L’ “inchiesta su caporetto”: come una battaglia perduta durante la grande guerra infine vinta divenne sinonimo di disfatta congenita

Questa edizione: un’apertura di credito agli studi storici

“Caporetto” (24 ottobre 1917) fu una battaglia perduta. Ebbe conseguenze gravissime. Lo sfondamento delle linee italiane sull’alto Isonzo comportò il cedimento della Seconda Armata, l’arretramento dell’intero fronte sino al Piave (3-9 novembre), dopo una primo tentativo di attestamento sulla destra del Tagliamento, e l’evacuazione di migliaia di civili da terre che appartenevano al regno d’Italia dal 1866, inclusa Udine, per anni sede del Comando Supremo, e Gorizia, costata tanti sacrifici. Però, un anno dopo la “rotta, su quel fronte la guerra si concluse con la vittoria dell’Italia sugli Imperi Centrali, travolti a Vittorio (24 ottobre  1918) e costretti alla resa (armistizio di Villa Giusti, presso Padova, 3 novembre). In sé, dunque, Caporetto fu una battaglia perduta nel corso di un conflitto di quarantun mesi. Invece  l’“Inchiesta su Caporetto” alimentò e ingigantì uno dei peggiori miti negativi della storia d’Italia. La Relazione, frutto di lavoro febbrile, passò in seconda linea. Nell’opinione pubblica e nella polemica politica, come in tanta parte della  storiografia, l’istituzione stessa della Commissione d’inchiesta significò che la “rotta” e la ritirata avevano origini oscure, riecheggiate anche nella celeberrima canzone “Il Piave”. Serpeggiava il fumus di colpe tenebrose, da mettere a nudo. Si radicò la convinzione che la “Caporetto” avesse cause remote, sicuramente politiche. Forse era persino il frutto di un immane complotto interno e internazionale. Nell’immaginario la conca di Caporetto si popolò di fantasmi. La Commissione doveva individuarne i responsabili, additarli alla pubblica esecrazione  ed esigerne la punizione esemplare. L’Inchiesta investì l’intera catena di comando dell’Esercito italiano proprio quando, dopo la lunga sofferta battaglia di arresto tra metà novembre e fine dicembre 1917, il Comando Supremo era impegnato nella riscossa. Di anello in anello essa conduceva al Capo delle Forze Armate, Vittorio Emanuele III. Nel 1919, sulla fine dei lavori, la Commissione si fermò appena un gradino al di sotto della Corona mentre il Paese era nel caos non già per la ritirata di quasi due anni prima ma perché  il governo, presieduto da Francesco Saverio Nitti, del tutto diverso da quello dell’ottobre 1917 guidato da Paolo Boselli, non sapeva mettere a frutto la vittoria più di quanto avesse fatto il precedente, con Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, ministro degli Esteri dal novembre 1914. Tre diversi governi in tre anni, con cambi e ricambi di ministri e di direttori generali della macchina dello Stato, non giovarono alla pacificazione degli animi.

Prima che se ne conoscessero andamento dei lavori e conclusioni, l’Inchiesta gettò un’ombra cupa sull’Esercito Italiano, pilastro delle Forze Armate e del Paese stesso. Pur a vittoria conseguita, essa trasformò il ripiegamento dall’Isonzo al Piave in sconfitta morale ancor più che militare. Per chi l’aveva voluta e la seppe strumentalizzare, l’ Inchiesta fu sbandierata come “rivelazione” dell’inconsistenza della Nuova Italia: come poi taluno disse del “fascismo”, non rivoluzione ma rivelazione delle cosiddette “tare originarie” dell’unificazione, anzi della storia profonda degli italiani. Da fatto d’armi Caporetto divenne diletto per chiacchiere di antropologia pseudostorica. dilettante. La lunga tenace resistenza sul Piave, la riscossa, la battaglia offensiva di Vittorio e la resa dell’Impero austro-ungarico  finirono in un cono d’ombra.  Oggi anche molti “storici” ignorano che lo strumento armistiziale di Villa Giusti (Padova) previde che l’esercito italiano potesse attraversare in armi l’Impero austro-ungarico per colpire da sud quello germanico, impreparato a difendersi sul fronte sud. Mentre nazionalisti, proto-fascisti e opportunisti cavalcavano il mito della “vittoria mutilata” e pretendevano che al tavolo della pace il governo Orlando-Sonnino ottenesse più di quanto Salandra e Sonnino avessero chiesto col Patto di Londra del 26 aprile 1915 (era il caso di Fiume), i disfattisti elevarono Caporetto a paradigma delle “sconfitte” di un’Italia geneticamente gracile: Custoza nel 1848, Novara nel 1849, ancora Custoza e Lissa nel 1866, Adua nel 1896, Sciara-Sciat nel 1911… In quell’ottica l’Italia era l’“Italietta”: una visione autolesionistica ispirata dall’illusione che dipingere il passato  a tinte fosche basti a rendere più luminoso il presente e il futuro.

Non in sé, ma per l’eco  che la circondò e per l’uso e l’abuso che se ne fece, l’Inchiesta attizzò anche le voci su “tradimenti” o quanto meno su “colpe” di generali, protetti da chissà chi per occultare losche connivenze. Il principale indiziato dell’accusa fu e rimase nel tempo Pietro Badoglio, comandante del XXVII corpo d’armata, investito in pieno dall’attacco austro-germanico del 24 ottobre 1917. Il mito dell’Inchiesta nacque dunque e durò molto oltre la pubblicazione dei volumi nei quali venne sintetizzata: un’opera più citata che letta, anche perché sin dalla pubblicazione essa ebbe circolazione ristretta.

La riedizione dell’Inchiesta, irreperibile nella generalità delle biblioteche anche ben fornite, costituisce dunque una generosa apertura di credito dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito verso la maturità degli studiosi e della pubblicistica nell’imminenza del centenario della Grande Guerra. I suoi volumi, in specie il secondo (che non per caso venne stampato per primo, il 10 agosto 1919, quasi  offa per chi ringhiava contro le Forze Armate), riconducono al clima che ne vide la genesi, alle polemiche violentissime che accompagnarono i lavori della Commissione e la pubblicazione degli Atti e sollecita il confronto tra il suo contenuto e l’immagine che ne venne rispecchiata nella pubblicistica e nella storiografia.

Punti fermi e quesiti aperti

In via preliminare due precisazioni s’impongono.

Dagli Atti della Commissione, molto severi e niente affatto reticenti sulla condotta dei Comandanti e su particolari sconcertanti, emerge a luce meridiana che “Caporetto” non fu la fuga disordinata della Seconda Armata né, meno ancora, comportò il cedimento dell’intero fronte italiano. Il ripiegamento non fu causato da viltà dei soldati, cospirazione politica, “sciopero militare”, collasso del Paese sull’orlo della rivoluzione. Fu uno scacco grave, per  una somma di cause e concause militari (sottovalutazione delle informazioni sull’imminenza dell’attacco, pur noto nei dettagli, mancata preparazione e contropreparazione, scollamento delle comunicazioni tra il fronte e il Comando Supremo, caos nelle contromisure, tanto che i rincalzi incrociarono chi si ritirava con spirito manifestamente rinunciatario…), ma non fu la catastrofe. Come soleva ripetere Vittorio Emanuele III, dopo il brutto tempo viene il bello. L’Italia aveva conquistato unità e indipendenza attraverso prove durissime. Nell’autunno 1917 resse all’urto e infine vinse, sia pure a prezzo altissimo come ricordano, tra altri, Fulvio Capone e Gianni Bellò in Monte Grappa. Ultimo sacrificio. Solaroli 24-28 ottobre 1918 (Ed. Musei all’aperto,2007) .

In secondo luogo, il governo non deliberò l’inchiesta su “Caporetto”, cioè sul collasso di un tratto di fronte, su un episodio circoscritto, ma sugli “avvenimenti” susseguitisi  tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917: dallo fondamento austro-germanico nella conca di Plezzo, in alta Val d’Isonzo, all’attestamento sulla destra del Piave, cioè su una battaglia di proporzioni gigantesche.  Se non fosse stata governata con fermezza, essa avrebbe potuto comportare il cedimento dell’Italia e, con essa, la sconfitta dell’Intesa. L’Italia resisté per non ritrovarsi gli “austriaci” a Verona e a Milano, come molti temettero in quei giorni drammatici. Però resse anche per gli alleati, che inviarono divisioni ma le tennero a lungo lontane dal fronte, quasi a presidiare il territorio dell’alleato, a scrutarne la condotta. Essi lesinarono gli aiuti sul campo e sottovalutarono i sacrifici del Paese (in vite umane, indebitamento finanziario e risorse economiche) sia nel corso della guerra sia al tavolo di una “pace” che non rispose alle attese dell’interventismo democratico, né ai 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson né, infine, ai primi sogni di una federazione di popoli liberi confluenti negli Stati Uniti d’Europa.

Sulle grandi linee della “XII battaglia dell’Isonzo”, come Caporetto è ricordato negli annali della Grande Guerra, in questa sede v’è poco da aggiungere a quanto è stato scritto più volte, anche sulla scorta della vastissima memorialistica e delle Relazioni ufficiali degli uffici storici militari dei Paesi in conflitto, compresa quella dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

La battaglia coinvolse direttamente e indirettamente armate, corpi di armata, divisioni, brigate,… milioni di uomini. Se dalla cornice si passa ai dettagli e via si scende alle vicissitudini dei singoli, Caporetto si dilata a tragedia, cioè a rappresentazione di una moltitudine “casi”, un caleidoscopio che spesso fa smarrire la visione d’insieme, la nebulosa di vicende personali nelle quali sfuma il profilo della guerra grande, da europea divenuta mondiale con l’intervento degli  Stati Uniti d’America a fianco dell’Intesa, quando ormai vacillava la partecipazione della Russia, non più imperiale e neppure socialdemocratica ma in mano ai bolscevichi  di Lenin che (insorti il 23 ottobre e al potere dal 7 novembre) proposero e dalla Germania ottennero la pace “senza compensi né indennizzi” (Brest Litovsk, 20 dicembre 1917 -8 febbraio 1918).

La prima Guerra mondiale ebbe molti vinti, ma nessun vero vincitore. Perciò, tra conflitti di varia intensità, si prolungò sino al 1939-1945, che segnò la finis Europae (1). Il congiungimento dei confini politici con quelli geografici avrebbe dovuto ratificare l’ascesa dell’Italia a seconda potenza dell’Europa continentale, subito dopo la Francia,  al di sopra delle macerie della guerra: il crollo degli imperi di Russia, Germania, Austria-Ungheria e Turchia. Invece quella sull’Austria-Ungheria risultò una vittoria in guerra ma non sulla guerra. Non comportò la liberazione dal peso che il conflitto aveva esercitato sul Paese, la cauterizzazione delle ferite che, per i modi nei quali era avvenuto, l’intervento aveva aperto. Perciò “Caporetto” allungò la sua ombra sull’Italia, benché ormai la guerra fosse alle spalle. Il suo ricordo continuò a seminare dubbi e sfiducia nelle istituzioni, a cominciare dalla “macchina militare”. Rimbombò  nella ridda di imputazioni e di difese, nell’ossessione di trovare un capro espiatorio quando il Paese aveva ansia di normalità.

Risultò dunque difficile andare oltre le polemiche con opere scientifiche e “morali”. Valgono d’esempio la sorte del saggio del generale Adriano Alberti, L’importanza dell’azione militare italiana. Le cause militari di Caporetto, pronto per la stampa dal 1923 ma rimasto inedito, forse “per ragioni di opportunità” secondo Andrea Ungari, che ne ha curato l’edizione per l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (2004); e quella di Caporetto che Gioacchino Volpe scrisse nel decennale della Vittoria proprio per spiegare che la rotta era stata “essenzialmente un fatto militare”, grave ma non esiziale. L’opera magistrale di Alberti, poi utilizzata per pubblicazioni “ufficiali”, rimase inedita per ottant’anni; quella di Volpe venne dimenticata perché l’autore non scese a patti con chi nel secondo dopoguerra attrasse e domesticò storici dell’età monarchico-fascista.

