La Massoneria Europea per la nascita della Società delle Nazioni

Nel luglio 1917 il Grande Oriente (GOI), la più antica e numerosa comunità massonica italiana (1), fu investito da un’aspra polemica sulla condotta tenuta dalla sua delegazione al Congresso delle massonerie delle nazioni alleate e neutrali, svolto a Parigi dal 28 al 30 giugno. La disputa merita attenzione per le sue ripercussioni non solo all’interno della Libera Muratorìa nazionale, divisa in due “Obbedienze” (il GOI e la Gran Loggia d’Italia, GLI), ma anche sulla vita politico-parlamentare e persino all’interno delle Forze Armate, che all’epoca contavano centinaia di affiliati, alcuni dei quali in posizione eminente. Era il caso di Luigi Capello. Asceso al comando della II Armata, questi non faceva mistero di essere “all’ombra dell’Acacia”. Il Congresso di Parigi tracciò i confini dell’Europa ventura e propose la costituzione della Società delle Nazioni (SdN). Pur con molte riserve, nel corso dei lavori e al loro termine la delegazione italiana approvò le “risoluzioni” congressuali, ma quando esse divennero pubbliche il GOI le sconfessò. Perciò nella sua fase originaria, tra il 1917 e il 1918, la Società delle Nazioni rimase espressione esclusiva della massoneria francese e di quelle sulle quali essa esercitava l’egemonia: Belgio, Serbia, Boemia… Il progetto massonico dal 1918 si intrecciò con i “Quattordici punti” enunciati dal presidente degli Stati Uniti d’America, Woodrow Wilson, per fondare la pace mondiale su basi durevoli. Il GOI, che aveva avuto un ruolo non secondario nella sua fase costituente, se ne dissociò. Post hoc, se non propter hoc, il governo italiano tenne nei confronti della SdN un atteggiamento misto di trascuratezza, diffidenza e sottovalutazione, tanto che nel gennaio 1919 il presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, ignorava i preliminari per la costituzione della Società delle Nazioni realizzati dalle commissioni inglese, presieduta da lord Robert Cecil, e francese, capitanata da Léon Bourgeois. Dall’estate 1917 la “fratellanza tra i popoli”, un tempo vessillo della Massoneria italiana, cedette il campo a pretese imperialistiche.
Nell’agosto 1914 il vertice del GOI aveva assunto l’avanguardia dell’interventismo patriottico, anche come sfida alla monarchia, sino a intimare “Guerra o rivoluzione”. Il suo gran maestro, Ettore Ferrari, come molti tra i maggiorenti dell’Ordine, aveva sempre ostentato indifferenza nei confronti della Corona, contraccambiata dall’esclusione della massoneria dai festeggiamenti del Cinquantenario del regno, nel marzo-giugno 1911, come già dai solenni funerali di Umberto I nell’agosto 1900. Dal 24 maggio 1915 l’intervento aveva sopite, ma non rimosse, le riserve del governo dell’Ordine verso la monarchia, considerata transeunte. La crisi del luglio-novembre 1917, nel contesto drammatico delle dimissioni di Ettore Ferrari (14 luglio) e dell’assassinio del suo successore designato, Achille Ballori (31 ottobre), segnò anche al riguardo una svolta netta, destinata a pesare negli anni postbellici, sino al forzato autoscioglimento della Libera Muratorìa nel 1925.

