui venne aggiunta l’intera Liguria, solo in minima parte precedentemente sabauda), il duca di Borbone-Parma a Lucca, e gli  asburgici a Firenze, Modena e nel regno Lombardo-Veneto, mentre  il ducato dì Parma-Piacenza venne assegnato vita natural durante a Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone I, esiliato nell’isola di Sant’Elena dopo la sconfitta di Waterloo (giugno 1815).  Nel 1815 fu spazzato via anche Gioacchino Murat dal trono di Napoli, ove venne restaurato Ferdinando IV, che assunse titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie. Murat tentò la riscossa, ma cadde prigioniero e venne fucilato. Tra quanti ne decretarono l’esecuzione capitale vi fu Scalfaro, che egli aveva creato barone.  Il suo appello all’unità per l’indipendenza dell’Italia dal dominio austriaco (Proclama di Rimini, redatto dal giureconsulto Pellegrino Rossi ed elogiato da Alessandro Manzoni) fallì, ma la speranza (o il sogno) rimase. Altrettanto accadde per Napoleone I considerato da molti liberali italiani un tiranno sino al 1814 ma riscoperto quale campione della libertà dopo l’Atto addizionale  che presentò l’impero dei cento giorni come garante del progresso: diritti dell’uomo, avvento delle nazioni, riforme sociali. Sconfitto e deportato a Sant’Elena, ancor più di Murat l’imperatore divenne il simbolo di vent’anni di sperimenti costituzionali.

Fortune e sfortune del liberalismo si intrecciarono  con la pace europea stabilita dal Congresso di Vienna (1815) e con la Santa Alleanza tra Russia, Austria, Prussia e la Francia tornata sotto i Borbone (Luigi XVIII e poi suo fratello, Carlo X): un sistema politico-diplomatico fondato sulla conservazione delle monarchie amministrative, solitamente dette “assolutistiche”. La Santa Alleanza risultò fragile per le rivalità tra i suoi componenti. Tuttavia durò sino alle rivoluzioni del 1848. Gli equilibri continentali fissati con il Congresso di Vienna  (concerto delle grandi potenze) si prolungarono invece sino al 1914, assicurando all’Europa un secolo di pace,  scalfita  da guerre locali o “di teatro” e da piccole modifiche. Tre le novità più importanti vi furono, a metà Ottocento, la nascita del regno d’Italia, come garante della pace europea, l’ascesa militare del regno di Prussia e la proclamazione dell’Impero di Germania, l’avvento del Principato (poi regno) di Romania, poi del regno di Bulgaria.

Molto più importanti furono le novità registrate negli spazi extraeuropei: il declino dell’Impero turco-ottomano dall’Africa Settentrionale al  Mediterraneo orientale, l’indipendenza dell’America centro-meridionale da Spagna e Portogallo, il primato degli Stati Uniti nello spazio americano (“dottrina Monroe”, ideata dal vicepresidente Quincy Adams, antimassone fanatico). Le potenze dell’Europa centrale non percepirono subito o si accorsero solo tardi di queste trasformazioni degli equilibri planetari.

2 – Le Costituzioni dell’età franconapoleonica in Italia

In Italia l’età franco-napoleonica (1796-1814/15) introdusse novità in tutti i settori della vita politica, sociale, economica  e culturale. L’impero napoleonico non avrebbe mai generato l’unificazione di uno Stato autonomo. Esso, anzi, avrebbe reso l’Italia vassallo perpetuo della Francia e ridotto la stessa Roma a città secondaria rispetto a Parigi. Lo stesso, del resto, valeva per gli altri Stati vassalli del sistema napoleonico: dalla Confederazione germanica alla Svezia, da Olanda (assegnata a Luigi Bonaparte), Spagna (affidata a Giuseppe Bonaparte) e Portogallo, temporaneamente vassallo.

Tuttavia  l’età franco-napoleonica fu per l’Italia un periodo di sperimentazione di costituzioni, cioè di enunciazione della identità degli Stati e dei modi attraverso i quali essi dovevano conseguire i loro fini. Ogni costituzione è una filosofia della storia applicata all’ordinamento politico, l’Idea che si fa azione, l’Ideale che diviene reale, come intuì e scrisse Giorgio Guglielmo Federico Hegel.

In pochi anni si susseguirono le costituzioni della Repubblica di Bologna (1796), di quelle Cispadana (1797) e Cisalpina (1797 e 1798), la costituzione della Repubblica Romana (1898), quelle della Repubblica Napoletana (1799) e della Repubblica Italiana (varata dai Comizi di Lione del 1802), la Costituzione del Popolo Ligure (1802), quella  provvisoria della Repubblica di Lucca (1799) e lo Statuto costituzionale dello Stato di Lucca (1801).  Dal 1805 si registrarono nove Statuti costituzionali del regno d’Italia (1805-1810) e quello del regno di Napoli e di Sicilia (1808) per  il regno di Giuseppe Bonaparte prima e di Murat poi.