Nel quadro della cognizione “di” e della ricognizione “su” Caporetto l’Inchiesta esercitò un ruolo nefasto. La ritirata dall’Isonzo al Piave durò due settimane (24 ottobre-9 novembre 1917).  L’esodo  biblico della popolazione civile si intrecciò con una battaglia che alternò momenti diversissimi: dallo sbandamento di alcuni reparti alla resistenza eroica di altri. Nel ripiegamento però non  si registrarono né “scioperi militari”, cioè un movimento organizzato di desistenza, di abbandono del campo su direttive politiche, né, meno ancora, indizi di rivolte. Se nei mesi precedenti si erano sentiti rumori di sedizione (ne scrisse il Comandante Supremo al governo, come più avanti diremo), da Caporetto al Piave né i reparti collassati né quelli condotti a sacrificarsi per parare le falle fecero temere in alcun modo il crollo. Malgrado tutto, la macchina militare rispose. Al tempo stesso il Paese, questo “soggetto” apparentemente indecifrabile,  si schierò compatto per la riscossa. Fu il “plebiscito quotidiano” che si sostanzia nella Nazione. Proprio in quei giorni drammatici, per la prima volta dalla proclamazione del regno (14 marzo 1861) e dall’annessione di Roma (20 settembre 1870), la generalità degli italiani  sentì la propria identità, di dover difendere l’indipendenza, l’unità, le libertà conquistate da due generazioni di cospiratori e di martiri dopo secoli di dominio straniero: un sentimento diffuso, acquisito attraverso l’istruzione elementare e i tanti veicoli di formazione della coscienza civica, dal melodramma ai romanzi storici, dalla poesia patriottica  (Carducci, Pascoli,…) alla lezione silenziosa impartita dai monumenti che riverberavano la storia nazionale. Proprio dalla ritirata al Piave sorse La guerra della Nazione, documentata dalla mostra allestita dall’Archivio Centrale dello Stato con la sovrintendenza di Aldo G. Ricci (2009).

L’Inchiesta

Il 12 gennaio 1918 il regio decreto n. 35 firmato dal presidente del Consiglio dei ministri, Vittorio Emanuele Orlando, e dal re, Vittorio Emanuele III, istituì  la Commissione d’inchiesta  sugli avvenimenti militari, che  avevano determinato il “ripiegamento” dell’esercito italiano  sul Piave e “sul modo come il ripiegamento stesso (era)avvenuto”. Il clima del Paese era pesantissimo. Mentre lo Stato (il re, il governo, le forze armate, l’amministrazione pubblica centrale e locale, i produttori industriali e agricoli) compivano enormi sforzi per risalire la china, l’opposizione e gruppi di vario indirizzo premevano per  una inchiesta parlamentare che avrebbe investito ogni settore della vita pubblica e scatenato l’animosità di partiti e movimenti extraparlamentari corrivi a confondere le forze armate col militarismo. L’Italia sarebbe stata precipitata in una voragine di polemiche roventi proprio quando bisognava invece unire le forze per fermare e respingere il nemico dal territorio nazionale e coronare il Risorgimento.

Deliberata dal governo anziché imposta dal parlamento, in sé l’Inchiesta poteva dunque costituire il  male minore. Ma così non fu.

Il 24 luglio 1919 la Commissione presentò la Relazione al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Il  secondo volume, il più atteso, in due settimane venne pubblicato per primo il 10 agosto. Sin dal titolo esso attizzò le dispute: Dall’Isonzo al Piave, 24 ottobre- 9 novembre 1917. Le cause e le responsabilità degli avvenimenti (Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, 1919, pp.579). Seguirono il primo, Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre -9 novembre 1917. Cenno schematico degli avvenimenti (id.id.,id.,pp.376) e il terzo,  comprendente 22 Tavole fuori testo: una cartografia esauriente della battaglia dalla vigilia dell’attacco austro-germanico all’attestamento sulla destra del Fiume Sacro. (2)

(NOTA  2)

La 21^ Tavola illustra lo schieramento delle artiglierie di medio e grosso calibro  della Seconda Armata al mattino del 24 ottobre 1917. Essa  sana quindi la lacuna registrata nel vol. II, che nell’indice annuncia la tavola,18, in realtà non pubblicata, su “Ordine di battaglia delle artiglierie  alla data 24 ottobre 1917”, che doveva essere più analitica della tavola 5bis del vol. I, di uguale titolo.    

(FINE NOTA 2)

Quando gli Atti divennero pubblici, da quasi due anni divampavano le polemiche sulle “responsabilità” della “rotta”. Pochi ricordavano la determinazione di Luigi Cadorna, rimosso dal Comando Supremo a ripiegamento ormai attuato, e meno ancora la fermezza di Vittorio Emanuele III che l’8 novembre 1917 a Peschiera aveva spiegato ai comandanti alleati come e perché l’Italia aveva combattuto e avrebbe continuato a combattere sino al conseguimento della vittoria. Gruppi di opinione, partiti e i loro giornali di riferimento avevano dimenticato il clima di unione nazionale che aveva animato la seduta della Camera dei deputati il 14  novembre 1917, scandita dagli interventi degli ex presidenti del Consiglio, Antonio Salandra, Paolo Boselli e Giovanni Giolitti. Proprio quest’ultimo, erroneamente ritenuto neutralista (addirittura per suggestioni germaniche secondo qualche sciacallo), dichiarò lapidario: “Non è tempo di discorsi, ma di guardare, con la calma dei forti, alla realtà e di agire con suprema energia e prontezza (…). Sul valore dei nostri soldati possiamo fare sicuro assegnamento (…). Non è tempo di discorsi né di consigli, perché il solo Governo ha completa conoscenza delle condizioni militari e diplomatiche, e a lui solo spetta indicare  la via. La Nazione lo seguirà; ma (il governo) ricordi che la gravità del momento non consente indugi né mezze misure (…)”.  A sua volta Filippo Turati dichiarò che anche per i socialisti la patria era sul Piave: affermazione tanto diversa da quella di Claudio Treves che nell’estate precedente aveva invece intimato “Non un altro inverno in trincea” e dagli appelli clericali alla pace immediata per fermare l’ “inutile strage” deplorata da papa Benedetto XV, involontariamente speculare a quella propugnata dei bolscevichi in una visione rivoluzionaria del tutto diversa da quella del pontefice.

Per quanto dovesse e volesse convogliare le dispute su un terreno meno incandescente, con la sua stessa esistenza la Commissione aprì tuttavia una partita complessa. Essa ebbe il compito di “indagare e riferire sulle cause e le eventuali responsabilità degli avvenimenti militari, che hanno determinato il ripiegamento del nostro esercito sul Piave, nonché sul modo come il ripiegamento stesso è avvenuto”.

L’ “evento” fu isolato dal contesto della guerra europea e del processo politico-sociale-economica complessiva.  Circoscritta sul solo versante italiano, senza adeguata cognizione  di quello opposto, di quanto cioè avessero ordito austro-ungarici e germanici, l’Inchiesta non sfiorò neppure le dinamiche della diplomazia, pur strettamente intrecciate con gli eventi bellici. Lasciò altresì ai margini il nesso tra sforzo bellico e finanza dello Stato. Abbacinata dagli “avvenimenti” corsi tra il 24 ottobre  e il 9 novembre si soffermò su una pletora di eventi senza coglierne né la cornice, né molte figure eminenti. Rimasero fuori della sua portata il Paese, le istituzioni politiche, il governo, se non per cenni, anche perché la maggior parte dei documenti necessari all’inquadramento storico esauriente era e a lungo sarebbe rimasta coperta da segreto di Stato.

Il  decreto istitutivo non fissò una scadenza ai lavori della Commissione, ma era implicito che dovesse concludere prima possibile, anche perché altri dibattiti ormai premevano e di portata molto più rilevante. Fu il caso della Inchiesta parlamentare sulle spese di guerra (1910-1923). Sui  suoi lavori  si riverberano fatalmente sia l’andamento della guerra (la lunga stasi in vista dell’offensiva finale), sia  il dibattito politico, ai margini del Parlamento e nella pubblicistica.

La Commissione fu presieduta  da Carlo Caneva (Udine, 1845- Roma, 1922), generale d’esercito, grado supremo della gerarchia militare, conferitogli il 19 settembre 1912, quando venne esonerato dal comando della guerra contro l’impero turco per la sovranità su Tripolitania e Cirenaica, esercitato con energia non cesariana, e fu sostituito con i generali Ottavio Ragni per la Tripolitania e Ottavio Briccola per la Cirenaica. A riposo  dal maggio 1914, nella grande guerra Caneva non fu richiamato in servizio proprio perché  superiore in grado rispetto al Capo di Stato Maggiore  generale Luigi Cadorna, succeduto al grande  Alberto Pollio, deceduto improvvisamente proprio quando l’Italia ne aveva più bisogno. Vicepresidente della Commissione fu nominato il vice-ammiraglio Felice Napoleone Canevaro (Lima di Perù, 1838 – Venezia, 1926), senatore,  già ministro della Marina per poche settimane nell’ultimo governo Rudinì ( 1-29 giugno 1898) e degli Esteri nel primo governo Pelloux (1898-1899). Gli altri membri furono il tenente generale Ottavio Ragni;  l’avvocato generale militare presso  il tribunale supremo di Guerra e Marina, Donato Antonio Tommasi; il senatore  Paolo Emilio Bensa (Genova, 1858-1928), giurista insigne; Alessandro Stoppato ( Cavarzere,1858 – Milano, 1931), deputato dal 1904, artefice con Ludovico Mortara del  codice di procedura penale, nominato senatore l’8 ottobre 1920, cioè a Inchiesta conclusa; e Orazio Raimondo (San Remo, 18751920), avvocato di chiara fama, socialista, nipote di Giuseppe Biancheri, ministro e decano della Camera dei deputati e ben diciotto volte suo presidente. Massone  nella loggia “Giuseppe Mazzini” di  San Remo dal 1900, sindaco della  sua città, promotore del Casinò e deputato dal 1913, Raimondo era in eccellenti rapporti con il generale Luigi Capello. Il 17 maggio 1918 il vice-ammiraglio in ausiliaria Alberto De Orestis conte di Castelnuovo sostituì Canevaro, dimissionario per motivi di salute (che forse però non erano gravissimi, se, come detto, morì otto anni dopo).

Quasi incalzata dall’attesa del suo esito, la Commissione tenne 159 sedute tra il febbraio e l’ottobre 1918: 39 a Roma, 110 tra Mantova, Brescia (22) e “zona di guerra” e 8 in altri luoghi, con ritmo più intenso  tra maggio e luglio, ovvero nelle settimane prima e dopo la battaglia  del Solstizio che confermò la tenuta dell’Esercito italiano ed evidenziò i limiti di quello austro-ungarico, prossimo all’esaurimento. Dopo altre 5 sedute a Brescia nel novembre 1918, i lavori proseguirono a  Roma, per  un insieme di 241 sedute complessive.  La Commissione acquisì 2310 documenti e 1012 testimonianze di militari e civili, di 10  capi di Stato Maggiore e comandanti  di Armata, 36  comandanti di Corpo d’Armata, 40 comandanti di Divisione, 87 maggior generali e 82 colonnelli…. Accumulò e produsse una massa imponente di carte poi confluite nel fondo H4 conservato dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito: un insieme di  86 buste,7 registri e 5 schedari,  e altre buste di carte non ordinate concernenti la pubblicazione della Relazione e gli aspetti amministrativi dei lavori. Il loro inventario sommario venne redatto il 14 giugno 1943 nella sala dell’Archivio del Museo del Duomo di Orvieto, ad apertura delle sette casse in cui erano conservate. Se la Relazione è divenuta una rarità bibliografica, le carte dalle quali venne distillata non sono mai state oggetto di studio organico. Rimangono senza risposta molti quesiti sulla genesi dei suoi volumi, a cominciare dalla già accennata omessa pubblicazione  dell’ “Ordine di battaglia delle artiglierie alla data del 24 ottobre 1917”, previsto nell’indice delle tavole  del vol. II (n. 18, presumibilmente tra le pp.96 e 96).