La conferenza massonica di Parigi del 14-15 gennaio 1917

Il 14-15 gennaio 1917 il Grande Oriente di Francia (GOF) e la Gran Loggia di Francia (GLF) organizzarono in Parigi una Conferenza della massoneria delle nazioni alleate, per “far sentire la sua grande voce umanitaria nel sanguinoso conflitto che desola l’Europa e si estende ai confini del mondo” (2). La prima sessione si svolse nella sede della GLF (rue Puteaux 8) e fu presieduta dal suo gran maestro, il generale Paul Peigné. A parte i delegati delle comunità e dei corpi rituali massonici francesi, vi presero parte delegazioni di Portogallo (Grande Oriente Lusitano), Belgio (Grande Oriente e Supremo Consiglio), Serbia (Vassa Yovanovitch e colonnello Ilitch) e del Grande Oriente d’Italia, rappresentato da Ettore Ferrari, gran maestro, Carlo Berlenda e Alberto Beneduce. In seconda sessione, presieduta dal gran maestro del GOF, Georges Corneau, la Conferenza approvò sei “risoluzioni”: denuncia delle mostruosità perpetrate dalla Germania e dai suoi alleati; esecrazione dei massacri compiuti dalla Turchia (con la tacita connivenza di ufficiali tedeschi) ai danni delle infelici popolazioni di Armenia, Siria e Libano; gratitudine ai massoni d’America, che avevano attestato simpatia e solidarietà; ai fratelli della Svizzera e del Belgio, e solenne condanna del terrorismo militare germanico.
La Conferenza si concluse con la convocazione a Parigi di un Congresso delle massonerie dei Paesi alleati e neutrali per fissare un programma d’azione in vista della costituzione della Società delle Nazioni. Beneduce fu incluso nella commissione incaricata dell’organizzazione “morale” del Congresso. Infine la Conferenza lanciò un Appello delle massonerie alleate a quelle delle nazioni neutrali, per affermare che loro vittoria sarebbe stata anche del pacifismo e che a tal fine occorreva costituire una Società “fondata sui principi eterni della Massoneria”. (3) “La pace – affermò l’Appello – avrà come fondamento l’indipendenza delle nazionalità, con le garanzie necessarie contro ogni ritorno d’una nuova guerra, tramite l’arbitrato obbligatorio con una sanzione internazionale”.
Secondo gli studiosi più accreditati la Conferenza ebbe eco immediata modesta. (4). Due mesi dopo, la rivoluzione in Russia mise a dura prova la massoneria francese, che era la meglio collegata con il mondo latomistico dell’impero zarista. Come noto, Parigi e Londra fecero pesanti pressioni sul principe L’vov, capo del governo, e su Kerenskij, suo successore, affinché la Russia continuasse a combattere, nel comprensibile timore che, diversamente, l’impero austro-ungarico e soprattutto la Germania avrebbero avuto mano libera sui fronti occidentali, segnatamente su quello francese, mentre gli Stati Uniti d’America stavano appena iniziando a conferire portata concreta alla dichiarazione di guerra del 6 aprile contro l’Impero Germanico e i suoi alleati, solo nel dicembre successivo seguita da quella contro l’Austria-Ungheria. L’ultima offensiva russa, comandata ancora una volta dal generale Brusilov, si risolse nella catastrofe dell’esercito, polverizzato dallo sciopero militare ancor più che dalla sconfitta sul campo e dalla propaganda rivoluzionaria.

Malgrado molteplici difficoltà, le commissioni preparatorie raggiunsero lo scopo: organizzare un congresso imponente, per tracciare la carta della pace e, soprattutto, enunciare i principi costitutivi di “una Società delle Nazioni”. L’assise si collegava ai capisaldi del pacifismo massonico fiorito tra Otto e Novecento con la convocazione di numerosi convegni e congressi e con la costituzione del Bureau International Maçonnique, mandato in pezzi dalla conflagrazione del luglio-agosto 1914 (5) L’iniziativa fu condivisa dal GOF, dalla GLF e dai due Corpi superiori francesi (Gran Collegio dei Riti e Supremo consiglio scozzesista), mentre non vi ebbe alcun ruolo la Gran Loggia Nazionale Francese, sorta nel 1913 e riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra (GLUI), che molti liberi muratori, anche italiani, consideravano depositaria primigenia e universale della regolarità e della legittimità (6).

Il Congresso di Parigi delle Massonerie delle Nazioni Alleate e neutrali: 28-30 giugno 1917