Le Carte di quegli Stati non furono affatto ripetitive, l’una ricalcata sull’altra. Ciascuna a suo modo ambì a enunciare l’Età Novella, un Ordine Nuovo, l’aspirazione a una visione universale. Il modello delle costituzioni francesi è evidente, come anche l’ispirazione razionale, illuministica in senso lato. Lo compresero bene gli avversari delle costituzioni, sin dall’emanazione di  quella della Repubblica di Bologna, accusata di non essere affatto adatta a una città che vantava secoli di corporazioni, del tutto ignorate dalla Carta del 1796. La critica principale contro la Carta  di Bologna fu però un’altra: essa parlava di diritti dell’uomo e del cittadino ma nulla diceva della religione cattolica. Era infatti caduto all’ultimo momento il suo articolo conclusivo, secondo il quale “la religione cattolica  romana è la sola in tutto il territorio della repubblica. Niuno può essere eletto agli uffici stabiliti dalla costituzione se non professa questa religione:”. Va aggiunto che proprio a Bologna venne approvata per la prima volta la “bandiera nazionale”, cioè il tricolore verde, bianco e rosso, che invece, secondo l’opinione comune  venne istituito dalla repubblica Cispadana a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797: una fiaba compiacente di anno in anno avallata anche dai presidenti della repubblica italiana odierna, che si recano in pellegrinaggio a Reggio Emilia ignorando l’antecedente di Bologna.

Le Carte successivamente adottate da altri Stati franco-napoleonici furono molto più attente a un tema di tale centralità, quale il ruolo della fede cattolica e, conseguentemente, della libertà di religione, a cominciare da quella della  Repubblica Cispadana, che  all’art. 4 del titolo I sancì: “ (La Repubblica) conserva la religione della Chiesa cattolica, apostolica, romana. Non permette verun altro esercizio di pubblico culto. Solo agli ebrei permette la continuazione del libro e pubblico esercizio per tutto il suo territorio. Non vuole però che alcun cittadino, quando viva ubbidiente alla legge, sia inquietato per opinione religiosa”.  Ancora più esplicita fu al riguardo la Costituzione della Repubblica Cisalpina, firmata da politici che ritroveremo nelle logge del Grande Oriente in Italia. All’art. 349  essa recitò: “E’ garantito a chiunque il libero esercizio del culto che si è scelto, conformandosi alle leggi. Nessuno può essere sforzato a contribuire alle spese di un culto”. Era la Carta che  dettava: “Non fate agli altri ciò che non vorreste che si faceste a voi. Fate agli altri il bene che vorreste riceverne”. Non vi compariva più, tuttavia, l’art. 3 della Carta precedente: “La repubblica cisalpina conserva e tramanda ai posteri il sentimento di eterna gratitudine verso la repubblica francese, cui è debitrice  della recuperata libertà”: un singolare omaggio allo straniero ancora ritenuto “liberatore”; o, secondo altri, una triste prova di servilismo dei “padani” nei confronti dell’Armata d’Italia di Napoleone  e dell’esoso e vorace Direttorio della Repubblica francese.

3 – Le Costituzioni della Repubblica romana e della Napoletana (1798-1799)

A sua volta  la Carta della Repubblica Romana  proclamò: “La legge non riconosce né voti religiosi, né alcun impegno contrario ai diritti naturali dell’uomo”: una bordata contro gli ordini religiosi.  L’art. 351, sia pure con ampio giro di parole, si sostanziò nel divieto delle associazioni politiche e quindi delle sette segrete (“nessuna società particolare, che si occupi di questioni politiche, può corrispondere con un’altra, né aggregarsi ad essa, né tener sedute pubbliche composte di associati, e  di assistenti distinti gli uni dagli altri, né imporre condizioni di ammissione e  di  eleggibilità, né arrogarsi diritti di esclusione, né aver presidenti, o  segretari, o oratori, in una parola alcuna organizzazione, né far portare ai suoi membri alcun segno esteriore della loro associazione. Mentre enunciava la libertà, la Carta della repubblica romana vietava un diritto elementare: quello di associazione in forme non riconosciute dal potere, come già aveva  il governo francese all’epoca del Terrore, che vietò le logge e suppliziò molti massoni. Da questo punto di vista quella Costituzione precorre  quella oggi in vigore, che decreta la libertà di associazione ma vieta le società segrete senza però enunciare i requisiti della segretezza.

4 – La costituzione della Repubblica di Napoli del 1799

Il culmine della separazione dalla tradizione storica venne raggiunto dalla Carta della Repubblica Napoletana (un insieme di 421 articoli), incardinata su principi rigorosamente razionalistici, come spiegato dal Rapporto del comitato di legislazione al governo provvisorio, che ne costituì la premessa organica.

Essa è aperta dalla dichiarazione dei diritti e doveri dell’uomo, del popolo e dei suoi rappresentanti. Non vi compare mai alcun riferimento a Dio o all’Essere supremo. L’uomo è chiamato a conservare  e migliorare il suo essere, e perciò tutte le sue facoltà fisiche e morali. La Carta di Napoli introdusse in Italia il “diritto di resistenza” già affermato dalla Repubblica francese nella sua stagione giacobina. Tra i doveri del cittadino  vi spicca quello  di “illuminare e istruire gli altri”. La repubblica napoletana si assegnò una missione pedagogica, fondata  sulla presunzione del possesso sociale della verità. Di lì  il richiamo ai cittadini a vivere nella e per la Repubblica e quindi pubblicamente non solo nelle assemblee.

Per cogliere la portata della rivoluzione napoletana ricordiamo il Titolo X, art..292-306 della sua Carta. Ne ricordiamo alcuni::

“L’educazione è fisica, morale e intellettuale (292).

L’educazione fisica, morale e intellettuale privata che debbono i padri di famiglia dare a’ loro figliuoli fino all’età di sette anni è prescritta dalla legge (293).