Con l’offensiva di Vittorio (il 24 ottobre 1918, esattamente un anno dopo lo sfondamento del fronte della Seconda Armata) e con la resa austro-ungarica  del 3-4 novembre 1918, preludio a quella germanica dell’11 novembre, sotto il profilo logico-cronologico la ratio della Commissione d’inchiesta  risultò superata dagli eventi.  Caporetto ormai apparteneva alla storia. Sennonché, contro le più ragionevoli aspettative, all’indomani della vittoria le polemiche retrospettive sulla conduzione della guerra divennero ancora più aspre che nel suo corso e si congiunsero direttamente con i due cardini della politica estera e interna dell’Italia postbellica: le trattative di pace da un canto e, dall’altro, la lotta partitica in vista del rinnovo della Camera, eletta nell’ottobre 1913 e prorogata dalla guerra oltre la sua normale scadenza, come per altro i consigli provinciali e comunali in massima parte eletti nel 1914 e rinnovati solo nel 1920.

Militari e politici

Caporetto suona come una maledizione. Sin dal 1859 Friedrich Engels, autore con Karl Marx del Manifesto del Partito comunista, previde che proprio in quella conca gli austriaci avrebbero fatto irruzione in una futura guerra italo-asburgica. Tra il 23 e il 26 ottobre 1917, dopo due anni e cinque mesi di una guerra in cui era entrata convinta che durasse poche settimane, l’Italia vi venne pesantemente battuta. Gli austro-germanici lanciarono un’offensiva (da tempo prevista dal Comando Supremo, ma non nei tempi e nei modi nei quali fu attuata) che inflisse all’esercito italiano perdite ingenti:  30.000 morti, 300.000 prigionieri, 300.000 dispersi, 5.000 pezzi d’artiglieria e magazzini stracolmi, caduti in mano nemica.

Mentre gli italiani arretravano verso il Tagliamento, il 30 ottobre il presidente del Consiglio, Paolo Boselli, fu sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, già ministro dell’Interno, da Cadorna accusato di non aver sorretto l’esercito quant’era necessario. Due anni dopo ad Angelo Gatti  Orlando confidò ricordi del clima drammatico nel quale il Paese viveva.  “Orlando – annotò Gatti in un appunto sinora inedito  – mi dice che a un certo momento della guerra, i rappresentanti delle provincie della Sicilia, presieduti dal De Felice (Giuseppe De Felice Giuffrida, già socialista, massone NdA), si presentarono a lui, dicendogli ‘Noi bastiamo a noi. Non chiederemo nulla a voi per mangiare, ecc. Ma, in compenso, voi non ci chiederete nulla. Penseremo noi a noi stessi’. Orlando ricusò, perché disse che la Sicilia è parte d’Italia e non deve separarsi e stare a sé. Ma è certo che la Sicilia, paese agricolo per eccellenza, nella guerra stette bene – relativamente- : non mancò mai di grano. La Sicilia ne produce l’80%. In generale l’Italia meridionale, paese agricolo, ebbe da mangiare meglio dell’Italia settentrionale”.

Pressato dagli Alleati (britannici, francesi, statunitensi), il nuovo governo sostituì il comandante supremo Luigi Cadorna (che nell’improvvido bollettino di guerra aveva addebitato la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2^ armata, vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico (corsivo dell’autore)”: con sconcerto del re e subito corretto dal governo) con Armando Diaz, affiancato dai vicecomandanti Gaetano Giardino e  Pietro Badoglio. L’8 novembre  a Peschiera Vittorio Emanuele III assicurò che l’Italia avrebbe reagito e così avvenne. Il Paese si risollevò e un anno dopo vinse; ma durante la riscossa le critiche nei confronti dei militari continuarono aspre.

Anche per quella pressione le risultanze della Commissione furono severe. Cadorna fu tacciato di “applicare esecuzioni sommarie non sempre giustificate” e di gravi arbitrii. Il generale Luigi Capello, comandante della Seconda Armata, quella che aveva ceduto, fu bollato per “prodigalità di sangue sproporzionata ai risultati”: un “macellaio”.  La Commissione insinuò che papa Benedetto XV avesse sabotato la resistenza dell’Italia. Esaltò invece il nemico, “geniale, arditissimo”.

Nell’insieme la Commissione mise alla gogna gli Alti Comandi e scaricò sui militari l’ira di neutralisti e interventisti delusi. Mentre il quotidiano socialista “Avanti!” poneva sotto accusa “la borghesia”, il “Corriere della Sera” replicava che “chi è contro la guerra è contro la Patria” e  Giovanni Preziosi, autore di La Germania alla conquista dell’Italia,  denunciava la “degenerazione parlamentare”.

Non risponde affatto al vero che la Commissione sia stata reticente  sui modi nei quali venne assicurata o ripristinata la disciplina delle truppe e che solo opere degli Anni Settanta  dello scorso Novecento, quali Plotoni di esecuzione a cura di Enzo Forcella e di Alberto Monticone, abbiano fatto luce su processi, pesanti condanne, esecuzioni sommarie, decimazioni e sugli “effetti collaterali” della guerra, in specie per i profughi delle terre evacuate da cittadini italiani nella ritirata dall’Isonzo al Piave. Di tutto, e di molto altro, già aveva scritto proprio la Relazione approntata “sotto l’assillo di altrui ansiosissima impellente pressione”, dal colonnello Fulvio Zugaro, un militare e studioso di grandissima levatura morale e intellettuale, colonnello di Stato Maggiore, poi autore  di studi rigorosi quali  Il costo della guerra italiana. Contributo alla storia economica della guerra mondiale (Roma, Stabilimento tipografico per l’amministrazione della guerra, 1921).

La Relazione semmai lascia a volte sconcertati perché pubblica “testimonianze” senza contraddittorio: “opinioni” che dalle sue pagine passarono quali “sentenze” nella pubblicistica, in certa storiografia e nella vulgata sulla grande guerra. Le sezioni sul Governo degli uomini  e sulle Cause estranee alla milizia ridondano di capitoli e paragrafi che, appena noti, suscitarono indignazione. A parte la valutazione di Cadorna quale “un tipo pronunziatissimo, qual altro mai, di egocentrico” , ma proprio perciò indenne dall’influenza di Giovanni Semeria, il paragrafo su Luigi Capello è aperto con la denuncia della sua fama di “prodigalità di sangue” acquistata sin dalla Libia, “tanto che il cimitero di Derna veniva ordinariamente denominato, per crudele ironia, Villa Capello”. Sul suo stato di salute (nefrite emorragica?) e sulle  possibili ripercussioni della malattia sull’esercizio delle funzioni la Relazione spende molte pagine. Da un canto la documenta, dall’altro la mette in dubbio, citando il colonnello medico che il 25 ottobre lo vide “completamente rimesso”. Si dilunga, anzi, sul  diffuso “scetticismo circa la gravità della (sua) indisposizione”, senza pervenire a una conclusione chiara: tanto, però, da mettere in discussione l’effettivo funzionamento della catena di comando Cadorna-Capello e generali di corpo d’armata in sottordine. Esattamente quanto insinuavano i critici più acri della condotta della guerra.

Ma è su altri ufficiali, non di terza fila, che la Relazione supera la soglia del pettegolezzo. E’ il caso del colonnello Giorgio Boccacci, in servizio nel IV Corpo d’Armata, bersaglio di varie e gravi accuse quali l’“espressione di entusiasmi per la civiltà, la coltura e l’organizzazione tedesca, e manifestazione di familiarità con austriacanti, specialmente con un prete sloveno” e molto altro ancora, tanto da gettare indirettamente discredito sul comandante del IV Corpo d’Armata, Alberto  Cavaciocchi.

La Relazione passa inoltre in rassegna promozioni discutibili, soprattutto nella “armata dell’industria di guerra” come – essa scrive –   era malignamente detta quella comandata da Capello. Sull’ampio margine della pagina a tale riguardo Gatti aggiunse la propria meraviglia per l’avanzamento del generale Emanuele Pugliese (comandante della Divisione militare di Roma nel 1922 e autore del giustamente famoso Io difendo l’Esercito, 1945), asceso  in pochi mesi da tenente colonnello a generale e insinua: “Cavallero non ha mai visto un soldato. Gazzera idem: ed hanno avuto due promozioni a sceltissimi. Così gli altri. Pintor (che andò per 15 giorni a comandare un reggimento d’artiglieri), ecc. Ma lo scherzo che fecero per loro promozione a colonnello Cavallero, Gazzera, Pintor, è rimasto celebre in tutto l’esercito come ‘furto con destrezza’ ”. Di quel clima dette conto un generale che alla Commissione (corriva a pubblicare) recitò una canzonetta napoletana nata a commento del motto secondo il quale “il siluro è un’arma offensiva in mare e difensiva in terra”: “Nu fesso è partito, nu fesso è arrivato;/sarà silurato/senza pietà”. Secondo un’annotazione appuntata da Gatti  alla pag. 318 della sua copia, se non tutte, molte promozioni “strane” e  ricompense andavano attribuite all’intervento di “note sette”, sottolineato due volte.

La Relazione fu altrettanto esplicita sul “regime disciplinare”: processi, punizioni, condanne a morte decretate ed eseguite, decimazioni e ammutinamenti (fu il caso della Brigata “Catanzaro”, “domata con l’intervento della cavalleria e delle automitragliatrici”). Né tace sul probabile  dramma di quanti avevano avuto la sorte “di far parte del fatale picchetto di esecuzione” e la sera si vedevano  proporre per distrazione il “teatrino del soldato”.

Nell’ambito delle sue centinaia di pagine, la Relazione riservò poche righe a renitenze (48.000) e  disertori latitanti (56.000): nell’insieme corrispondenti a “una intera armata fuori legge, pericolosa per la sicurezza e micidiale per la resistenza morale di fronte al prolungarsi della guerra”. Era quanto aveva denunciato Cadorna, era la prova che il Paese non seguiva perché il governo stava spettatore muto. Ma la Commissione non poteva dirlo. Le era più facile raccattare dicerie e metterle agli atti.

Commentata passo passo da vari periodici, soprattutto espressione dell’interventismo democratico (“Il Dovere” di Giulio Douhet, “Il Secolo”,  “L’Unità”…), oltre che dai quotidiani, la Relazione fu discussa animatamente alla Camera dei deputati il 6 e il 9-13 settembre, quando questa ormai stava per essere sciolta. Suggellata con un ordine del giorno di plauso all’Esercito, essa venne messa agli atti  dalla “Marcia di Ronchi” intrapresa il 12 settembre  da Gabriele d’Annunzio alla testa di legionari debitamente organizzati e coronata con l’occupazione di Fiume e la proclamazione della Reggenza. A differenza di quanto taluno ha asserito, neppure sulla base di quella impresa si può concludere che, vittorioso nella Grande Guerra. l’Esercito fosse ormai una “superpolizia”.  I legionari fiumani, infatti, rivendicarono il compenso per il sacrificio della nazione e gettarono le fondamenta dell’annessione di Fiume all’Italia, come riconobbe Giolitti nel 1924: quod erat in votis. (3) Fu anche la risposta al fango gettato per mesi sulle Forze Armate e specialmente sull’Esercito anche col pretesto dell’Inchiesta. Il governo cercò di allontanare da sé la certificazione della propria impotenza e della crisi del Parlamento. A tale scopo deliberò il collocamento a riposo di Cadorna, Porro, Capello, Cavaciocchi e mise a disposizione Montuori, Bongiovanni, Boccacci…

La pagina più amara e sconcertante della Relazione è però un’altra: la denuncia della mancata difesa della popolazione civile nel corso della ritirata. Nel 1919-20 la Commissione non poteva certo immaginare la futura disputa sull’Otto settembre 1943. Però le sue parole ne costituiscono un’anticipazione, non ancora rilevata dalla storiografia: “il Comando Supremo – essa sentenziò –  si contenne male astenendosi dal dare alle popolazioni un avviso prudenziale di sgombero, che riteneva possibile solo per epoca ancora lontana (…). Si sarebbe potuto evitare  che le autorità civili  locali rimanessero all’oscuro sulla realtà della situazione, e venissero lasciate senza istruzioni sul da farsi nei riguardi di sé medesime e degli abitanti, nonché privi della piccolissima scorta di mezzi di trasporto sufficienti per i documenti ufficiali più delicati (…). Non risulta giustificato  il silenzio che l’autorità militare ritenne di dover mantenere  con l’autorità civile circa la vera situazione…”.    Quella conclusione rimane lugubre lapide sulla cesura tra due Italie che per tanti mesi avevano coabitato nella “zona di guerra”, senza mai raggiungere l’idem sentire. Ma per due motivi riesce impossibile sottoscriverla a occhi bendati. In primo luogo non si comprende quando e con quali conseguenze generali il Comando Supremo avrebbe dovuto allertare la popolazione delle conseguenze di un possibile attacco vittorioso nemico (quanto meno magistrati, amministratori locali, provveditori agli studi, enti economici, banche…:la dirigenza insomma). Qualunque “avviso” di quel genere sarebbe immediatamente dilagato, suscitando sconforto non solo tra i civili ma anche, di rimbalzo, nelle file dell’esercito e avrebbe dato al nemico la percezione di un’Italia allo sbando prima ancora della prova. In secondo luogo, non toccava solo alle Forze Armate, ma anzitutto al governo prevedere le possibili ripercussioni di un’offensiva nemica vittoriosa in profondità e predisporre i piani della eventuale evacuazione della popolazione (o della sua parte più vulnerabile) sotto l’incalzare delle truppe austro-germaniche.