Il Congresso fu organizzato nella sede del GOF, in rue Cadet 16: un edificio meno sontuoso dell’attuale ma nondimeno di prestigio, sia per gli eventi che vi si erano susseguiti, sia per la ricchezza dei cimeli e dei documenti che custodiva, sia, infine, perché era stato ripetutamente luogo privilegiato di incontri tra i suoi alti dignitari e quelli delle comunità liberomuratòrie di altri Paesi, segnatamente dei “latini”, sicché per molti “rue Cadet” era sinonimo della massoneria francese se non della massoneria stessa.
Va ricordato che dal 1877 GLUI e GOF avevano rotto i rapporti fraterni perché rue Cadet aveva abolito l’obbligo di intestare gli atti della comunità con la formula iniziatica e dedicatoria “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”, decisione seguita dalla precisazione che le logge non erano interdette ad atei professi: taluni dei quali erano stati ammessi da tempo, ma senza enfatizzazione della loro opzione, semplicemente in forza del principio che le questioni di religione e di politica militante sono estranee alle logge e quindi l’ateismo rimaneva scelta personale, estranea alla vita dell’Ordine. Dal 1877 la militanza ateistica entrò invece tra gli scopi di vari ateliers all’obbedienza del GOF: niente affatto un “obbligo”, ben inteso, ma una scelta via via più diffusa, imbevuta di anticlericalismo, professione di agnosticismo e “libero pensiero”.
I promotori del Congresso si assicurarono la partecipazione di un discreto ventaglio di Comunità estere. Però la Francia fu l’unico paese della Triplice Intesa presente ai suoi lavori. Il Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda se ne tenne fuori. Quanto alla Russia, a parte il caos nel quale era precipitata con la rivoluzione di marzo, le logge vi rimanevano interdette, sicché non avevano assunto veste tale da assumervi un ruolo formale e rappresentativo dell’ex impero zarista. Il Congresso contò sulla adesione del Grande Oriente d’Italia (Ettore Ferrari, Ernesto Nathan e Carlo Berlenda) e della Gran Loggia Simbolica Italiana (Giuseppe Meoni); del Grande Oriente Lusitano, del Grande Oriente e del Supremo Consiglio del Belgio, del Supremo Consiglio della Serbia, del Grande Oriente e del Supremo Consiglio dell’Argentina. Il Grande Oriente e il Supremo Consiglio dello Stato di Rio Grande del Sud (Brasile) delegarono il gran maestro del Grande Oriente Lusitano, che però non poté intervenire e fu rappresentato da Nicol. Nell’impossibilità di presenziare, la Gran Loggia dell’Arkansas inviò un messaggio d’augurio. A lavori terminati pervenne l’adesione della Gran Loggia di Costa Rica e della Gran Loggia dell’Ohio. Parteciparono anche le massonerie di due Paesi neutrali: la Spagna, con il Grande Oriente Spagnolo, rappresentato da Luis Simarro e Luis Salmeron, e con la Gran Loggia Regionale Catalano-Balearica (Vinaixa); e la Svizzera, con la Gran Loggia Svizzera Alpina (Schwenter e Aubert), il Supremo Consiglio Svizzero (Aubert) e il Gran Priorato della Svizzera (Aubert).
La Francia e l’Italia furono dunque i due Paesi più rappresentati e rappresentativi per le dimensioni loro e delle rispettive comunità massoniche. A differenza del GOI, il GOF e la GLF avevano però relazioni strette sia con le “potenze massoniche” di Belgio e Serbia (nazioni aggredite dagli Imperi Centrali) sia con quelle di Portogallo e dell’influente Svizzera.
In linea con le comunità massoniche del Regno unito (GLUI), la Gran Loggia dei Paesi Bassi declinò l’invito a partecipare. Il GOI sin dal 1862 aveva chiesto il riconoscimento da parte della GLUI, che però (e solo tardivamente) aveva instaurato corrispondenza tra le rispettive Grandi segreterie, ma senza scambi di garanti d’amicizia né vero e proprio riconoscimento. Il GOI aveva invece un rapporto abbastanza saldo con il GOF, anche se incrinato dal riconoscimento che questo aveva accordato nel 1898 al Grande Oriente Italiano, costituito da logge secessioniste e durato sino al 1905. Per il GOI partecipare al Congresso di Parigi significava anche affermarsi in un’assise internazionale dopo i successi ottenuti dalla Gran Loggia d’Italia, fondata nel 1910 dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato presieduto da Saverio Fera, separato da quello del GOI e accolto come legittimo e regolare dal Convento dei Supremi Consigli tenuto a Washington nel 1912 (7).
Anziché il 24 giugno, bicentenario della nascita della Gran Loggia di Londra e sacro a San Giovanni Battista (8), “protettore” della massoneria, come preannunciato sin dalla sua ideazione il Congresso si aprì il 28 giugno, terzo anniversario dell’attentato di Sarajevo, detonatore della guerra in corso. Presieduti da Georges Corneau, gran maestro del GOF, e dal generale Peigné, sin dalla prima seduta i lavori ebbero protagonista André Lebey, segretario del Consiglio dell’Ordine del GOF (9). Oratore appassionato, questi pronunziò un prolisso discorso sulla auspicata costituzione della Società delle Nazioni. Illustrò i precursori del pacifismo, dall’Enciclopedismo all’Assemblea della Lega per la Pace del 1873, e illustrò i remoti propositi massonici e paramassonici di dar vita alla Società delle Nazioni. Evocò le Conferenze del 1899 e del 1907 e quella convocata a Francoforte ma frettolosamente chiusa nell’agosto 1914. Senza pretendere di precorrere l’opera della diplomazia, dipendente da vicende belliche dall’esito imprevedibile, Lebey indicò le quattro mete principali e necessarie: il ritorno dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, la ricostituzione della Polonia, l’ indipendenza della Boemia, la liberazione o l’unificazione delle nazionalità oppresse dall’organizzazione politica e amministrativa dell’Impero asburgico in Stati dai confini delineati sulla base di plebisciti. Lebey avvertì di non aver neppure accennato al Belgio perché per i presenti esso non aveva mai cessato di essere uno Stato libero. Altrettanto valeva per l’“eroica Serbia che ha mostrato al mondo a quale grado di grandezza sa giungere nella resistenza e nella fede il patriottismo coraggioso”. Espresse poi la gioia di ritrovare, mano nella mano, gli eccellenti “fratelli d’Italia”. “Come loro – precisò –, noi contiamo sulla vittoria e sulla pace per il ritorno di diritto delle terre irredente, il Trentino e Trieste, alla loro madre patria”. Non una parola su Istria, Fiume, Dalmazia.
Lebey illustrò infine, nelle linee essenziali, la carta della Società delle Nazioni.
La sua orazione assunse i requisiti di un progetto che il gran maestro Corneau propose all’esame di una commissione comprendente Meoni in rappresentanza dell’Italia. Per propiziarne i lavori aprì la discussione. Intervenne per primo Ernesto Nathan, secondo il quale la commissione doveva occuparsi esclusivamente della costituzione della SdN, oggetto precipuo del Congresso. Dopo altri interventi (Tinière, Ferrari, Simarro, Soudan, Lebey, Duchateau, Mesureur, Schwenter, etc.), i lavori furono rinviati alle tre pomeridiane dell’indomani. Con la presidenza di Peigné, dopo una breve introduzione di Lebey il dibattito s’incentrò sulla rappresentanza delle nazioni nella costituenda Società: in numero fisso per ciascun Paese o in proporzione alla popolazione? La seconda opzione fu propugnata da Corneau e da Nathan, contro l’avviso degli altri delegati, incluso Lebey. Il punto VI della Carta stabilì infine che il potere legislativo internazionale sarebbe stato esercitato da un “parlamento” (o assemblea), formato da sette rappresentanti per ciascuno Stato aderente, quali ne fossero l’estensione (“etendue de son territoir”) e gli abitanti: una decisione deludente per paesi quali Francia e Italia ma gradita ai rappresentanti di comunità massoniche di Stati meno estesi e popolati. L’art. XIII indicò l’emblema della SdN: un “pavillon” con il sole arancione raggiante su fondo bianco, circondato da stelle gialle in numero corrispondente agli Stati aderenti.