In ogni comune vi saranno dei luoghi pubblici, dei ginnasi e campi di Marte, destinati  vari esercizi ginnastici e guerrieri (294).

In ogni giorno festivo i giovinetti maggiori di sette anni intervengono nei luoghi dalla legge stabiliti a sentire la spiega del catechismo repubblicano (298).

Vi sono delle scuole primarie, nelle quali i giovinetti appendono a leggere, a scrivere, e gli elementi della aritmetica ed il catechismo repubblicano (301).

I cittadini hanno il diritto  di formare degli stabilimenti particolari di educazione e d’istruzione, ma conformi alle leggi della repubblica, come ancora delle libere società per concorrere ai progressi delle lettere, delle scienze e delle arti (306).

Le vie verso il totalitarismo sono infinite e non passano necessariamente attraverso l’imposizione di una sola confessione religiosa. Anche lo Stato può esserne veicolo, mentre la libertà vera è un sentiero stretto, impervio e solitario.

5 – L’influenza diretta della Francia nelle terre italiane annesse all’Impero e lo Statuto costituzionale del Regno di Napoli e di Sicilia (1808)

Sulla vita sociale ed economica della popolazione del futuro regno d’Italia influì molto l’annessione alla Repubblica francese come XXVI^ Divisione e, per continuità, all’Impero dei Francesi degli Stati di Terraferma della monarchia sabauda: Savoia, contea di Nizza, Piemonte e, dal 1806, della Repubblica ligure, che i francesi stessi avevano costituito come  Stato temporaneamente indipendente: un ampio spazio pluriregionale, per un  insieme di oltre cinque milioni di abitanti, con alcuni centri urbani importanti, di importanza strategica (Torino, Cuneo, Alessandria, Novara, le città portuali  di Genova, Nizza, La Spezia) e settori produttivi di eccellenza (manifatture della seta, allevamento del bestiame, coltura di cereali, riso, vite, olivi…).

La francesizzazione si sostanziò nell’immediata adozione dei Codici napoleonici, nell’imposizione della lingua francese nella vita pubblica e nell’amministrazione locale, con una penetrazione  dalle conseguenze non durevoli solo per il  repentino crollo dell’impero. La svolta ebbe ripercussioni profonde nella posizione della chiesa cattolica nella società civile, nella vita quotidiana, nei costumi. Mentre nel regno di Sardegna essa era tutt’uno con lo Stato, nella Repubblica  francese venne regolata dal concordato del 1801 tra Napoleone Primo Console e papa Pio VII e, successivamente, dal sempre più aspro conflitto concluso con la debellatio del potere temporale del Papa, internato a Savona, una cittadina portuale ligure, cioè nei confini dell’Impero.  Gli Annuaires  ufficiali dei Départements transalpini (Torino, Cuneo, ecc.) indicano la vastità del cambio sin dalle date memoriali: quella dell’incarnazione di Cristo vi comparve tra molte altre, quali  la fodnazione di Roma, l’Egira, ecc. La francesizzazione influì in specie su pensiero politico e coscienza dell’identità tra nazione e lingua.  La “nobiltà”, ovvero l’insieme della classe dirigente, era  bilingue  per tradizione. Il francese era  usato abitualmente, ma considerato seconda lingua anche da chi lo utilizzava nella vita domestica. Con l’annessione le parti si invertirono. Perciò, mentre continuò a parlare e a scrivere in francese, quella stessa nobiltà cominciò a capire che doveva pensare in italiano. Non solo:  mirò ad apprendere l’italiano “classico”.

Proprio sotto la dominazione napoleonica in Italia si pose dunque la questione della lingua, che accompagnò tutto il processo dell’unificazione italiana e risultò irrisolto ancora dieci anni dopo la proclamazione del Regno, nel contrasto tra Alessandro Manzoni (che propose  di usare il fiorentino) e il toscano Giosuè Carducci, che invece affermò di lasciar libero corso alla lingua viva: l’ italiano.

6 – La costituzione siciliana del 1812

Su ordine del plenipotenziario inglese in Sicilia,  lord William Bentick, il 1° maggio 1812 Ferdinando di Borbone promulgò la costituzione della Sicilia, subito e generalmente considerata una versione scritta della “costituzione britannica”, mai scritta. Approvata dall’assemblea provvisoria del 1l agosto e da quella eletta il 25 maggio 1813, la Carta venne promulgata con i placet del Re, che pro tempore trasferì i poteri al figlio, Francesco duca di Calabria. Essa confermò la legge salica ma previde la successione femminile “se mai il regnante della venisse a mancare senza figli (…) estinti tutti i maschi di maschio della sua discendenza”. Istituì due camere, una elettiva, l’altra  di Pari, e  formata dai baroni e dagli ecclesiastici aventi diritto di sedere in parlamento, e confermò che “la religione dovrà essere unicamente, ad esclusione di qualunque altra, la cattolica, apostolica, romana; e che il re sarà obbligato professare la medesima religione; e quante volte ne professerà un’altra sarà ipso facto decaduto dal trono”.