Anche con quelle parole la Commissione  scaricò sui militari le responsabilità dell’intervento in guerra senza adeguata preparazione e, ancor più, senza i mezzi per provvedere non solo alla macchina bellica ma anche alla popolazione civile.

Lo capì a fondo Angelo Gatti, uno dei più acuti “osservatori” e studiosi della guerra sin dalla conflagrazione e dell’azione del governo sin dall’intervento, deliberato in sede politica, senza previa verifica della preparazione effettiva, come per altro ricordato in molti passi della non sempre felice Relazione.

I commenti dello storico Angelo Gatti sull’Inchiesta

Tra i primi a condurre un’indagine non solo “privata” sulle cause generali e prossime della rotta fu Angelo Gatti.

Nel “Diario”, in parte pubblicato nel 1964 da Alberto Monticone (Caporetto. Dal diario di guerra inedito, maggio-dicembre 1917, Bologna, il Mulino) Gatti annotò che  sino alle 19 del 24 ottobre  il Comando Supremo non aveva alcuna cognizione degli eventi in corso, tanto che il bollettino di guerra della giornata recitava: “Vengano pure (austro-ungarici e tedeschi, il cui apporto era valutato in nove divisioni NdA), noi li attendiamo saldi e ben preparati”. Perciò andò tranquillamente a pranzo. Solo alle 22 , tornato “per pura curiosità” al Comando, constatò che gli ufficiali presenti (Porro, Ferrero, Pintor, Cavallero, Gazzera, Sormani, Gallarati, Leone) avevano le prime informazioni sull’avanzata del nemico, penetrato con una marcia di 22 chilometri per monti difficilissimi: “I nostri se li sono visti arrivare alle spalle. Il IV corpo non  ha resistito nemmeno un minuto. Il XXVII è stato anch’esso superato subito sulla sinistra (…)” Cadorna si era ritirato per prendere una decisione. “Sentii parlare di Sédan italiana. Il Capo ha detto che ritirerebbe tutto sul Tagliamento. La cosa è mostruosa ed inconcepibile”.

Dopo la Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria a Modena e una prestigiosa carriera, docente alla Scuola di Guerra di Torino accanto a Costanzo Rinaudo, collaboratore della “Gazzetta del Popolo” e del “Corriere della Sera”, dopo uffici con i generali Cantore e Giardino all’inizio del 1917, raggiunto il grado di colonnello Gatti venne chiamato da Cadorna a ordinare il materiale necessario per la storia della guerra: una posizione privilegiata per assistere agli eventi e conoscere personalità di spicco. Quando Cadorna venne sostituito con Armando Diaz e inviato a Versailles, Gatti lo seguì. I suoi ricordi di quella stagione furono pubblicati da suo fratello, Carlo, musicologo insigne, in Un italiano a Versailles: dicembre 1917-febbraio 1918 (1958).

A lui si debbono anche saggi nei quali indagine storiografica e penetrazione psicologica, acume di biografo e percezione dei movimenti profondi si uniscono con risultati durevoli (Uomini e folle di guerra, 1921;Uomini e folle rappresentative, 1923). Celebre fu la “Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo” da lui diretta per Mondadori: un’impresa di vasto e durevole successo, tuttora di riferimento per serietà d’impianto e molteplicità di apporti italiani e stranieri. Suddivisa in quattro sezioni la Collezione comprese opere di storici e politici (Federzoni, Solmi, Vercesi…), militari (Cadorna, Capello, Giardino, Porro…), economisti (Prato, Prezzolini…) e memorialisti (De Rossi, Ojetti, Valori…)..

Dalle carte di Gatti, conservate nell’Archivio storico del Comune di Asti, si coglie la complessità della sua personalità. Anche a lui si attaglia la definizione data del generale Adriano Alberti, capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, a lungo studiato da Oreste Bovio: il più storico tra i militari e il più militare tra gli storici. Inediti rimangono non solo molti materiali raccolti per approntare le opere poi pubblicate (incluse parecchie  interviste a protagonisti dell’epoca), ma anche le sue riflessioni sulla guerra, sulla crisi dell’estate-autunno 1917 e sulla Commissione d’inchiesta.

Per Gatti  la “rotta di Caporetto” ebbe, si, cause specifiche, da individuare e spiegare nel quadro dei fatti militari. Le sue motivazioni più vere e profonde vanno però cercate nella storia politica, nella biografia del giovane Stato i cui nodi irrisolti essa rivelò con la rude franchezza dei fatti d’arme. Il suo pensiero emerge dalle riflessioni annotate sulla copia della Relazione in suo possesso (poi acquisita e messa a disposizione degli studiosi dal generale Luigi Gratton, autore del documentato Armando Diaz, Duca della Vittoria. Da Caporetto a Vittorio Veneto, Foggia, Bastogi, 2001). Gli appunti, vergati con mano sicura, talora vibrante per l’indignazione che lo animava, ribadiscono con maggior forza quanto via via Gatti aveva confidato al “diario”, ma talora se ne discostano nettamente. Essi meritano attenzione per cogliere il travaglio non solo suo ma di chi in guerra aveva pensato e  ripensava la guerra.

Ne risulta particolarmente discusso Pietro Badoglio, comandante del XXVII Corpo d’Armata, schierato nell’alta valle dell’Isonzo, il punto più avanzato e vulnerabile della Seconda Armata. Da lì il nemico poteva passare e tutto travolgere. Ma lì esso poteva essere attratto e totalmente disfatto. Quello era il teatro. I fanti nemici silenziosi e veloci all’attacco, previo bombardamento e uso dei gas. Gli artiglieri italiani altrettanto silenti, in attesa. Badoglio disponeva di 20.000 fucili, 464 mitragliatori e 454 pezzi di artiglieria, nessuno dei quali schierati a riserva sulla sinistra dell’Isonzo. L’ordine   impartito da Badoglio il 22 ottobre alle quattro divisioni di fanteria fu netto: quando attaccata, resistere sino all’ultimo sulle posizioni assegnate. Le artiglierie non dovevano rispondere al devastante fuoco nemico di preparazione, bensì attenderne l’avanzata per annientarlo: una direttiva in linea con quelle del Comando d’Armata, approvate dallo stesso Comando Supremo. Nella sua magistrale opera  sulle cause militari di Caporetto il generale Adriano Alberti ha insistito sul ritardo dell’impiego della contro-preparazione da parte dell’artiglieria italiana. Sin dalla Relazione però emerge che  essa era applicata ma solo se e quando possibile, perché il fuoco doveva essere centellinato. I proiettili costavano e del loro consumo i comandanti dovevano rendere analiticamente conto. Capello ripeteva che la guerra non si fa come si può ma come si deve. Però in quelle condizioni era davvero difficile farla bene.

Il generale Luigi Capello, comandante della Seconda Armata (quasi un milione di uomini), rimosso dopo il disastro, dichiarò alla Commissione d’inchiesta che il XXVII Corpo d’Armata, cioè Badoglio, “doveva  provvedere alla difesa a monte fino all’Isonzo; ma ciò non fu fatto né con l’occupazione effettiva con forze sufficienti della linea Plezia-Isonzo, né con una energica e tempestiva contromanovra”. Anziché bloccare sul nascere l’offensiva austro-germanica, frenarla e colpirla come da tempo stabilito, l’artiglieria tacque. Il suo silenzio risultò subito inspiegabile, tanto più che da giorni, grazie alle rivelazioni di ufficiali disertori dalle file austro-ungariche, soprattutto cechi, gli alti comandi italiani conoscevano nel dettaglio i piani nemici, inclusa l’ora d’inizio del bombardamento (le 2 del mattino del 24 ottobre) e i suoi possibili sviluppi. E’ quanto confermato  anche da vari documenti pubblicati in Gian Luca Badoglio, Il Memoriale di Pietro Badoglio su Caporetto (Udine, Gaspari, 2000), che ricorda quanto scrisse Luigi Cadorna: “Il tiro di contropreparazione non fu eseguito”.

Ma, come già si è detto, proprio dopo la catastrofe di Caporetto Badoglio venne nominato, come Gaetano Giardino, vice del nuovo comandante Supremo, Armando Diaz in circostanze narrate da Ugo Ojetti ad Angelo Gatti in due conversazioni del 18 e 21 novembre 1921, pubblicate da Monticone in Caporetto (pp. 452-58). Nel viaggio in treno da Rapallo a Peschiera via Genova-Alessandria, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, il ministro degli Esteri  Sidney Sonnino e Leonida Bissolati convennero di aggiungere Pietro Badoglio, quale vice, al comandante supremo Armando Diaz e al generale Gaetano Giardino, già designato. La decisione venne presa su suggerimento di Ojetti, che ne tessé l’elogio e convinse i presenti, del tutto disinformati sugli alti gradi militari. Egli stesso, però, ne ricordava vagamente il nome. Celebrato per la conquista del Sabotino che poi gli valse il titolo di marchese), Badoglio  percorse una brillante carriera durante il governo Mussolini, comandò la fase finale e vittoriosa della guerra d’Etiopia, fu creato duca di Addis Abeba.  Maresciallo d’Italia,  rimase al Comando Supremo sino alla disastrosa campagna contro la Grecia (ottobre 1940).  Quando impose le dimissioni a Benito Mussolini, con stupore di molti Vittorio Emanuele III incaricò proprio lui di presiedere il governo incaricato di traghettare l’Italia oltre la guerra.

L’autodifesa  di Badoglio dinnanzi alla Commissione e le dichiarazioni di altri comandanti sono pubblicate nei paragrafi 162-163 della Relazione.

Negli appunti a margine della propria copia Gatti annotò commenti severi: “Ecco la verità (….) il gen. Badoglio voleva fare la difesa al passo Zagradan, Kolovrat (…). Tutto questo dimostra in Badoglio la più grande, la più profonda ignoranza di ciò che doveva fare e di ciò che stava per accadere. La Commissione, stampando le deposizioni Capello, Medici (Capo di Stato Maggiore della 19^ Divisione NdA), ha dato la patente di asino al Badoglio senza accorgersene. O se ne è accorta? A volte viene il dubbio che, messa tra quel che vorrebbe dire e ciò che non può dire, espone le cose così scioccamente, da far capire che fa la stupida per partito preso”.

Invero, mentre pronunziò giudizi diretti e indiretti nettamente negativi su Cadorna, Capello, Cavaciocchi e altri, nella Relazione la Commissione elogiò Badoglio più di qualunque altro. Nel  vol I, Cenno schematico degli avvenimenti, asserì infatti che il 28 ottobre “avuta notizia che il nemico, sfondata la fronte del VII Corpo (Bongiovanni) marcia(va) su Udine, lancia al contrattacco due battaglioni d’assalto (…). Lo stesso comandante del corpo d’armata (Badoglio NdA) messosi alla testa di un gruppo composto di due battaglioni d’assalto: di uno squadrone e di due batterie a cavallo, percorrendo la strada di circonvallazione di Udine battuta da pattuglie nemiche già penetrate nella città, si porta al bivio della strada di Martignacco per proteggere l’incolonnamento delle truppe in ritirata e poi coprirle come estrema retroguardia”(pp. 208-209).