Di seguito, a nome dei corpi massonici italiani, Meoni illustrò un ampio documento, auspicante il “trionfo integrale del principio delle nazionalità”, sulla traccia della massima di Giuseppe Mazzini “La vita nazionale è il mezzo; la vita internazionale è il fine”. “Ecco dunque – argomentò – in primo piano della discussione, i problemi dell’Alsazia-Lorena, del Trentino, dell’Istria, dell’Adriatico orientale, della Boemia, della Polonia, dello Sleswig-Holstein, dell’Armenia, etc. ”. L’obiettivo andava perseguito con l’eliminazione di ogni dispotismo e la composizione delle contese nazionali mediante arbitrato, nel solco delle Conferenze dell’Aja. Dette infine lettura della lunghissima delibera della Delegazione italiana. Dopo ampia premessa, questa affermò il diritto dei popoli di “ricostituire sulla base delle caratteristiche naturali, etniche, morali, storiche, artistiche le nazionalità spezzate o persino cancellate da lunghi secoli di dispotismo e di militarismo”.
Immediatamente dopo di lui il serbo Militchevich propose che le nazionalità oppresse venissero consultate mediante plebiscito e aderissero agli Stati che loro convenissero o rimanessero libere. Berlenda e Nathan si opposero. Yovanovitch intervenne a sostegno del connazionale. Il delegato svizzero apprezzò la proposta della SdN ma, quale rappresentante di un Paese neutrale, dichiarò di non potersi pronunciare su punti particolari riguardanti la demarcazione dei confini postbellici. Dopo ampia discussione (nella quale intervenne nuovamente Meoni), il Congresso approvò la fusione degli ultimi due paragrafi del documento italiano in un unica dichiarazione affermante “l’inébranlable volonté de toutes les Puissances maçonnniques représentées au Congrès d’agir avec la force provenant de la noblesse du but commun afin que le sacrifice d’innombrables vies à l’idéal altruiste apporte aux peuples le droit de reconstituer toutes les nationalités brisées ou opprimées, en tenant compte de tous les éléments qui composent une conscience nationale (Corsivo dell’autore)”.
Il Congresso si concluse con un plauso al presidente degli USA, Woodrow Wilson, all’epoca da molti (anche in Italia) erroneamente ritenuto massone, al popolo degli Stati Uniti e al massonissimo ministro francese Léon Bourgeois, “apostolo del pacifismo e promotore della Società delle Nazioni” (10), con un solenne banchetto nella sede della Gran Loggia Nazionale (con discorsi di Corneau, Peigné, Berlenda, Aubert, Tinière, Simarro, Vinaixa, Militchevich, Urbain, Durre e Lebey) e con una cena in rue Cadet, nel cui corso Peigné lesse le mozioni votate dal Congresso, vincolanti per tutti i partecipanti. Non gli venne mossa alcuna obiezione.