7 – Le cospirazioni settarie, 18171820: Massoneria e Carboneria

Dal 1814 in Italia non rimase in vigore nessuna costituzione, a parte il regno di Napoli di Murat, destinato a tragica fine l’anno seguente. Il 14 maggio 1814 Vittorio Emanuele  I di Savoia proclamò da Genova il ritorno  all’ “antico lustro di nostra santa religione”. All’ingresso in Torino, il 21 maggio  decretò che “non avuto riguardo a qualunque altra legge, si osserveranno le Regie costituzioni del 1770 e le altre previdenze emanate sino all’epoca del 23 giugno 1800”. Vennero annullate tutte le leggi franco-napoleoniche emanate negli Stati di Terraferma dal 1798, inclusa la parità dei diritti civili e politici di valdesi ed ebrei.  Furono altri ripristinati i tribunali separati per gli ecclesiastici e per i cavalieri dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.  Dell’età napoleonica venne tenuta in piedi solo la macchina di controllo poliziesco, molto efficiente, conferita al Corpo dei  Reali Carabinieri.  Il 14 giugno il re decretò l’abolizione della tortura quale strumento per estorcere la confessione dei reati. Se l’indagato però non rispondeva all’accusa o, a giudizio degl’inquirenti, si fingeva pazzo, veniva considerato colpevole e giustiziato nei modi previsti (assai barbarici).  Il re promulgò  la grazia per i delitti minori commessi prima del 21 maggio precedente e rimise le pene corporali, afflittive e pecuniarie previste, estendendo la grazia anche a quanti già condannati, stessero espiando.  Vennero però esclusi dall’indulto i delitti gravi: lesa maestà, sia divina sia umana; fabbricazione di moneta falsa, fuga dal carcere, parricidio, uxoricidio, fratricidio, infanticidio, assassinio, veneficio, omicidio premeditato o senza causa, incendio doloso, furto con violenza, estorsione a mano armata, ricatto con minacce segrete, falsificazione di scritture pubbliche o private, fallimenti dolosi, furto sacrilego, peculato, furto di bestiame nelle campagne o nelle stalle, truffa o ricettazione dolosa, resistenza alla forza pubblica, specialmente agli agenti fiscali, concussione, malversazione. A ben vedere vennero dunque amnistiati solo reati davvero minori. I recidivi sarebbero stati puniti con aggravio di pena. I parenti dei rei, sia incriminati sia ammessi all’indulto, furono esentati dalla pena dell’infamia, che consisteva nella pubblica denuncia dei loro nomi a perpetua damnatio memoriae. Col 1814 nel regno di Sardegna la responsabilità penale divenne dunque personale, come già nel Codice napoleonico: un piccolo passo sulla via della modernità.

Lo stesso giorno Vittorio Emanuele I ribadì  l’editto decretato da Vittorio Amedeo  il 20 maggio 1794: “proibizione delle congreghe ed adunanze segrete, qualunque ne sia la denominazione loro, e massime quelle dei così detti liberi muratori”, sotto pena di perdita dell’impiego e inabilitazione ad averne di nuovi. I massoni erano puniti con  due anni di carcere se impiegati, cinque anni se cittadini qualunque e  dieci se  recidivi. Era stabilita inoltre la confisca in tutti i casi di effetti, denari o mobili trovati nelle sale delle adunanze.  I delatori sarebbero stati premiati con 500 lire a carico dei rei e con un sussidio regio. Gl’inquisiti sarebbero stati iscritti in apposito catalogo.  Governatori, comandanti, vicario di polizia, prefetti e magistrati furono chiamati a “invigilare particolarmente sovra tali adunanze, fare improvvise visite e perquisizioni ne’ luoghi sospetti e sorprenderle, e di procedere sollecitamente contro simili delinquenti”.

I massoni furono dunque indiziati di attentato alla sicurezza dello Stato e dell’ordine pubblico. Vittorio Amedeo III aveva vietato la massoneria cinque anni dopo la Rivoluzione  del 1789 e quando la Francia di Robespierre, da due anni in armi contro il suo regno, era sospettata di essere ispirato da massoni.  La massoneria  venne proibita perché considerata rivoluzionaria, come aveva affermato l’abate Lefranc e poi ripeté  Augustin Barruel.

Altrettanto fecero nel 1814  Vittorio Emanuele I e gli altri sovrani restaurati in Italia (il duca di Modena, il Granduca di Toscana, Maria Luisa d’Asburgo a Parma e Piacenza, Maria Luigia di Borbone a Lucca….). Il 15 agosto 1814  papa Pio VII richiamò in vigore le  scomuniche e le pene stabilite dai suoi predecessori (Clemente XII e Benedetto XIV), inclusa la pena di morte stabilita sin dal 1739  dal cardinal Firrao. Le sette segrete furono proibite, con pene conseguenti, anche nei territori direttamente annessi all’impero d’Austria (il regno Lombardo-Veneto) ove erano state disciplinate ma non vietate durante l’impero pre-rivoluzionario.

Comunque, i divieti della massoneria ribaditi dai sovrani restaurati non ebbero valore retroattivo. Mentre richiamavano in vigore decreti pre-rivoluzionari, i sovrani misero tra parentesi quanto era accaduto negli anni del dominio franco-napoleonico. Del resto per quasi dieci o quindici anni, secondo le loro vicende politico-militari, in tutti gli Stati della penisola italiana (con esclusione di Sicilia e Sardegna) le logge  massoniche erano state non solo notorie ma avevano funto da centro di unione ufficioso e talvolta ufficiale per la  concertazione tra la dirigenza italo-napoleonica e  quella ormai tutta “francese” nelle terre direttamente annesse all’Impero (Piemonte e Liguria).