Inoltre, nel volume su Le cause e le responsabilità degli avvenimenti la Commissione contrappose inoltre alla pochezza del generale Carlo Porro, sottocapo di Stato Maggiore (“non rispondente  alla dignità del grado ed ancor meno all’alta reputazione sin allora goduta”), la “altissima funzione di vero Capo di Stato Maggiore (accanto al generale Diaz, capo effettivo dell’esercito) esercitata nel nuovo Comando supremo con inestimabile vantaggio del Paese dal generale Badoglio, a cui tutti gli uffici indistintamente fecero capo, ricevendone unità di indirizzo e di impulso”. Un giudizio così altisonante aiuta a comprendere perché la Relazione non abbia pubblicato gli addebiti  nei suoi confronti: le famose “tredici pagine”. Molti studiosi ripetono che Badoglio venne “salvato” grazie a Orazio Raimondo, su direttiva  del Grande Oriente d’Italia, di cui era affiliato. E’ una diceria ripetuta sulla scorta delle asserzioni di Giuseppe Paratore (“Nuova Antologia”, fascicolo 1916, agosto 1960). Essa però manca di prove documentate e convincenti.  In primo luogo non è mai stata assodata l’iniziazione di Badoglio, né esiste alcuna traccia di influenze specifiche. Raimondo, infine, per quanto prestigioso, non aveva titoli per prevaricare sui componenti militari della Commissione, i quali decisero perché Badoglio era Vicecomandante Supremo. Metterlo in discussione significava compromettere chi ne aveva voluto o comunque avallata la nomina (il governo Orlando, Armando Diaz, il Re): una operazione dissennata durante a conflitto in corso e improponibile a vittoria conseguita.

All’opposto, i giudizi di Gatti sulla condotta della Commissione e sull’estensore della relazione, il colonnello Fulvio Zugaro, sono sferzanti. Sul margine di pag. 18 il generale li sintetizzò  con l’ironico oracolo  “ibis  redibis non  morieris in bello”; in altre pagine si leggono beffardi commenti: “si, no, ma…”. Secondo Gatti il governo (sia quello presieduto da Antonio Salandra dall’intervento  alla spedizione punitiva austriaca del maggio 1916, sia  del successore, l’anziano e debole Paolo Boselli) fu assolto dalla Commissione “per insufficienza di prove” dall’addebito di non aver predisposto seriamente la guerra nei dieci mesi della neutralità, culminati con il cambio di alleanze d’inizio maggio 1915, quando il ministero Salandra denunciò l’ alleanza con Vienna e Berlino (stipulata nel remoto 1882 e rinnovata nel 1912) e si avviò alla parziale applicazione del Patto di Londra sottoscritto il 26 aprile 1915.  Secondo Gatti, i “politici” si lavarono le mani delle loro gravissime responsabilità. La loro condotta nei confronti di Luigi Cadorna,  Capo di Stato Maggiore e poi Comandante Supremo, può essere riassunta in una frase: “Prenditi l’esercito quale il paese te l’ha fatto, e vinci la guerra”.  Il suo rovello era parallelo a quello vissuto dal generale Domenico Grandi, ministro della Guerra nel 1914, che si domandò se il   Paese avrebbe seguito il governo nella guerra. Il Comando Supremo – annotò Gatti – non poteva “mutare tutto solo con l’intervento”, a cominciare, per esempio, dalla formazione degli ufficiali, che richiedeva rapido adeguamento agli scenari aperti dalla conflagrazione europea.

E’ però sulle responsabilità di Badoglio e sulle strane omissioni della Commissione che Gatti insiste con forza: “Sembra impossibile che ci sia uno, nella Commissione, che abbia fatto il soldato”.  Il colonnello forse non ricordava di aver scritto nel “diario” , sotto la data 27 giugno 1917, “Ah, perché non c’è un comando dove ci sia un posto per un Badoglio, per un Pennella, per un Grazioli, per un Di Giorgio, per chi ha dato prova di essere mente pensante e organizzatrice?”

Quando lesse la Relazione, il suo giudizio era del tutto mutato: “Quello che Capello voleva fare con questo piano (più largo) – vale a dire tenersi pronti per una nuova offensiva, nella certezza che il nemico non avrebbe attaccato, o per una controffensiva massiccia contro un assalitore indebolito nella sua stessa avanzata, NdA  -, Badoglio voleva fare per conto suo in piccolo col suo C(orpo) d’A(rmata). Allora il ‘binomio perfetto’ come lo chiamava Ojetti andava d’accordo”. Gatti non si nasconde i limiti di Cadorna. Non si spinge a condividere l’opinione di Orlando, secondo il quale il Comandante Supremo era affetto dalla “malattia comune ai tiranni” (“tanto più forte quanto più si invecchia: è la forma di dementia ex omnipotentia”), né ritorna sulle sue spigolosità caratteriali, ma ne deplora la  condiscendenza, anzi la “debolezza” verso Badoglio, “causa prima militare della sconfitta”. Avanza però anche il sospetto che la Commissione “abbia voluto giocare un brutto tiro al Badoglio”, lasciando cadere qualche inciso qui e là nella Relazione  per far intravvedere “il marcio che c’è in Danimarca”: cioè l’errata percezione dell’offensiva austro-germanica da parte sua, la mancata preparazione della difesa e della controffensiva e l’incredibile vuoto  che si aprì al vertice  proprio a ridosso del 24 ottobre 1917 con l’assenza di Luigi  Capello, ammalato, e di Badoglio, inspiegatamente irreperibile nelle ore decisive. Anche dopo l’inizio dell’offensiva, preparata dagli austriaci con un cannoneggiamento senza precedenti di bombe a gas asfissiante, i comandi della zona di crisi non instaurarono efficienti collegamenti, senza i quali, conclude Gatti, “non si fa niente in battaglia” (p.223). Un centinaio di pagine dopo, tutte commentate con frasi sempre più amare, sembra che la  penna gli  cada di mano. Proprio le pagine più dense di accuse contro l’Esercito e i suoi comandanti non recano traccia di suoi commenti. Troppo dolorose.  Forse  proprio dalla loro lettura ebbero impulso le opere degli anni seguenti: la risposta più eloquente al fastello di giudizi negativi recepiti dalla Relazione.

La personalità  di Angelo Gatti ( Capua, 9 gennaio 1875- Milano, 19 giugno 1948) è più complessa di quanto sinora sia stato scritto. Approfondirla significa anche comprendere meglio l’eco suscitata dal lavoro della Commissione in ambienti altamente qualificati e nella preparazione di una nuova lettura storiografica della partecipazione alla guerra e del decennio seguente. Su quanto vide e pensò nel corso della guerra non pubblicò nulla di propriamente suo né all’indomani della ritirata al Piave, né quando comparvero gli Atti dell’ Inchiesta. Perché non entrò direttamente nella disputa?

Egli, invero, era depositario di un segreto “alto”. Si era affacciato su un “mondo”, forse pensando che non ne rimanesse traccia. Il 28 giugno 1917 venne registrato col numero 49.950 nella matricola  degli affiliati al Grande Oriente d’Italia. Che si tratti proprio di lui non vi sono dubbi: nome, luogo di nascita, “condizione” sono esattamente i suoi. (4)

(NOTA N. 4)

La data dell’iscrizione nella “matricola”, corrispondente alla registrazione del brevetto, può non corrispondere al giorno del “giuramento d’obbedienza” prestato e sicuramente segue l’iter, nel suo caso attuata con le procedure previste per l’iniziazione nella famosa loggia “Propaganda massonica”: “a vista”, o “sulla spada” dal gran maestro o suo delegato. Dal Diario consta che il 28 giugno Gatti era al Comando Supremo. Il Gran Maestro del Grande Oriente era a  Parigi. Chi lo iniziò? Ma venne davvero iniziato  se proprio quel giorno  annotava maligne voci sulla Massoneria. O le annotava per schermirsi a futura memoria?

(FINE NOTA 4)

Il 28 giugno è una data emblematica. Quel giorno, esattamente tre anni dopo l’assassinio di Sarajevo che innescò la conflagrazione europea, si aprì a Parigi il Congresso delle massonerie dei Paesi dell’Intesa e neutrali. Non intervennero la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, né le massonerie di Scozia, Irlanda, Olanda e di altri Paesi che ne intuirono la valenza preminentemente francese.Il Congresso venne ignorato dalle Grandi Logge degli Stati Uniti d’America. Il  Grande Oriente partecipò con i suoi dignitari supremi: Ettore Ferrari, gran maestro  dal febbraio 1904, i suoi stretti collaboratori, tra i quali Alberto Beneduce, ed Ernesto Nathan, gran maestro dal 1896 al novembre 1903 e già sindaco di Roma dal 1907 al 1914, che vi si presentò in divisa di colonnello dell’Esercito.

Perché Gatti giurò obbedienza al Grande Oriente? Nel Diario avanzò ripetutamente riserve nei confronti di massoni, sia militari, sia del loro seguito. Per esempio, proprio sotto la data 28 giugno 1917 annotò: “Ojetti è, indiscutibilmente, legato al Capello. E’ legato perché sono massoni?”. Non era un cenno benevolo. Su Capello, che non faceva mistero della sua appartenenza al Grande Oriente, il 7 agosto annotò il pettegolezzo di Giovanni Garruccio, secondo il quale il comandante della Seconda Armata mentre passeggiava a Cuneo con la moglie era stato salutato da una donna che gli spinse contro due bambini ai quali disse  di salutare il padre e a Torino aveva tali debiti “che nessun sarto gli volle fare la tenuta da generale”. Sotto la data del 10 settembre Gatti scrisse  che  il generale Roberto Bencivenga era stato segnalato come massone a Cadorna, ma questi “superò l’accusa di massoneria, e lo tenne”, benché fosse molto discusso.

Gatti scriveva per sé o per essere letto? I suoi appunti erano un diario o un memoriale? Di certo sappiamo che non li pubblicò sua sponte e che ne manca un’edizione critica.

Nei due anni  precedenti il drammatico ottobre 1917 aveva svolto  conferenze molto impegnative (L’Italia in armiPer l’aspra via alla meta;…), sintetizzabili  nel titolo di una di  esse: Servire. Il giugno 1917 fu un mese decisivo per la guerra. L’Italia era al  bivio. Su quali forze poteva contare lo Stato? Il 4 marzo 1917 in un discorso al teatro Costanzi di Roma Ernesto Nathan enunciò Il dovere presente. Senza mai nominarlo indicò in Vittorio Emanuele III il pilastro portante della nazione. Pochi giorni dopo lo ribadì a Genova, a conclusione della commossa rievocazione di Giuseppe Mazzini. Si delineò dunque lo spartiacque tra chi avrebbe combattuto sino alla vittoria per coronare il Risorgimento e la liberazione delle nazioni in cerca di indipendenza, dei “popoli oppressi”, e chi  no, a cominciare dai socialisti e dai papisti. Il Paese era allo stremo: nella tenaglia di sacrifici ed egoismi.  Nathan si schierò per la lotta contro i pescicani di guerra. Gatti lo seguì. Ma di nascosto da Cadorna.

Il 21 giugno 1917, nel Solstizio d’Estate, egli completò il Promemoria nel quale condensò anni di osservazioni e riflessioni. Vi espose considerazioni su logistica, strategia e tattica. Tenne però per sé l’interrogativo più angoscioso, annotato nel diario: “Andrà? Non andrà questo promemoria?  (…) C’è bisogno di rinnovarci nella guerra: c’è bisogno oggi, dopo 26 mesi di guerra, di ricominciare da capo. E’ necessario inculcare un nuovo spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo: guai se non facciamo così”. Oltre che al Comandante Supremo Gatti ne dette copia al generale Capello, comandante della II Armata, notoriamente affiliato e circondato da confratelli. Perché mai?

