L’uomo che voleva uccidere Hitler

Recensione del libro di PETER STEINBACH, “L’uomo che voleva uccidere Hitler. Claus Von Stauffenberg e l’operazione Valchiria”, EDB Edizioni Dehoniane Bologna, 2017, pagg. 1-128, oltre Tavola cronologica della vita del protagonista del saggio, con Letteratura scelta e Appendice fotografica, € 12,50.

Il 20 luglio 1944, nella foresta di Rastenburg, dove Hitler, nella cosiddetta “Tana del lupo”, aveva il proprio comando supremo, era previsto, alla presenza del dittatore, un vertice organizzativo dei generali e dei colonnelli della Wehrmacht, per valutare la situazione divenuta critica dopo lo sbarco degli angloamericani in Normandia del 6 giugno 1944.
La riunione plenaria avrebbe dovuto svolgersi nel bunker sotterraneo. La giornata, però, era calda e afosa. Fu, perciò, deciso che l’incontro si sarebbe tenuto nella baracca sovrastante.
La bomba introdotta nel locale dal colonnello conte Claus Von Stauffenberg, un eroe di guerra, anima della resistenza militare nei confronti del regime nazista, esplose alle ore 12 e 42 di quel giorno, con effetti meno devastanti di quelli che si sarebbero verificati laddove il vertice si fosse tenuto nel bunker. Le pareti di cemento, infatti, avrebbero accresciuto notevolmente la deflagrazione della esplosione, contenuta, invece, dalle pareti lignee della baracca, ovviamente distrutta, oltre che dalle pur grandi finestre aperte per il caldo della giornata. A seguito della detonazione persero comunque la vita quattro persone. I feriti furono venti.
La borsa contenente l’ordigno esplosivo, posizionata accanto ad una grossa gamba del tavolo ingombro di carte nelle immediate vicinanze del dittatore, fu casualmente allontanata con un piede, costituendo un intralcio.
Verosimilmente anche per questa fortuita circostanza, Hitler, a seguito dello scoppio, rimase ferito solo leggermente. Lamentò delle contusioni, una ferita al braccio e un leggero disturbo all’udito.
Già poche ore dopo l’accaduto era perciò in grado di ricevere nella programmata visita il duce del fascismo, Benito Mussolini, alla stazione del suo quartiere generale e, addirittura, di condurlo personalmente al luogo dell’attentato. Salvo licenziarlo sbrigativamente, subito dopo un frettoloso colloquio, per potersi poi dedicare, con l’abituale ferocia, alla vendetta nei confronti dei congiurati. Che fu immediata e crudele. Tutti i cospiratori – circa duecento – furono infatti condannati alla pena capitale.
Da questa carneficina non si salvò neppure il generale Friedrich Fromm, vertice del colpo di Stato, che, informato telefonicamente dal feldmaresciallo Keitel del fatto che Hitler era ancora vivo, tradì i congiurati, primo fra tutti, Stauffenderg. Che fu arrestato, fucilato e seppellito la stessa notte, riesumato e cremato il giorno dopo. Le sue ceneri vennero disperse nelle fogne di Berlino, dove, subito dopo l’attentato, si era recato per coordinare il colpo di stato.
Questa – nelle sue linee essenziali – la fine della operazione Valchiria.
Chi avesse, tuttavia, la curiosità di conoscerne i particolari fin dal momento della preparazione della congiura, dell’inevitabile attentato, fino al suo verificarsi e, poi, al successivo sterminio dei congiurati, può fare utilmente capo all’agile libro segnalato. Qui, tuttavia, in evidenza per un profilo diverso da quello storico, pure indubbiamente oltremodo rilevante. Infatti, se si fosse concluso un armistizio il 20 luglio 1944, si sarebbero dimezzati i morti provocati dalla seconda guerra mondiale. In ogni caso, con la morte di Hitler, la storia della Germania avrebbe avuto un altro corso.