Se non proprio alla luce del sole, le logge erano “pubbliche” e raccoglievano migliaia di personalità di spicco da Roma a Firenze, da Milano a Brescia, Torino. Gran Maestro del Grande Oriente in Italia era il figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais. Altrettanto valeva nel regno di Napoli che ebbe per grandi maestri del suo Grande Oriente Gioacchino Murat, già alto dignitario massonico a Milano, circondato da dignitari dello Stato, militari, magistrati, docenti famosi…

I nuovi regimi non avevano una dirigenza da sostituire completamente a quella in carica. Anche perché avvenne all’improvviso, nei pochi mesi tra l’abdicazione di Napoleone e la restaurazione dei sovrani, il cambio fu circoscritto ai vertici e non arrivò agli innumerevoli tentacoli della burocrazia. Perciò molti giovani massoni che avevano dato ottime prove nell’età franco-napoleonica si affermarono nel servizio dei sovrani assoluti. Il caso di Antonio Salvotti, iniziato alla massoneria in età napoleonica e poi inquirente nei processi a carico di carbonari e massoni nel 1820-23 (Pellico, Maroncelli, Confalonieri…)  e altissimo magistrato dell’Impero d’Austria è solo uno tra i moltissimi casi emblematici.

A sua volta Ferdinando IV di Borbone, I delle Due Sicilie, revocò la costituzione del 1812 e ripristino proibizioni e condanne delle congreghe segrete.

Centinaia di migliaia di persone vennero colpite dalla Restaurazione e si organizzarono in associazioni o società con varie denominazioni, come hanno documentato in molte opere illustri studiosi (Oreste Dito, Giuseppe Leti, Alessandro Luzio, Rinaldo Soriga, Carlo Francovich, Tommaso Pedio, Giuseppe Gabrieli…). Le più importanti  furono la Carboneria  e la Massoneria. La Carboneria nacque giacobina e antinapoleonica. Ma era e rimase una cornice. Divenne cristiana e nazionale. Contò centinaia di migliaia di affiliati. Non fu dunque una  società “segreta”, ma una associazione di massa. Al suo interno o ai suoi margini operarono nuclei di massoni e di altre sette: gli adelfi (o fratelli) in Piemonte e i federati in Lombardia. I governi repressero i settari non per le loro denominazioni, catechismi, ideologie, ma per la loro  vera o presunta pericolosità politica: a Macerata, a Fratta Polesine, ovunque vi fosse un sospetto di cospirazione  “liberale”, come in tempi recenti ripetuto da Franco della Peruta e da altri studiosi. I settari avevano le loro ragioni, ma anche la Santa Alleanza aveva le sue: dopo vent’anni di guerre e almeno cinque milioni di morti nelle guerra franco-napoleoniche battaglie l’Europa aveva bisogno di pace. Tra la repressione di idealisti e la quiete la Santa Alleanza optò decisamente per la prima, a tutto vantaggio dello sviluppo demografico, della produzione (seconda industrializzazione), della trasmissione di beni e messaggi (canali, strade, ferrovie, telegrafo…). Durante la Grande Conservazione (1815-1848) l’Europa compì enormi progressi, che prepararono la Rivoluzione anche tramite la stampa.

8 – L’insurrezione carbonaroliberale di Napoli del 1820 e l’adozione della Costituzione di Spagna.  Lo scontro fratricida tra la Sicilia e Napoli.

Su impulso del pronunciamento militare che nel gennaio 1820 chiese in Spagna il ripristino della Costituzione di Cadice, un analogo “moto”  iniziò nel luglio 1820 nelle Due Sicilie, per iniziativa di due ufficiali e di un prete, Morelli, Silvati e don Menichini. L’insurrezione ebbe il sostegno di numerosi militari e chiese al re Ferdinando I la promulgazione della costituzione di Cadice. Dopo giorni convulsi, il  sovrano acconsentì, promulgò la Costituzione e giurò sui vangeli di osservarla,  con riserva di modifiche da parte della assemblea che sarebbe stata eletta proprio in forza della Carta costituzionale.

Ma che cosa rappresentava la Costituzione di Cadice per carbonari, massoni e liberali del Mezzogiorno d’Italia?  Don Menichini dichiarò che aveva avuto troppe cose da fare nei giorni dell’insurrezione  e non aveva avuto né tempo né modo di leggerla. Come tanti altri “insorti” la voleva senza sapere che cosa fosse, quali diritti garantisse. Quella Carta era  l’etichetta di un cambio: dalla monarchia assoluta alla sovranità della nazione. Lo stesso valeva per le generalità degli affiliati alle sette e per i loro capi.

Il fascino della costituzione di Cadice del 1812 non constava nei suoi contenuti, molto modesti sul piano della libertà e addirittura rigidamente conservatori in specie per quella di culto, ma per l’ammirazione suscitata dagli spagnoli nella guerra di indipendenza contro Napoleone Giuseppe I e la Francia di Napoleone I. Non solo: la nazione spagnola divenne il modello per i liberali italiani perché con il pronunciamento del gennaio 1820 spezzò per prima la piastra di piombo della Santa Alleanza. Gli italiani si illusero di fare come in Spagna e oer farlo presto e bene ne adottarono la Carta, senza conoscerla: la forza del mito.

Molti notabili italiani erano stati iniziati alla massoneria in età napoleonica, ma le logge di età francese erano considerate strumento del potere politico. Altri furono iniziati massoni dagli inglesi. Il caso più importante è quello di Federico Confalonieri, accettato massone dal fratello del re di Gran Bretagna.