Quando Gatti decise di scrivere il Promemoria, Luigi Cadorna aveva a sua volta maturato la meditazione sull’andamento e sulle prospettive della guerra affidandole alle prime tre delle quattro lettere inviate al governo. Il 6 giugno 1917 il Comandante Supremo scrisse accorato ma “con rude franchezza” quanto gli constava sulle “defezioni”, “nuovo frutto della propaganda contro la guerra che si svolge in Sicilia e che ha ridotto l’isola a un covo pericoloso di renitenti e di disertori, i quali, secondo il Ministero della Guerra, superano i 20.000”. Altrettanto avveniva in Toscana, Emilia,  Romagna e nella stessa Lombardia. Toccava all’esecutivo rimediare. Due giorni dopo incalzò: “Il Comando supremo provvede qui, in zona di guerra, a spegnere con rimedi radicali i tentativi e le manifestazioni di carattere antipatriottico e sovversivo, ordinando ai comandi dipendenti che i militari trovati in possesso di circolari e di manifesti incitanti alla diserzione e alla defezione siano senza esitanze colpiti dalle più severe sanzioni; ma occorre che l’opera perseguita nell’interno del Paese dai socialisti (…) sia troncata senz’altro ritardo da energiche ed immediate misure (…) Questo io debbo invocare dal Governo (…)”. Boselli tacque. Il 13 seguente Cadorna tornò pertanto a insistere con una terza lettera: “(…) V. E. rileverà come nel mese scorso siano state pronunziate 111 condanne alla fucilazione e ciò senza tener conto dei numerosi casi nei quali, per necessario immediato esempio, si è dovuto addivenire alla fucilazione (…). Mentre l’assoluta necessità di tener salda la compagine dell’Esercito mi obbliga a reprimere con mezzi estremi ogni atto di indisciplina, sono convinto che spesso, più che coscientemente colpevoli, i soldati ultimamente condannati alla pena capitale erano degli illusi, sobillati da una propaganda sovversiva, le cui fila sono da rintracciarsi nel Paese, e che i veri responsabili sono al sicuro, impuniti”. Il problema non era di ordine pubblico ma politico e di morale  civica: esorbitava dalle competenze del Comando e investiva la responsabilità del governo, incapace di mobilitare il “fronte interno” a sostegno di quello combattente. Anche questa terza lettera rimase inevasa. Come poi Orlando dichiarò a Gatti il 15 giugno 1922 in una intervista sinora inedita, “Boselli aveva paura fisica di Cadorna, così avvenne la questione delle lettere Cadorna, cui Boselli non rispose”. Al colonnello Boselli asserì invece che “ci fu congiura di Orlando contro di lui”, dimenticando che a travolgerlo non furono le sentenze capitali pronunciate in zona di guerra, le decimazioni, l’insurrezione di Torino dell’agosto e neppure la quarta lettera indirizzatagli da Cadorna il 18 agosto, con specifico riferimento all’ammutinamento della brigata “Catanzaro”, sanguinosamente represso, e con una valutazione  generale pessimistica  del malessere: “le cause sono certamente queste: l’influsso deprimente che dal Paese giunge e si propaga nell’esercito; la tolleranza che è largita ai sovversivi di ogni specie ed ha i suoi frutti nelle truppe; talché queste, nella imminenza di una grande offensiva, non sono quali dovrebbero essere, perché risentono tutte le torbide influenze che agitano le masse cittadine e rurali.” Secondo Cadorna, incombeva la lezione dello “sfacelo degli eserciti della Russia, conseguenza dell’assenza di un governo forte  capace: ora io debbo dire che il Governo italiano sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell’esercito: contro la quale è mio dovere protestare con tutte le forze dell’animo”. Superfluo ricordare che anche la quarta lettera fu senza risposta. Boselli rimase alla presidenza e fu travolto, appunto, non dall’impetuosità del Comandante ma dalla “rotta” di Caporetto, che ne impose l’immediata sostituzione, mentre Cadorna rimase in carica sino all’attestamento sulla destra del Piave, il 9 novembre.

Gatti attese trepidante il riscontro del Comandante Supremo. Il 27 giugno incontrò Cadorna, appena rientrato dall’incontro di Saint-Jean de Maurienne con i comandanti alleati. Dal  suo silenzio capì che il Promemoria era caduto nel vuoto, sia per quanto aveva scritto sia per quanto aveva lasciato intendere. Per “ricominciare da capo”, cioè legare meglio Forze Armate e Paese, occorreva dunque costruire su nuove “pietre angolari”.

Mentre Gatti registrava la sua delusione, a Parigi si svolse il già ricordato Congresso delle massonerie dei Paesi dell’Intesa e neutrali. Lì venne messo in discussione l’obiettivo proclamato  e perseguito dagli interventisti: Trento, Trieste, Istria, Dalmazia…a tacere di Fiume, che non figurava tra i compensi destinati all’Italia a vittoria conseguita. Vi si stabilì infatti che i confini postbellici sarebbero stati subordinati a plebisciti nelle zone popolate da etnie diverse, mistilingue. Il principio rispondeva alla dottrina  mazziniana delle nazionalità; era però in netto contrasto con il patto di Londra del 26 aprile 1915, con la propaganda bellica e con un minimo di realismo: in molte regioni sarebbe risultato impossibile tracciare confini ragionevoli, proprio perché nei secoli le genti si erano combattute e intersecate generandovi grovigli inestricabili.

A cospetto del silenzio del Comandante supremo anche Gatti tacque. Continuò a osservare e ad annotare. Venne poi la quarta lettera di Cadorna al governo per la lotta contro il disfattismo. Il presidente del Consiglio, Paolo Boselli, non rispose se non tardi e solo verbalmente.

Gatti  rimase come chi contempla un acquario: vedeva tutto senza poter intervenire. Disse la sua man mano che lesse  gli Atti della Commissione: da storico, quando sentì bisogno di mettere mano ai grandi e subito famosi affreschi sulla guerra, volti a collocare la tragedia nel quadro universale di una umanità sofferente.

Gatti entrò dunque nella loggia “Propaganda” nell’ora del massimo sforzo del “fronte interno” a sostegno degli “interventisti intervenuti”. Erano mesi contrassegnati dalla consapevolezza che l’Italia stava giocando la storia ventura, con due gravi rischi: la sconfitta militare (incombente da quando la rivoluzione in Russia consentì agli austro-germanici di dirottare le loro forze sul fronte occidentale) e la divisione politica interna, con l’inizio di una rovinosa guerra civile appena mezzo secolo dopo l’annessione di Roma al regno d’Italia (5).

(NOTA N. 5)

Tra gli iniziati di maggior spicco di quei mesi vanno ricordati Corrado Tommaso Crudeli, Giulio Dogliotti, Arnaldo Azzi (futuro generale, nemico acerrimo di Casa Savoia), Emanuele Emmanuele, Alessandro Dudan, poi gerarca nazionalfascista, Gaetano Prunas Tola, Mario Tedeschi. Gatti fu tra i sei  militari  iniziati alla “Propaganda” nel 1917 (tra i quali il generale Achille Lordi). Tra altri iniziati di quei mesi vanno ricordati Roberto Farinacci alla “Quinto Curzio” di Cremona, Achille Starace alla “Vedetta d’Italia” di Udine, mentre l’iniziazione di Ugo Cavallero alla “Dante Alighieri” di Torino, con numero di matricola 24.457, risaliva all’8 luglio 1907.

Negli stessi anni altrettanto rilevante fu l’ingresso di militari e di personalità eminenti nella Gran Loggia d’Italia, costituita nel 1910 dal Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato riconosciuto dal “convento” mondiale dei Supremi Consigli. Tra i molti, basti ricordare i nomi di Emanuele Paternò di Sessa, vicepresidente del Senato,  dei deputati Leonardo Bianchi, Dario Cassuto,  Enrico Presutti, del generale Giovanni Ameglio, di Vittorio Valletta (iniziato nella “XX settembre” di Torino), ai quali poi si aggiunsero Ugo Cavallero (15 agosto 1918, dimissionario nell’agosto 1924). Per meglio comprendere il “caso Gatti” è infine emblematico il folto numero di ufficiali  accolti nella Gran Loggia nel corso del 1917 mentre erano “in zona di guerra”.

(FINE NOTA 5)

Mentre otteneva ampio successo di pubblico e apprezzamenti pressoché incondizionati da parte dei militari memorialisti e storici (all’epoca gli storici militari, come Costanzo Rinaudo erano erba rarissima), Gatti lavorò a un’opera organica. Per integrare il proprio “Diario” raccolse interviste in parte tuttora inedite (6) Ma fu soprattutto in Tre anni di vita militare italiana che, senza entrare esplicitamente nel suo merito, passò in rassegna i tempi nei quali ebbero corso la Commissione d’inchiesta, la redazione della Relazione, la sua pubblicazione e il dibattito che ne seguì. Tra il 21 marzo 1918 e il 31 ottobre 1922  si susseguirono undici diversi ministri della guerra: ai tre generali del governo Orlando (Vittorio Alfieri, Vittorio Zupelli ed Enrico Caviglia) seguirono il contrammiraglio Giovanni Sechi (interinale), il generale Alberico Albricci e il deputato già socialriformista Ivanoe Bonomi nel primo governo Nitti, il deputato del partito popolare Giulio Rodinò di Miglione nel secondo, e poi ancora Bonomi e Rodinò nel V governo  Giolitti, Luigi Gasparotto nel ministero Bonomi, Pietro Lanza di Trabia nel I governo presieduto da Luigi Facta e Marcello Soleri nel II. Altrettanto vorticosa fu la sequenza dei sottosegretari (e quasi identico il turbinio dei ministri della Marina): un titolare ogni 135 giorni, in media. A rimanere al suo posto per tre anni fu solo il capogabinetto, il colonnello Ottorino Carletti, la cui generosità non poté però mai andare troppo oltre il grado.

Rodinò – osservò Gatti – “non si era mai particolarmente interessato nella sua vita dell’esercito”. Tuttavia non esitò a farsene carico ben due volte: E’ uno di quei misteri che si spiegano con le ragioni ‘squisitamente politiche’: tanti Ministeri ad un partito, questo Ministero piuttosto  che quello, ecc. ecc. Ma nell’assegnazione all’incanto del ministero della Guerra come non era possibile non intendere il male e la vergogna che si facevano all’esercito?”  A Gasparotto, che giunse al potere “con molta fede e con pochissima sapienza militare” ma proclamò di “voler lavorare”, a fine febbraio 1922 seguì, come detto, Lanza di  Trabia, principe di Scalea. “Perfetto gentiluomo” assunse il ministero “con tre idee ben ferme e chiare, che ripeteva a tutti quelli che lo volevano o non lo volevano ascoltare. La prima era che egli non sapeva niente del Ministero al quale lo avevano addetto, e avrebbe invece voluto andare alle Colonie (alla mattina era infatti predicato Ministro delle Colonie); la seconda, che sarebbero occorsi almeno sei mesi perché imparasse qualche cosa delle faccende militari; ma – e questa era la terza idea – dentro sei mesi egli certamente non sarebbe più  stato Ministro”. Durò infatti sino al 31 luglio, poco più di cinque mesi, quando venne nominato Marcello Soleri, volontario in guerra e ferito, probo e appassionato, ma in un governo del tutto impari al compito di ripristinare ordine e fiducia.

Bene si comprende l’ampio credito aperto al governo dal 31 ottobre 1922 presieduto da Benito Mussolini che contò alla Guerra il generale Armando Diaz (in carica sino al 30 aprile, quando fu  sostituito dal generale Antonino di Giorgio) e alla Marina l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel (in carica sino all’8 maggio 1925), entrambi voluti in quelle cariche da  Vittorio Emmanuele III e perché il nuovo governo abbia deciso di tacitare le polemiche per anni divampate a base di memorie e memoriali, articoli e interviste, un ininterrotto scambio di accuse e di giustificazioni, di addebiti e di difese.

Con l’avvento del governo Mussolini, anche sulla Relazione sugli avvenimenti dall’Isonzo al Piave  scese poco a poco il silenzio. Ne rimase eco ora fievole ora assordante nella memorialistica, nel carteggio privato dei protagonisti, nei pochi cultori di storia militare. Per l’opinione pubblica Caporetto rimase un’onta, un incubo. Anche per via dell’Inchiesta, a mezza strada tra feticcio e tabù..

V’era dunque motivo di riproporla allo studio anche in vista di una nuova lettura dell’intervento dell’Italia nella Grande Guerra e di quanto ne nacque.