Degno del massimo interesse è, infatti, comprendere – e ricostruire – il percorso compiuto da Stauffenberg per trasformarsi, da brillante ufficiale aduso a rispettare gli ordini con lealtà e scrupolo, eroe di guerra, in attentatore alla vita del dittatore, oltre che di coordinatore, in maniera decisiva, della sovversione, da Berlino. Scelta, del resto, in perfetta coerenza con la finalità perseguita dall’Autore con il saggio in commento, che vuole appunto “informare e spiegare il motivo per il quale” Stauffenberg “si decise a compiere l’attentato” (pag.20).
Per addivenire alla decisione – sofferta – di compiere un’azione senza precedenti, qual’era il tentativo di rovesciare un regime criminale nel mezzo di una guerra, alla quale, come soldato, partecipava con onore, Stauffenberg fu infatti costretto a liberarsi di tutta una serie di vincoli che il sistema nazista aveva creato per motivare la propria pretesa di dominare il mondo, ravvisabili in una ideologia suggestiva, nel terrore diffuso, negli effetti paralizzanti dei successi in politica estera e militari che avevano affascinato non solo il popolo.
Con una martellante e penetrante propaganda, era, infatti, divenuta opinione comune che l’aggressione alla Polonia altro non era che un tentativo di revisione della pace di Versailles; che la vittoria sulla Francia non fosse altro che un correttivo della sconfitta del 1918 e che l’attacco all’Unione Sovietica si risolvesse in una guerra preventiva. Anche se l’ostacolo, forse maggiormente difficoltoso, era costituito soprattutto dalla “fedeltà del soldato”, che, dal 1934, si riferiva direttamente alla persona di Hitler (pag. 84).
L’Autore, alla “disobbedienza militare”, dedica – da pag. 60 in poi – una analisi accurata e illuminante, per poi concludere che il dovere del militare non contempla affatto una obbedienza illimitata e cieca (da cadavere, pag.71), dovendosi, all’opposto, preferire il congedo ad una obbedienza che non avrebbe fatto onore (pag. 71). A significare appunto la prevalenza dell’obbligo coscienziale sull’ordine iniquo, con una conseguente più alta responsabilità del soldato, che obbliga a sapere anche quando non deve obbedire agli ordini.
Ulteriore motivo di reazione fu colto nella politica di disprezzo dell’uomo sistematicamente praticata dal regime nazista. Specie nei confronti delle popolazioni occupate, tanto da trasformare i soldati in “testimoni muti di azioni malvagie” (pag. 24).
Tutte queste cause avrebbero finito per distruggere la sostanza morale della nazione tedesca. Da qui la necessità di rifondare lo Stato in obbedienza ad un interesse superiore.
La decisione di Stauffenberg di farsi attivo cospiratore – per rifiuto di fondo del regime – maturato verosimilmente nella Notte dei cristalli tra il 9 e il 10 novembre del 1938 – fu, dunque, principalmente di natura etica, dal momento che, con quella azione, Stauffenberg non voleva far altro che eliminare uno Stato ingiusto, per instaurarne uno giusto, perseguendo il fine di far rientrare la Germania nella cerchia delle nazioni civili.
Il che lo rende un personaggio non solo della storia tedesca, ma anche della storia europea (pag.19).
Un gesto, dunque, dettato da un’alta considerazione dello Stato, chiamato ad essere custode della libertà di ogni singola persona e, nello stesso tempo, da un nuovo, umanesimo, espressione, tanto l’una, quanto l’altro, di una responsabilità molto più alta del servizio reso alla patria in armi.
Decisione, dunque, eminentemente di coscienza, così come da un obbligo più elevato Stauffenberg aveva fatto derivare la motivazione del suo servizio militare quotidiano, sempre in bilico tra la cooperazione giornaliera con chi era al potere e la sempre rinnovata opposizione, rischiosa, al sistema statale nazista.
Una dittatura crudelmente totale, quale era il regime nazista, non poteva, del resto, che avere un nemico altrettanto totalmente determinato. Anche perché i dubbi, da soli, non sono sufficienti per originare una opposizione.
L’importanza del volume recensito – almeno agli occhi di chi scrive queste note – si incentra, allora, soprattutto, sulla rivolta morale del protagonista del saggio, fonte del tirannicidio (purtroppo) mancato.
Tema – quello del tirannicidio – per altro non affrontato ex professo dall’Autore, che menziona la parola (tirannicidio) una solo volta (a pag. 26).