Ferdinando I e i suoi ministri e consiglieri  accettarono decisero di promulgare la Costituzione perché era viva la memoria dei torbidi rivoluzionari del ventennio precedente. Il re era cognato di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Napoli era lontana dalle capitali della Santa Alleanza. Poiché  i militari più prestigiosi, come il colonnello De Concilj e il generale Guglielmo Pepe, si schierarono con gli insorti, il sovrano aderì. Ma i liberali non avevano affatto un piano organico, una regia unitaria. Palermo insorse contro gli insorti e rivendicò l’identità  della Sicilia. In poche settimane si ripresentarono motivi secolari di divisione tra l’isola e il continente. Il governo “liberale” decise la repressione armata dell’indipendentismo siciliano. Inviò un corpo di spedizione agli ordini di Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, che nei confronti dei siciliani usò la mano di ferro. Fu una piccola guerra civile, da dimenticare. Il liberalismo vi scrisse una brutta pagina.

9 – La Risposta della Santa Alleanza (Troppau, Lubiana e la spedizione Frimont)

La Santa Alleanza (Russia, Austria, Prussia con la Francia in seconda fila perché il restaurato Luigi XVIII di Borbone era affannato nel farsi riconoscere dall’opinione liberale del paese) non rimase inerte dinnanzi ai moti insurrezionali costituzionali. I governi conservatori non rifecero l’errore del 1798-1792 quando rimasero alla finestra  nella convinzione che la rivoluzione minava dall’interno la Francia come grande potenza. Nel 1820 stabilirono il principio dell’ “intervento” militare per affermare i principi del Congresso di Vienna: pace  nell’ordine costituito. Imperatori e re si attribuivano il dovere di impedire ai popoli europei di proclamarsi sovrani e di darsi costituzioni. Erano pedagoghi, speculari ai giacobini.  Ogni regime pretendeva di fare gli uomini a propria immagine e somiglianza.

Perciò prima nel congresso di Troppau e poi, con maggior decisione, in quello di Lubiana la Santa Alleanza decise di cancellare i regimi costituzionali sia a Napoli sia in Spagna, prima che il loro esempio contagiasse altre terre con conseguenze catastrofiche. Va ricordato che Napoleone I era ancora vivo a Sant’Elena e che era sempre più rimpianto anche dai liberali che sino al 1814 lo avevano combattuto come tiranno.

Per Vienna il regno delle Due Sicilie era a portata di mano: bastava attraversare lo Stato Pontificio.  Papa Pio VII era prudente sui dettagli e sulle conseguenze che la spedizione poteva avere nei suoi domini,  ma era del tutto d’accordo sul suo scopo ultimo: estirpare le sette dalle radici. Infatti era in  gioco il primato assoluto della chiesa cattolica in Italia. In sé e per sé la costituzione di Cadice non lo mutava affatto, ma la Santa Sede capì che per i liberali del Mezzogiorno la Carta spagnola era il pretesto per aprire un nuovo corso storico. L’Assemblea nazionale avrebbe potuto  modificare la costituzione di Cadice, forse tornando allo spirito e alla sostanza della repubblica Napoletana del 1799.

Mentre in Spagna liberali e servili si confrontavano sempre più aspramente, in nome della Santa Alleanza Vienna inviò dunque un’armata agli ordini del generale Frimont per abbattere il governo costituzionale delle Due Sicilie. Ferdinando I di Borbone, spergiuro, dall’estero ordinò ai regnicoli di schierarsi con i soccorritori/occupanti. Il duca di Calabria fu più cauto. La rivoluzione liberale ebbe le ore contate anche perché indebolita dal  conflitto fratricida fra la Sicilia e Napoli, tra il baronato e frange liberali  dell’isola e la capitale di uno Stato che tentava la via dell’unione tra diversi, separati da secoli di storia.

10 – Larivoluzione piemontesedel marzo 1821: Santa Rosa, Marentini, il Principe Carlo Alberto di Savoia e l’adozione della Costituzione di Spagna.

Vienna decise l’intervento nel timore che esistesse davvero una rete cospirativa internazionale capace di scatenare una nuova rivoluzione generale. Nel 1817 si erano registrati moti settari in città di modesta importanza. A Fratta Polesine vennero scoperti e arrestati una manciata di notabili nostalgici dell’età napoleonica: un cenacolo di illusi, niente affatto pericolosi. Ma l’imperial-regio governo ritenne di dover infliggere una punizione esemplare. In modo casuale nell’ottobre 1820 la polizia scoprì la trama di carbonari lombardi, imperniati su Piero Maroncelli (anche massone), Silvio Pellico e il conte Luigi Porro Lambertenghi (carbonari), amico di Federico Confalonieri (massone)…: personaggi che si collegavano al costituzionalista Gian Domenico Romagnosi, massone di spicco in età napoleonica ma ormai del tutto in disparte, e ad altri settari, veri o presunti, in parte già collaboratori di “Il Conciliatore”, periodico liberale milanese di respiro europeo.  Malgrado le indagini più accurate, la polizia non accertò nulla di veramente pericoloso. I “federati” lombardi erano collegati agli “adelfi” piemontesi e tutt’insieme avevano contatti con carbonari e con qualche massone, ma la trama politico-militare rimase debole. Infatti nessun liberale del Lombardo-Veneto  si mosse in aiuto del regime costituzionale del Napoletano.