Le ripercussioni del Congresso nei giornali italiani…

Dal 6 luglio “Il Corriere d’Italia” (11) aprì il fuoco contro “il sabotaggio dell’Italia” perpetrato a Parigi dal GOI in combutta con l’ “internazionale massonica”, svelato dal quotidiano parigino “Temps”, considerato non a torto bene informato sugli interna corporis della massoneria francese. L’indomani “Il Corriere d’Italia”incalzò: “La carta geografica (dell’Europa postbellica NdA), dunque, c’è: ed in essa risulta chiaro il ‘ritorno’ alla Francia dell’Alsazia-Lorena, la libertà della Polonia, l’indipendenza della Boemia. Il resto non è troppo chiaro: Belgio, Armenia, Balcani, Iugoslavia, Albania, Trento, Trieste… Si dice solamente che, per quanto riguarda le parecchie nazionalità dell’Impero austriaco, il plebiscito dovrà decidere la questione, anzi le molte questioni. Comodo e simpatico il plebiscito…”: infatti questo sarebbe valso per la ripartizione delle zone mistilingue contese tra l’Italia e la futura Jugoslavia, non per l’Alsazia-Lorena considerata inoppugnabilmente francese benché popolata anche da tedeschi. Alla luce della subordinazione dei confini a plebiscito, v’era motivo di domandarsi che cosa i massoni congregati a Parigi intendessero per “Trentino”: la sola “provincia” di Trento o la displuviale al Brennero, comportante l’inclusione in Italia del Tirolo meridionale popolato da germanofoni? Le conclusioni del Congresso risultavano insomma in netto e aspro contrasto con gli obiettivi della “guerra patriottica” predicata anche dal GOI sin dall’estate 1914 e con quanto si immaginava fosse stato concordato tra il governo italiano e l’Intesa a compenso dell’intervento in guerra.
A sua volta l’ “Idea Nazionale”, quotidiano dell’Associazione Nazionale Italiana, chiese perentoriamente all’“Idea democratica”, organo ufficioso del GOI e diretto da Gino Bandini, suo grande oratore, di chiarire la condotta tenuta da Ferrari e da Nathan. Di giorno in giorno il dibattito salì di tono. Per troncare la polemica, il periodico dei nazionalisti sfidò l’avversario a pubblicare il documento approvato a Parigi. Poiché emerse che al Congresso Nathan si era presentato in divisa di tenente della Brigata Torino, l’ “Idea Nazionale” domandò inoltre “se l’uniforme di un esercito combattente” potesse “essere portata in giro, in adunanze semiclandestine di stranieri, a scopi puramente decorativi”. (12)
Il 7 luglio Ferrari replicò richiamando l’attenzione sul passo conclusivo del documento congressuale nel quale si assicurava “a ciascuna nazionalità ricomposta, con omogenei criteri, a famiglia politica, con libero reggimento, le garanzie di difesa naturale e di pacifica espansione civile…”: parole solenni ma lontane dall’appagare i dubbi sulla portata effettiva delle risoluzioni del congresso parigino in ordine alla demarcazione dei confini, perché anche il futuro Stato jugoslavo avrebbe potuto rivendicare a proprio vantaggio, e con maggiori titoli e benefici, gli stessi criteri canonici, la difesa naturale e l’espansione civile.
In un articolo non firmato, “Il Popolo d’Italia”, diretto da Benito Mussolini, osservò che, mentre il destino dell’Alsazia-Lorena era chiaro per tutti, “per le terre italiane, invece, diversi sono i programmi a seconda dei partiti e non ancora rivelato è il programma ufficiale del governo”, cioè l’accordo (o arrangement) sottoscritto a Londra il 26 aprile 1915 dall’ambasciatore d’Italia Guglielmo Imperiali. “D’altra parte – aggiunse a giustificazione della condotta dei massoni italiani – (a Parigi) erano presenti anche i delegati slavi, e ciò non permetteva la accettazione di un programma massimo, se pure i delegati italiani avessero avuto intenzione di presentarlo e di sostenerlo”: la “scusante” addotta a conforto del GOI fece riaffiorare la voce che il Grande Oriente di Francia avesse lautamente finanziato la nascita del giornale mussoliniano e che ora stesse passando all’incasso.
L’8 luglio il massonofago Gaetano Salvemini commentò sarcasticamente in una lettera a Giuseppe Prezzolini il sostegno del quotidiano mussoliniano al GOI: “Hai ragione che il Popolo d’Italia è infetto d’imperialismo. Chi lo mantiene è la massoneria e la massoneria è quella che è: una collezione di cretini, che si è buttata a volere la Dalmazia senza sapere quel che facesse, e ha fatto a Parigi la figura che tutti sanno”. ( 13 )