 

4 novembre 2013

Aldo A. Mola

Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo

Associazione di Studi sul Saluzzese

 

APPENDICE

DUE DICHIARAZIONI DI VITTORIO EMANUELE ORLANDO AD ANGELO GATTI SU CAPORETTO E SUI SOCIALISTI

In vista di un’Opera generale sull’Italia nella Grande Guerra Angelo Gatti intervistò numerose personalità eminenti, tra le quali Vittorio Emanuele Orlando, già ministro con Giolitti, poi con Boselli (19 giugno 1916-30 ottobre 1917) e presidente del Consiglio dal 30 ottobre  1917 al 23 giugno 1919. Fu  ricordato come “Presidente della Vittoria”.

Ecco, di seguito, gli appunti di Angelo Gatti, conservati tra le sue Carte nell’Archivio Storico del Comune di Asti.

ORLANDO. COME EGLI VEDE CAPORETTO (*)

Orlando ritiene Caporetto prodotto di una crisi psicologica: ma non politica, bensì militare.

L’attribuisce prima di tutto – anzi quasi esclusivamente – alla stanchezza della guerra poi da cause militari.

La cattiva qualità e azione dei comandi grossi e degli ufficiali.

Il vitto cattivo.

Le licenze negate.

La propaganda fatta nelle file dell’esercito, cioè al fronte, dall’avanti all’indietro nel paese, e non dall’indietro in avanti, come Cadorna vorrebbe far credere. E a questo punto, che egli aveva appunto notato dai referti della Polizia, che tutte e lettere le quali dalla fronte erano mandate a casa risultavano scritte su una stessa falsariga: e che egli aveva su ciò richiamato l’attenzione del Comando. Il quale, d’altra parte, un’altra volta aveva scritto al ministro dell’Interno, per avvertirlo che i Cappellani militari  facevano sui reggimenti propaganda pacifista: e lui che cosa ci poteva fare? (e a questo proposito vedi suo discorso del 28 settembre 1917 ove notava la coincidenza  delle rivolte delle donne col ritorno dei militari in licenza).

A queste cause, aggiungasi la causa  di errori tecnici.

E dice Orlando: è tanto ver ciò che io dico, che se ci fosse stata una azione politica, l’esercito si sarebbe sfatto tutto, e non si sarebbe avuta un’armata che scappava e una (la III che pure era enormemente più stata logorata); e nella II Armata stessa, non ci sarebbero stati riparti disfatti e altri no. I riparti sono andati a gambe per aria dove non erano in mano ai superiori; dove questi non si erano accorti del male; dove avevano trattato male gli inferiori, ecc. Altrimenti, ripete Orlando, la III Armata avrebbe dovuto prima di tutte andare a gambe in aria.

C’è da opporre che l’esercito si sbriciolò nel punto dove fu più battuto dall’urto nemico.

(*) Titolo di pugno di Angelo Gatti.

ORLANDO. LA SUA AZIONE VERSO I SOCIALISTI (*)

Orlando dice che la sua condotta, di faccia ai socialisti, fu questa.

I socialisti non davano fastidi: egli cercò di tirare innanzi le cose, in modo da non dar fastidio alla guerra.

E notava che l’Italia fu l’unica nazione che non ebbe mai uno sciopero durante la guerra: in Inghilterra ci furono 82.000 metallurgici scioperanti, e in Francia l’intero bacino della Loira, per es.

Non successero fatti di rivolta, se non quello d’agosto di Torino: che Orlando attribuisce all’insipienza del prefetto di Torino (vedere ciò che dice Orlando e ciò che dice Giardino).

Nelle condizioni del paese, Orlando fa notare che non poteva attribuire ciò che avveniva all’interno al socialismo.

Infatti, tanto le rivolte delle donne quanto i disertori non collimano con la predominanza del socialismo nelle varie province, ma si esplicano in modo diverso (vedere le 2 statistiche che mi ha dato).

I socialisti stavano dalla parte di C. Lazzari: non favorire la guerra ma non sabotarla. Egli cercava di continuare ciò. Né crede che abbia fatto gran male manco la frase del Treves (non più un inverno in trincea).

Per quanto riguarda l’opera del Corradini (Camillo, poi sottosegretario all’Interno nel V Governo Giolitti NdA), l’Orlando  dice che all’inizio essa era giusta e d’accordo perfettamente  con le idee sue, di Orlando.  Si trattava di camminare (sic) i socialisti in modo che la guerra potesse essere.

Poi, essendo Corradini uomo di passione, può darsi – anzi è – che egli, per rispondere alle continue accuse e punture di spilli che gli facevano gli interventisti, abbia dopo un certo momento appoggiato verso i socialisti. Ma la sua azione fu per lungo tempo ottima, ripete, d’accordo con le idee di Orlando.

(*) Titolo di pugno di Angelo Gatti.

UGO BRUSATI. IL RE (*)

Il re è uomo di grande intelligenza e di grande cultura. Ma è molto modesto (vedere l’influenza che su questo ha avuto il suo fisico infelice: come questo sia stato il suo movente in molte azioni della vita. Matrimonio con Elena di cui è innamoratissimo; adorazione che ha per il principe ereditario, perché è bello e simpatico; invidia che ha per i cugini Aosta e Torino; distacco che ha per l’esercito, in cui la prestanza militare entra per molto, ecc.).

Ma V.E. è anche uomo sopra ogni altra coda costituzionale. Non vuole mai comparire più di quello che la costituzione gli dia permesso. E’ uomo che vuole essere re di tutti gli italiani, non di un solo partito. Perciò la sua azione non è mai quella di uno che voglia prevalere sugli altri.

Ciò è tanto vero che, anche alla fronte, egli andava per le trincee di prima linea, senza mai farsi conoscere. Andava in punti pericolosi: passava avanti: Brusati doveva dire ai soldati: “vedete, quello è il re”. Allora i soldati rimanevano stupefatti: anche in trincea si alzavano e si aggruppavano, gridando “viva il re”, con grande pericolo del re. Mai non parlava alle truppe, mai non faceva grandi gesti.

Aveva però larghissima intelligenza politica, e  larga anche militare. Nell’intelligenza politica la conoscenza profondissima della storia d’Italia e degli altri paesi; ma sopra tutto la conoscenza profonda  degli uomini che gli stavano dattorno gli dava modo di farsi un concetto preciso e giusto di chi gli stava intorno.   Succedeva molte volte che egli rettificasse giudizi di Brusati, intorno ad uomini di governo, rammentando parole o gesti fatti da questi in tempi molto passati. Di tutti sapeva vita e miracoli: e li vedeva negli atteggiamenti ogni volta mutantisi; ma tutti accettava, fingendo di dimenticare il passato quando però sentiva che la voce della ragione glielo imponesse.

Intelligenza militare aveva anche, specialmente per quel che riguarda il terreno. Ascoltava e sapeva tutto ciò che avveniva in guerra: ma non dava giudizi, o per meglio dire, li dava nell’intimo, col Brusati. Quello che pensava non andava però mai all’infuori del suo cerchio ristrettissimo, di una persona o due.

I giudizi diversi che sul suo carattere e sulla sua intelligenza sono stati dati, derivano dal fatto che egli diversamente parlava a seconda delle diverse persone. A uno confidava l’animo suo, almeno in buona parte; all’altro, di cui non aveva piena fiducia, scivolava sugli argomenti. Quindi alcuni lo consideravano molto; altri credevano che volesse sottrarsi alla responsabilità: e il suo accorgimento di misurare le parole  alle persone era scambiato con mancanza di sicurezza in sé per il proprio giudizio, e, anche, funzione di carattere.

Di coraggio personale sopra ogni dubbio. Arrivava lui dove non arrivavano ufficiali del Comando Supremo, tanto che non poche  volte era stato scambiato per comandante di divisione, di Corpo d’Armata, ecc.; e Brusati per Cadorna.  Molte volte giungeva alla distanza di pochissime decine di metri dai nemici, in trincea. Ci sono fotografie del re che lo sorprendono mentre monta su un albero, per assistere all’uscita di truppe nostre per un attacco. Il  generale Grandi, comandante di C(orpo) d’A(rmata) deve la vita al Re, perché questi si presentò nel paese in cui era mentre succedeva un forte bombardamento. Il Grandi, avvisato dell’arrivo del Re, si precipitò incontro a lui: per fortuna sua, perché una granata gli spaccò la stanza dove stava. Il giorno 22 ottobre il Re era con Brusati al passo; vedeva il tiro nemico cominciare sul Pleka, e di mano in mano, inquadrandosi, salire in linea retta verso le trincee dove essi erano. Il Brusati disse al Re: “Maestà, andiamocene perché il tiro fra poco sarà qui”. “E’ giusto, rispose il re, bisogna andarsene”; e poiché la trincea era rotta, a uno alla volta uscirono fuori per gettarsi in un camminamento: non fecero a tempo a ritirarsi, che già il tiro nemico raggiungeva la trincea  in cui erano.

Della sua azione personale può dirsi che, sempre, finché poté, cercò di mettere d’accordo il governo e  il comando.

Per la parte militare un anedoto (sic) che nessuno assolutamente sa, è, che l’attacco di Brussiloff, che il 4 giugno 1916 liberò il nostro esercito dalla pressione  dell’invasione austriaca nel Trentino, fu dovuto assolutamente al Re. Questi scrisse personalmente a Nicola, che aveva saputo che Brusiloff non avrebbe attaccato subito. Nicola incontrò difficoltà ne suo stato maggiore: però le vinse: volle anche lui l’attacco, ma il merito fu di V.E.

Per quanto riguarda l’attacco di Caporetto, il re e Brusati erano stati almeno 50 volte nel tratto che fu attaccato; e già nel 1915 avevano notato che lì la fronte  lì era debole, poco profonda, male difesa, ecc. Brusati aveva mandato una memoria a Porro dicendo, che se il nemico avesse attaccato, avrebbe attaccato di lì; e  che perciò stessero attenti.

Ma il Re aveva assolutamente grandissima fiducia nell’Italia e nell’esercito. Assolutamente era intima questa fede: non voleva ascoltare chi diceva diversamente: in lui derivava dall’animo e dalla cultura.

Il re andò a Roma non prima del 27 (vedere 27 o 28’): e ci si fermò pochissimo.

Il 23 andò a Creda, al Comando  del IV C.d’A. Nel ritorno, sulla strada di Cividale, incontrò l’automobile di Cadorna, che portava a prua il gagliardetto di Casa Savoia. Il re e Cadorna scesero, e si misero a parlare fra loro; Brusati si mise a parlare con Gabba. Gli disse: “abbiamo visto, al Comando del IV C.d’A: il piano d’attacco del nemico” (il Cavaciocchi, infatti, aveva mostrato al re un disegno, in cui c’erano tutte le divisioni dell’attacco nemico, secondo le deposizioni dei due ufficiali rumeni (??).   Là, a diversi colori, eran indicate le colonne nemiche che dovevano fare l’attacco, e la loro strada). Non vi pare, soggiunse Brusati,  che quei pochi soldati che sono sotto il Monte Nero e al Mrzli siano in pericolo? Perché li tenete lì? Per una difesa sono pochi, per attacco ora è impossibile. Se dal versante di qui dell’Isonzo non si vedesse, pazienza: ma dal Pleka contate tutti i nemici ad uno ad uno”. “E’ vero, rispose Gabba: ma ne teniamo pochissimi: così non è pericoloso anche perderli”. Il re  era di ottimo umore, e Cadorna anche. Ma Cadorna non credeva all’attacco nemico.

Il 23 era un lunedì; il 24 un martedì.

Il 26, giovedì, Brusati essendo già tornato a Roma, solo (poiché la legge sui limiti d’età lo aveva mandato a casa) ed essendo in Quirinale a raccogliere nel suo  ufficio le sue carte personali, per ritirarle a casa, vide nel cortile del Quirinale molte automobili.  Pensò che, essendo giovedì, era giorno di relazione al Luogotenente.  Allora, volendo salutare per commiato i ministri riuniti,   andò nel salone d’anticamera. Boselli era dal Luogotenente: gli altri erano tutti fuori e mostrarono meraviglia di vederlo. Gli domandarono che cosa faceva lì: disse che era stato mandato a casa. Nessuno sapeva la cosa, all’infuori di Orlando che aveva scritto una lettera a Brusati, dolendosi che l’età (aveva 71 anni Brusati) gli facesse desiderare il riposo: alla quale   Brusati rispondeva lì: “Caro signore, grazie della lettera: ma io, lei mi vede, non desideravo affatto il riposo. Sono sano, e molto, e avrei voluto finire la mia vita con la guerra:”

Ebbene, la sera del 26 a Roma, e nel consiglio dei ministri non c’era la percezione di quel che avveniva alla fronte.