Nel marzo 1821 iniziò invece il moto liberale nel regno di Sardegna.  Nel gennaio A Torino si era registrato un episodio emblematico: alcuni studenti furono arrestati perché entrarono in un teatro con cappelli i cui colori, contrariamente al vero, vennero ritenuti emblema della carboneria. All’Università avvennero proteste schiacciate con le armi. I feriti ebbero le attenzioni di Cesare Balbo, di sentimenti liberali, e di Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano. La tensione crebbe sino a quando alcuni reparti militari si mossero verso Torino ove  il 12 marzo una folla in piazza chiese la costituzione, dapprima in modo confuso, poi quella spagnola: la costituzione di Cadice. Nel tumulto venne ucciso il comandante della Cittadella, unica vittima dell’insurrezione. Carlo Alberto, che nei giorni precedenti aveva avuto due colloqui con giovani cospiratori liberali, dialogò con i dimostranti. Il re, Vittorio Emanuele I di Savoia, rifiutò ogni trattativa e, dopo una giornata di consultazione col governo, decise di abdicare a favore del fratello, Carlo Felice, in quel momento a Modena, ospite del genero. Affidò la reggenza a Carlo Alberto e partì per Nizza. Scordò di firmare l’atto di abdicazione e rimase nei confini del regno.

Dopo molte esitazioni, incalzato dall’ “impero delle circostanze” e per “rendere al nuovo Re salvo, incolume e felice il suo popolo, e non già straziato dalle fazioni e dalla guerra civile”,  il 13 marzo il principe reggente Carlo Alberto annunciò che avrebbe proclamato la costituzione spagnola, insediò una ampia “giunta provvisoria” di governo, in attesa della elezione dell’Assemblea nazionale,  e il 15 la promulgò e giurò la Carta, con riserva che venisse confermata dal sovrano legittimo, al quale sin dal 13 dichiarò formalmente piena “sommessione”.

Carlo Alberto era stato creato conte dell’Impero da Napoleone I. Dall’infanzia aveva conosciuto guerre civili e grandi guerre. Una Carignano, la principessa di Lamballe, era stata assassinata dalla plebaglia di Parigi, che le staccò la testa e la portò su una picca sotto le finestre della regina Maria Antonietta di cui si diceva fosse stata amante. Conosceva bene anche le divisioni all’interno di aristocrazia, militari, funzionari, liberi professionisti di un Paese anfibio e bilingue come il regno di Sardegna da poco ingrandito con l’annessione della Liguria. Il timore della guerra civile era dominante. Il 16 marzo fece pubblicare la costituzione spagnola in traduzione italiana ufficiale  dalla stamperia reale per renderla famigliare ai cittadini. Vi enunciò due modifiche: la successione al trono  rimase vincolata alla legge salica, cioè alla successione di maschio in maschio “quale si trova stabilito dalle antiche leggi e consuetudini di questo regno e dai pubblici trattati”; “la religione cattolica apostolica romana  sarà quella dello Stato, non escludendo però quell’esercizio di altri culti, che fu permesso insino ad ora”.

La Carta di Cadice aveva senso per gli spagnoli, ma gli abitanti del regno di Sardegna non avevano  alcun motivo di considerarla propria. Era una bozza. Gli Stati italiani sperimentato tante costituzioni e molti statuti costituzionali. Non avevano bisogno di leggere quella Carta. Perciò anche dai “piemontesi” la costituzione di Cadice venne considerata  non solo come provvisoria ma come estranea, anche se forse apprezzarono  gli articoli 6, 7 e 8 del titolo II: “L’amore della patria è uno degli obblighi principali di ogni spagnolo, non meno che l’essere giusto e benefico,…”

Santorre di Santa Rosa, che fu tra i maggiori protagonisti della “Rivoluzione piemontese” scrisse  che preferiva la costituzione siciliana del 1812: due Camere, anche se egli stesso, di piccola nobiltà e privo di mezzi, non aveva alcuna speranza di farne parte. Da patriota non pensa a sé ma al Paese.

La massoneria e i moti costituzionali del 1820-1821

La massoneria ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione piemontese del 1821? La risposta è no. Certo alcuni suoi attori erano stati affiliati a logge, ma non esiste alcuna prova che vi sia stata una regia unitaria, con obiettivo  coerente. Anche all’epoca vi erano molte e diverse massonerie,  massoni attivi e quotizzanti, massoni in sonno, ma, ripetiamo, non vi era alcun centro direttivo unitario e univoco. Vi erano massoni monarchici, repubblicani, federalisti, filofrancesi, filobritannici, indipendentisti: un caleidoscopio di  posizioni perché tutti insieme mancavano di una Figura di riferimento, come era stato Napoleone negli anni 1805-1814 e sarà poi Casa Savoia dal 1859.

Sulla base della documentazione acquisita si può dire che nel 1820-1821 nei moti vi furono anche massoni. Di Michele Gastone, sempre considerato una eminenza grigia del moto, si sa che venne fermato e rilasciato. Ancora non si sa perché. Sulla scorta di un antico articolo di Giorgio Spini di quasi sessant’anni addietro è stato ripetuto che i massoni cercarono di diffondere qualche centinaio di copie di costituzioni, specialmente di quella di Cadice: è però un fatto del tutto irrilevante perché dall’aprile 1821 l’Austria ebbe il pieno controllo dell’Italia.

Essa sconfisse senza sforzo i costituzionali delle Due Sicilie e fece fuggire alla vista quelli del regno di Sardegna. Carlo Felice dette tempo affinché i liberali potessero riparare in esilio.