Mentre i giornali italiani alternavano insinuazioni e smentite, sulla base di echi dei fogli d’Oltralpe e di dichiarazioni di alti dignitari massonici, Ferrari tentò invano di ottenere dai fratelli d’Oltralpe una rettifica del verbale del Congresso, per provare che la delegazione italiana non aveva condiviso la subordinazione a plebiscito dei confini futuri. Dinnanzi alle prime avvisaglie della polemica, da Londra, ove era in visita al figlio Giuseppe, Ernesto Nathan aveva ricordato a Ferrari che “uno dei rappresentanti italiani (cioè egli stesso NdA) dichiarò che non avrebbe disturbato la unanimità della votazione dell’ordine del giorno (Lebey) a patto che negli atti fosse data ampia relazione della loro contrarietà alla formula proposta”: le conclusioni congressuali, vincolanti per tutti i partecipanti, erano dunque state approvate all’unanimità, ma con riserve mentali e con l’attesa di future precisazioni, nell’illusorio presupposto che il resoconto dei lavori sarebbe circolato solo nel ristretto circolo dei vertici delle massonerie rappresentate a Parigi.
La delegazione italiana non percepì in tempo che, in attesa di pronunciamenti degli Stati Uniti d’America, nuovo protagonista del conflitto contro gli Imperi Centrali, sul futuro assetto dell’Europa, il Congresso costituiva per la Serbia la grande occasione per rimettere in discussione quanto si sapeva (o si sospettava) dell’accordo stipulato a Londra tra l’Italia e l’Intesa: un obiettivo che poteva essere conseguito solo facendo filtrare all’esterno le conclusioni del Congresso, all’opposto di quanto potessero desiderare i massoni italiani.