Il generale …Comandante del genio in prova, ora senatore del regno, fu il 23 da Cadorna, il quale gli disse che  si parlava di un attacco nemico: ma che egli credeva che fosse un bluff del nemico, e niente altro. “Io non mi smuovo dalla mia idea, disse Cadorna: vi potrà essere qualche addensamento di truppe sulla fronte dinnanzi a Tolmino: ma attacchi seri non ce ne possono essere”.

 “Queste, dice Brusati che gli è nemico, sono  le vigilie  di Cadorna: il 14 maggio del 1916 aveva detto a me e al Re che gli austriaci non avrebbero attaccato nel Trentino”.

FINE     

(*) Titolo di pugno di Angelo Gatti, che annotò: “colloquio avuto con lui nel suo villino di via Boncompagni 6 il 12 novembre 1921”.

 

NOTE AL TESTO

(1)  Il premier britannico Lloyd George disse che la prima guerra mondiale fu la peggiore sciagura dopo il diluvio universale. Può sembrare una valutazione eurocentrica. In passato altre guerre avevano sconvolto continenti e distrutto innumerevoli vite. Ma nel primo Novecento l’Europa dominava il mondo. La “sua” guerra trascinò tutti con sé. Le conseguenze furono devastanti dappertutto. Venti anni dopo se ne trassero le somme ultime: il crollo degl’imperi coloniali. La conflagrazione del 1914 nacque con motivazioni apparentemente arcaiche – l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede della corona imperiale d’Austria-Ungheria  –  e sfociò in rivoluzioni comuniste, regimi di massa, una catastrofe che ancora oggi sfugge a una lettura storiografica  esauriente e condivisa. Per fissare la cornice dell’ Inchiesta giova ricordare alcune date essenziali della guerra e della partecipazione del regno d’Italia al suo corso.

1914. Il 28 giugno l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede dell’imperatore d’Austria Ungheria Francesco Giuseppe, sul trono dal 1848, viene assassinato a Sarajevo da due terroristi aderenti alla “Mano Nera”, organizzazione settaria serba, sicuramente  Il processo a loro carico ne accerterà la colpevolezza ma non risalirà ai mandanti.

Previo ultimatum, il 28 luglio l’impero austro-ungarico dichiara guerra al regno di Serbia; lo zar Nicola II Romanov ordina la mobilitazione generale in Russia a sostegno della Serbia. Il  1° agosto, l’impero di Germania (Guglielmo II) dichiara guerra all’impero di Russia  e il 3 agosto alla Francia; il 4 invade il Belgio (neutrale) per aggirare le difese francesi. In risposta la Gran Bretagna, dal 1830 garante dell’inviolabilità del Belgio, dichiara guerra alla Germania; il 6 agosto l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Russia; il 12 agosto Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra all’Austria-Ungheria; il 23 agosto l’impero di Giappone dichiara guerra alla Germania. Il 31 ottobre l’impero turco-ottomano entra in guerra  a fianco degli imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria).

Il 2 agosto il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Antonino di San Giuliano agli Esteri, dichiara la neutralità perché l’alleanza con Vienna e Berlino risalente al 1882 e più volte aggiornata e ribadita è solo difensiva e prevede comunque consultazioni in caso di conflitto.

1915. Dopo lunghi maneggi e cauti passi germanici per assicurare all’Italia “compensi” in caso d’ingrandimento dell’Impero austro-ungarico (come previsto dall’alleanza vigente), il 26 aprile il ministro plenipotenziario di Roma sottoscrive segretamente il Patto di Londra che impegna l’Italia a entrare in guerra a fianco dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia e loro alleati) entro un mese dalla stipula. Il parlamento e i componenti del governo rimangono all’oscuro delle clausole del Patto, che verrà pubblicato dai bolscevichi quando raggiungeranno il potere (1917). Il 3 maggio l’Italia si dichiara svincolata dalla Triplice e il 24 maggio, in deroga a quanto previsto dal Patto stesso, dichiara guerra al solo impero austro-ungarico (cosiddetto “sacro egoismo”).

L’11 ottobre la Bulgaria entra in guerra a fianco di  Germania e suoi alleati.

1916. Dopo aver fermato la “spedizione punitiva” austro-ungarica, il 25 agosto l’Italia dichiara guerra alla Germania.

1917 Marzo: inizia la rivoluzione in Russia, ove, rovesciato lo zar, in novembre (con la rivoluzione “di ottobre”, secondo il calendario a quel tempo in uso in Russia)  i bolscevichi guidati da Lenin assumono il potere. 6 aprile :intervento degli Stati Uniti d’America a fianco dell’Intesa. Il 1° agosto papa Benedetto XV deplora l’ “inutile strage”. Tentativi  di pace senza compensi né indennizzi.

Il 24 ottobre offensiva austro-germanica sul fronte italiano (“rotta di Caporetto”), che arretra sulla destra del Piave.

1918. L’8 gennaio il presidente degli USA, Wilson, enuncia 14 “punti” per una pace stabile

Sconfitta a Vittorio Veneto (24-30 ottobre), il 3 novembre l’Austria sottoscrive l’armistizio con l’Italia (in vigore dal 4). Esso autorizza  l’Italia ad attraversare in armi l’impero austriaco per colpire da sud l’Impero di Germania che, a confini inviolati ma in preda alla rivoluzione,  dopo il trasferimento del  kaiser Guglielmo II in Olanda, chiede e sottoscrive l’armistizio di Compiègne (11 novembre).

I militari caduti sui diversi fronti  furono circa 14 milioni, cui vanno aggiunti circa 5-6 milioni di civili, senza contare  le vittime per cause connesse (carestie, malattie, ecc.), sia in Germania, sia in Russia, genocidi (come quello degli armeni: circa 1 milione), stragi. Rimane incerto il numero dei morti causati dalla guerra europea negli altri continenti, per l’inasprimento dei regimi coloniali.

Nel 1919 divampò un’epidemia, la cosiddetta “febbre spagnola”, che mieté un numero enorme di vittime. Gli epidemiologi concordano nell’attribuirne la letalità alle pessime condizioni di alimentazione e di igiene generate dalla guerra, soprattutto dall’estate del 1917.

Tuttora il conteggio dei militari morti per cause dirette del conflitto è approssimativo. Le stime più attendibili indicano le seguenti perdite: Germania: da 1.800.000 a 2.057.000; Russia: 1.700.000 (senza contare la guerra civile, che trascinò con sé milioni di vite); Francia 1.384.000; Gran Bretagna: 743.000; Italia: 620.000  e 1.200.000 feriti e mutilati; Romania: 335.,000

Turchia: 325.000; Bulgaria: 90.000; Canada: 60.000; Australia: 59.000; India: 49.000; Stati Uniti: 48.000; Serbia: 45.000 (cui vanno aggiunti almeno 82.000 civili); Belgio: 44.000; Nuova Zelanda: 16.000; Sud Africa: 8.000; Portogallo: 7.000;Grecia: 5.000; Montenegro: 3.000

(3) Con il Patto di Londra del  26 aprile 1915  l’Italia  chiese la sovranità sul Trentino e Tirolo cisalpino  (confine al Brennero), Trieste, le contee di Gorizia e Gradisca, l’Istria fino al Quarnaro, le isole di Cherso, Lussin e altre, la Dalmazia sino al fiume Narenta e isole, Valona con la costa, l’isola di Saseno e la neutralizzazione delle Bocche di Cattaro. Ottenne anche la compartecipazione alla spartizione in tutto o in parte dell’impero ottomano. Restavano acquisite Rodi e il Dodecaneso, occupate dal 1912. In corrispondenza degli sforzi e dei sacrifici previsti l’Italia avrebbe avuto anche indennità di guerra e una parte (“equo compenso”, da definire) dell’impero coloniale tedesco con regolamento dei confini di Eritrea, Somalia, Libia e colonie attigue francesi e inglesi. L’Inghilterra si impegnò ad agevolare l’immediata apertura di un prestito di non meno di cinquanta milioni di sterline sul mercato di Londra (una somma irrisoria rispetto al costo della guerra).

L’articolo XV del patto impegnava la Triplice Intesa a opporsi a ogni eventuale proposta di ammissione di un rappresentante del Pontefice (papa Benedetto XV) nella conferenza di pace al termine del conflitto. In tal modo la Russia (ortodossa con Nicola II, “atea” con Lenin), la Gran Bretagna (anglicana) e la Francia (“laicista e che dal 1905 aveva rotto i rapporti diplomatici con la Santa Sede) impedivano che fosse riaperta la “questione di Roma”  e il riconoscimento di uno Stato pontificio.

(6) A bene vedere Gatti non trovò serenità se non con il ritorno alla campagna, a Camerano Casasco, presso Asti, la terra degli avi, poco lontano dalla Grazzano di Pietro Badoglio, dalla Casale Monferrato di Ugo Cavallero, dalla terra  di tanti altri alti ufficiali protagonisti della storia d’Italia dall’Unità alla fine della monarchia (Tancredi Saletta, Paolo Spingardi,ecc.).

La repentina morte della moglie, Emilia Castoldi (1927), sposata  per procura il 22 novembre 1917, nel tempo della tormenta, s’aggiunse alle altre gravi amarezze e lo spinse a esprimere attraverso l’invenzione narrativa, la poesia, il simbolo, quanto aveva cercato di dire attraverso la saggistica storiografica.

Il suo “segreto”, cioè l’iniziazione alla “Propaganda massonica”, non gli precluse la nomina a membro dell’Accademia d’Italia (1937); del resto esso rimase celato a tutti i suoi biografi e rimane tuttora da decodificare pienamente.

In Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata (Gaspari Ed., 2011), anche sulla scia  di G. De Stefani (che giudica inattendibili buona parte delle sue affermazioni), Paolo Gaspari bolla Gatti come “sicuramente uno dei pettegoli più impenitenti dell’esercito (p. 81) e ne liquida il Diario come “pieno di pettegolezzi e assolutamente non affidabile, soprattutto per la parte di Caporetto” (p.570), ma non manca di contraddirsi proprio sulla condotta di Cadorna nelle ore più drammatiche dell’offensiva austro-germanica, quando  “il Comando Supremo aveva perso ormai il senso della realtà” e la sorpresa strategica si sommò a quella tattica e investì i comandanti di battaglione ma soprattutto quelli di brigata e di divisione.

Al riguardo va ricordato, se mai ve ne fosse bisogno, che Gatti lasciò inedito il Diario, come tanta parte del materiale approntato per un’opera critica. Non sappiamo, quindi, quale ne sarebbe stata la redazione definitiva e se vi avrebbe conservato alcuni passi, più “di colore” che di sostanza (come il ritratto di Vittorio Emanuele III sotto la data del 15 novembre: “(…) è uscito prima di tutto il re,m piccolo, magrolino, bianco-grigio, come un uccellino scodinzolante (…) Questa volta non aveva la macchina fotografica. Aveva delle movenze brusche, dei salterelli improvvisi di cutrettola (…)”) e le chiacchiere di terzi. E’ il caso delle asserzioni del col. Calabrini, primo scudiero del re, secondo il quale  “la regina Elena non (era) la donna che ci v(oleva) per lui (il re), e forse non è nemmeno una buona donna. La felicità del re da qualche anno è stata rovinata: e Vittorio ha veduto, con suo inesprimibile strazio, crollare vicino a sé ciò che gli era più sacro: l’affetto della famiglia”: asserzione priva di qualunque conferma e per nulla verificata dal suo curatore, Alberto Monticone, che si spinse a farne la chiave di lettura della condotta del sovrano ( chiuso “in una specie di scetticismo e di apatia”), addirittura “con comprensibili  riflessi nel momento della decisione e più tardi nel modo di seguire la guerra al fronte, appartato spettatore del crescente contrasto fra potere politico e potere militare”: problematiche che affondavano radici nell’intera storia del regno di Sardegna e d’Italia e nel mancato adeguamento dello Statuto alla realtà dell’Italia del Novecento (ma il nodo del comando del Paese in guerra è tuttora intricato,  a conferma che non si tratta di questione dipendente dallo “stato d’animo” del Capo dello Stato).