Si può dunque parlare di partecipazione di massoni, non di un disegno della massoneria. Tra i massoni notevoli del 1821 va tuttavia ricordato un ecclesiastico: monsignor Bernardo Marentini, presidente della giunta provvisoria di governo del regno di Sardegna, affiliato dal 1814, proprio alla vigilia della Restaurazione. Al crollo del regime costituzionale si rifugiò a Lione e vi rimase dieci anni.

11 – L’eredità del biennio liberale italiano: gli Statuti del Rito scozzese antico e accettato  del 1821.

Nel marzo 1821, proprio alla vigilia della  sconfitta dei costituzionali da parte degli austriaci, a Napoli venne pubblicata la Costituzione del Rito scozzese antico e accettato. Fu un atto simbolico: come Hiram, la libertà morì ma  lasciò alle sue spalle un  atto formale: la Costituzioni dell’Ordine, un messaggio a futura memoria.

12 – SpagnaPortogallo e Americhe, rifugio e palestra di liberali e settari italiani

Molti liberali italiani scamparono alla repressione fuggendo all’estero. L’esilio divenne un destino non solo individuale, come era stato con  Ugo Foscolo che dopo il crollo del napoleonico regno d’Italia  e dei sogni di libertà preferì migrare in Inghilterra.  L’esilio fu la profezia dell’Europa nuova: quella dei popoli, delle “nazioni” sovrane, come enunciato dalla Costituzione di Cadice. Dal 1821 la lotta però non ebbe più per obiettivo quella Carta, che vincolava a una sola religione, precisamente alla fede cattolica. Sia nella penisola iberica, sia a fianco dei greci contro il secolare dominio turco,  sia nelle Americhe i patrioti italiani costretti all’esilio impararono a  battersi non per una costituzione rigida o per il  sovrano di una Casa regnante ma per principi ideali  superiori, per i diritti dell’uomo e del cittadino. Fu il caso di Santorre di Santa Rosa.

13 – Lo Statuto di Carlo Amedeo Alberto di Savoia come punto di arrivo e volano del liberalismo italiano. La sua lunga durata

Nel 1823 Carlo Alberto partecipò alla spedizione dei centomila “figli di San Luigi” inviati da Luigi XVIII di Borbone d’intesa con la Santa Alleanza e il benestare della Gran Bretagna  per la repressione dei liberali in Spagna e si distinse nell’assedio del Trocadero. Nell’aprile 1831 salì al trono. Diciotto anni dopo, il 4 marzo 1848, nel quadro della Rivoluzione in coso in tutt’Europa, promulgò lo Statuto del regno di Sardegna: appena 84 articoli. Il  24 recita: “Tutti  i regnicoli qualunque si il loro titolo o grado sono uguali dinanzi alla legge”. Il 17 febbraio era stata decretata l’uguaglianza dei diritti civili e  politici dei valdesi (e quindi di evangelici e protestanti). Poche settimane dopo altrettanto avvenne per gli ebrei.

L’articolo 1 dello Statuto affermò che “La religione  cattolica apostolica e romana è la sola dì religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”: come già nel marzo 1821. Molto più avanti della Costituzione di Cadice e delle altre costituzioni italiane del 1848. Quella promulgata da Ferdinando II di Borbone a Napoli recitava infatti che la cattolica era la sola religione dello Stato e le altre erano proibite.

Mai iniziato in loggia, forse Carlo Alberto fu  un massone “sotto la volta del cielo”? Di sicuro sappiamo che il suo Statuto rimase in vigore sino al 1 dicembre 1847. Quella di Cadice terminò il suo ciclo, importante ma caduco, nel 1823. Il suo mito tuttavia rimase efficace e alimentò l’ansia di libertà anche in Italia.

Aldo A. Mola.

BIBLIOGRAFIA

Ghisalberti Carlo, Dall’Antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, Bari, Laterza, 1974;

Alberto Aquarone – M. d’Addio, G. Negri, Le costituzioni italiane, Milano, Ed. di Comunità, 1958.

José Antonio Ferrer  Benimeli, Las Cortes de Cadiz, América  y Masoneria,  in AA.AA.,Cortes y Constitucion de Cadiz 200 anos, dir. José Antonio Escudero, Madrid, Espasa, 2011, vol. II, pp.69-97

ID, Masoneria espanola contemporanea. I, 1800-1868, Madrid, Siglo Ventiuno de Espana, 1980.

Francesco Mastroberti, Pierre Joseph Briot. Un giacobino tra amministrazione e politica, Napoli, Jovene, 1998;

Giorgio Marsengo – Giuseppe Parlato, Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821, Comitato di Torino dell’Istituto Italiano per la storia del Risorgimento, Torino, 1982, voll. 2

  1. VV. La Carboneria, Rovigo Minelliana, 2003

Filippo Ambrosini, Piemonte giacobino e napoleonico, Milano, Bompiani,2000.

Aldo A. Mola (a  cura di), Sentieri della libertà e della fratellanza ai tempi di Silvio Pellico. Atti del Convegno, Saluzzo, 1990, Foggi, Bastogi, 1991;

ID., Saluzzo  e Silvio Pellico nel 150 delle Mie Prigioni, Atti del Convegno di studio, Saluzzo 30 ottobre 1984, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984.

ID., Silvio Pellico cristiano, carbonaro  profeta della Nuova Europa, Milano, Bompiani, 2005.

Luigi Contegiacomo (a cura di), Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859,, Rovigo, Minelliana, 2010