…e all’interno del Grande Oriente d’Italia

Il Grande Oriente d’Italia non teneva assemblee dal 1913. Nel settembre1914, un mese dopo la denuncia della barbarie tedesca e del “militarismo teutonico” e l’assunzione dell’avanguardia dell’intervento contro l’Austria-Ungheria, Ferrari annullò i festeggiamenti tradizionali di Porta Pia, dettò “disciplina” e spiegò che l’emergenza imponeva di non pretendere informazioni che la gran maestranza non avrebbe dato, in nome della sicurezza nazionale. Il dibattito interno fu sopito con la misura più efficace: la rarefazione delle “tenute di loggia” o il loro svolgimento “in camera di maestro” per meglio assicurarne la riservatezza e la prevalenza delle “luci”, a cominciare dai venerabili, in massima parte di fiducia del gran maestro. In tal modo il dissenso di tanti affiliati rispetto alla linea assunta dal GOI non ebbe modo di affiorare nell’ambito delle quasi 400 logge disseminate sul territorio nazionale e all’estero e, meno ancora, di intralciarne i vertici.
La “Rivista massonica”, mensile ufficioso del GOI, alternò circolari del gran maestro o del suo aggiunto, Gustavo Canti, con articoli su temi molto lontani dalla guerra: storia, letteratura, spunti sociologici. (14) Un anno dopo l’ingresso in guerra, il governo dell’Ordine deliberò il rinvio dell’Assemblea a conflitto finito. (15)
L’eco del Congresso di Parigi, però, non poté essere soffocato da circolari del vertice del GOI. Dai fogli di parte, come “L’Idea nazionale”, e dai quotidiani “di opinione” (in massima parte poco teneri nei confronti della massoneria) esso passò subito nel dibattito politico-parlamentare, tanto più che in quei giorni la Camera dei deputati fu chiamata a votare la fiducia al governo presieduto da Boselli (30 giugno) mentre il Senato si riuniva in Comitato segreto dai toni spesso veementi.
Il 10 luglio Ferdinando Martini, massone di spicco ma deluso e appartato dopo l’avvento del ministero Boselli e la propria esclusione dall’esecutivo a beneficio del giolittiano Gaspare Colosimo (16), annotò nel Diario: “…pare che la Massoneria italiana rappresentata da Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan al Congresso massonico di Parigi si sia fatta canzonare alquanto…”; e allegò il ritaglio di una nota quel giorno pubblicata dal “Corriere della Sera”, secondo cui erano “in corso trattative tra i due Grandi Orienti (di Francia e d’Italia, NdA) per una visione concordata la cui pubblicazione dovrebbe tagliar corto alle polemiche di questi giorni” circa il cedimento della delegazione italiana sulla spinosa questione del plebiscito. Martini osservò: “Il Ferrari ha pubblicato una lettera tutt’altro che persuadente; a Nathan fa dire che ha protestato ma che si è trovato in minoranza e nell’impossibilità di far prevalere il proprio pensiero e le proprie proposte; tutte bellissime ragioni; ma poiché ciò avveniva, come La Tribuna osserva giustamente una via rimaneva da battere, una sola: quella dell’uscio. Bisognava protestare ed andarsene. L’essere rimasti implica, sia pure apparentemente, una tal quale acquiescenza: e coloro che condannano il contegno dei delegati italiani hanno perfettamente ragione”.