Il che, francamente, meraviglia, posto che, in presenza dell’azione compiuta da Stauffenberg, non si poteva non avvertire l’esigenza di affrontare, e di dibattere, expressis verbis la problematica del tirannicidio come tema assolutamente centrale.
Diritto a dare morte al tiranno che, qui, rivendichiamo, con forza, ancora una volta, dopo di averlo, con fermezza, affermato altrove (in un articolo ora in Tratti di massoneria – Riflessioni e pensieri – Editore Atanòr, Roma, 2016, pagg. 22-23).
In presenza di un tiranno, infatti, la rivolta non è soltanto necessaria, ma, addirittura, doverosa, in ossequio di quelle “leggi non scritte”, invocate da Antigone (Sofocle, Antigone, vv. 410-457), che infiammavano Hegel.
Laddove esiste un tiranno che nega al cittadino quelle libertà fondamentali che, per definizione, sono pre e superstatuali, l’imperativo alla ribellione diventa, infatti, categorico e, perciò solo, ineludibile. Non solo per obbligo morale, come del tutto correttamente afferma l’Autore, ma, almeno per il Massone, pure per imperativo scolpito nel secondo dovere delle Costituzioni di Anderson.
Questa norma, com’è noto, testualmente dispone che il Massone “non deve mai essere coinvolto nei complotti e cospirazioni contro la pace e il benessere della nazione”.
A contrario, è, dunque, lecito dedurre la piena liceità della rivolta ogniqualvolta la rivoluzione è preordinata al benessere della comunità.
Conclusivamente, è, pertanto, legittimo affermare che il Massone non è quindi obbligato al rispetto di qualsiasi potere statuale civile, ma solo a quello che sia autenticamente democratico.
E ciò per la semplice, quanto però decisiva ragione, che esiste totale incompatibilità ed assoluta antinomia e discordia fra la dottrina massonica e l’assolutismo dispotico.
Rallegriamoci, infine, che, in questo momento storico, la problematica della morte al tiranno, antica come l’uomo, sia fortunatamente circoscritta al solo piano teorico.
Non inutile è stato, tuttavia, richiamarla, sia pure limitata al solo ambito ideologico, perché, in presenza di tempi bui, al Massone, dev’essere chiaro il comportamento da tenersi.
Il che, orientativamente, è valido anche in presenza della diffusa avversione che, nel nostro Paese, è dato registrare nei confronti dell’Istituto massonico.
Particolarmente nel presente, quando, mentre si celebrano, nel mondo, i trecento anni della costituzione della Libera Massoneria speculativa moderna, giacciono, invece, nel Parlamento della Repubblica italiana, due disegni di legge (24 febbraio 2017, n. 2328, firmatari On. Mattiello e altri; 11 aprile 2017, n. 4422, firmatari On. Fava e altri), che, se approvati, metterebbero fine alla Massoneria in Italia.
Il che ci riporta all’insegnamento crociano, secondo il quale la “storia è sempre storia contemporanea”.
Non ci sembra di dovere aggiungere altro, se non un’ultima chiosa, pure per ritornare all’argomento del brillante saggio segnalato.
I nazisti hanno accusato Stauffenberg non solo di tradimento, ma anche di avere tradito il Paese. In lui videro soprattutto un rappresentante tipico della odiata aristocrazia.
L’Autore afferma che, malgrado la sua decisione comportasse consapevolmente tutte le ovvie conseguenze, morte compresa, “non bisogna fare di Stauffenberg un eroe” (pag. 20).
Apprezza e condivide, tuttavia, che la figura di Stauffenberg, dagli anni ’50 in poi, sia divenuta in Germania una figura sempre più onorata, specie perché collegata alla Resistenza tedesca, la cui principale finalità era quella di facilitare il rientro della Germania nella cerchia delle nazioni civili.
Spiace, da ultimo, dovere rimarcare l’ottusità dei governi alleati, che, anziché favorire la rivolta, nell’attentato, si limitarono, invece, a ravvisare unicamente una lotta di potere animata dalla “casta militare”, che si intendeva umiliare fino alla capitolazione incondizionata.