“In tale stato di cose” – scrisse poi la “Rivista massonica” – la Giunta esecutiva convocò per il 14 e 15 luglio una riunione congiunta del Governo (se stessa) e del Consiglio dell’Ordine, comprendente venerabili delle influenti logge romane. Ne informò un rapporto di polizia nel quale la riunione fu enfaticamente descritta quale gran loggia straordinaria. “Vi presero parte – si legge – ministri ed ex ministri, generali in attività e in riposo, senatori, deputati e il fior fiore dei professionisti della capitale. La seduta fu vivacissima e si cercò da tutti di parlare con sincerità perché il momento grave non permetteva riguardi a persone e a cose. (…) Alla domanda se i rappresentanti della Massoneria italiana avessero agito e si fossero comportati come l’occasione e l’argomento richiedevano, la risposta unanime fu no. Fu detto che avrebbero dovuto ritirarsi dal Congresso e far forza sulla famiglia massonica italiana. Furono deplorati. Si stabilì poi di stare in continuo allarme, pronti tutti a ricorrere a tutte le armi per ottenere che da questa guerra l’Italia esca col suo programma grande interamente raggiunto, sia con questo governo Boselli, sia con altro più degno”. (17)
In vista dell’adunanza Ferrari depose il supremo maglietto: decisione sofferta, datata Roma 14 luglio, amaro anniversario della Bastiglia, motivata con la necessità di consentire al GOI di difendersi da “insinuazioni, ingiurie e violenze di suoi antichi e nuovi avversari”. Ferrari, però, non chiarì le ragioni della sua condotta. Scrisse infatti: “Se, dopo ottenuta la non facile vittoria che ai plebisciti non fosse fatto accenno in nessuno degli ordini del giorno deliberati, reputai bene di non insistere affinché una parola più precisa e più specifica si dicesse sui nostri diritti sulle nostre terre irredente, fu per altissimi interessi nazionali che, sul momento, qui non occorre specificare”. Era l’opposto di quanto la Famiglia e l’opinione pubblica si attendevano. Anche all’interno delle logge il malumore crebbe perché i loro affiliati più impegnati nel confronto politico e giornalistico rimasero privi di argomenti efficaci e convincenti. Ammantando nel massimo riserbo la condotta della delegazione (gli “altissimi interessi nazionali”) forse Ferrari volle far intendere che l’Ordine condivideva responsabilità supreme nel governo del Paese. In tal modo, però, irritò le componenti della coalizione governativa contrarie a interferenze di associazioni “semi-clandestine” nelle scelte dell’esecutivo e inasprì l’ostilità di quanti già da tempo ne diffidavano.
Le dimissioni di Ferrari furono annunciate mentre il mondo politico-partitico era in fibrillazione. Alla Camera si susseguivano baccano e scene melodrammatiche. Montecitorio chiuse i lavori il 14 votando un’inchiesta parlamentare sulle Esposizioni organizzate a Roma, Torino e Palermo per le feste del Cinquantenario del regno, in tal modo mostrando “a che cosa può condurre il livore delle passioni politiche”. (18) Per i tempi e i modi nei quali venne annunciata, la rinuncia di Ferrari alla gran maestranza non placò affatto gli animi, né all’interno né fuori dei templi. “Questa faccenda massonica non finisce più o finisce male” annotò amaramente Martini. E aggiunse: “Da un pezzo vedevo le cose massoniche prender cattiva piega, per quanto io le vedessi da lontano, ma questa polemica è disgustosa”. Il GOI, infatti, era ormai bersaglio delle invettive più acri. Tra luglio e agosto poco conforto esso trasse dai successi sul fronte di guerra, specialmente per merito del comandante della II Armata, Luigi Capello, che avanzò sulla Bainsizza senza però sbaragliare l’avversario. Le tensioni all’interno della Famiglia non giovarono a quanti avevano chiesto recentemente l’iniziazione in forme riservate. E’ probabile che alcuni di questi ultimi abbiano subito cessato di coltivare rapporti con l’Istituzione o ne abbiano avuti di così coperti, rarefatti ed evanescenti da non lasciare traccia. E’ il caso di Angelo Gatti, il colonnello incaricato da Cadorna di raccogliere i documenti per preparare la storia dell’Esercito in guerra, iniziato alla loggia “Propaganda massonica” il 28 giugno 1917. (19)

Dall’inizio del 1917 il GOI aveva ripreso la polemica contro le “mene temporalistiche” dei clericali (20) e messe le mani avanti contro la partecipazione della Santa Sede al futuro Congresso di pace: una battaglia rumorosa quanto superflua, giacché l’art. XV dell’accordo di Londra impegnava le potenze dell’Intesa a escludere il Papa dalla conferenza postbellica. Essa mostrava, invero, che i vertici del GOI non conoscevano affatto i termini dell’ engagement del 26 aprile 1915. Perciò essi cercavano solidarietà sulle rive della Senna, ma in ambienti esclusivamente anticlericali, proprio mentre il governo francese, tanto più dopo gli ammutinamenti militari della primavera, sentiva invece l’urgenza di coinvolgere appieno i cattolici nell’union sacrée. Dal canto suo il ministero Boselli era sorto per ampliare le basi del consenso del governo, sia nelle file dei giolittiani, sia in quelle, ancor più articolate e numericamente influenti nel corpo del paese, dei cattolici, che vi contarono ministri di peso, come Filippo Meda alle Finanze. (20) Sollevare riserve pubbliche contro la partecipazione della Santa Sede al futuro congresso di pace significava irritare i cattolici moderati e spingere i clericali intransigenti a ricordare il costo dell’unificazione nazionale ai danni del Papa e della chiesa cattolica, investiti da campagne d’opinione ove il confine tra laicità e irreligiosità spesso risultava esile, come si era veduto con la giunta Nathan al governo di Roma, e specialmente nel 1910-1911. (21)

L’altro fronte del GOI era la guerriglia contro la Gran Loggia d’Italia, per delegittimarla agli occhi delle Comunità massoniche estere che l’avevano riconosciuta o quanto meno per staccarne e incorporarne intere logge. In tale ottica la “Rivista massonica” dedicò ampio spazio alla rievocazione di Alessandro (Sandrino) Fortis, che nel 1908 era rimasto nel Supremo Consiglio presieduto da Saverio Fera, con Giovanni Camera e altri liberali di spicco, come Camillo Finocchiaro Aprile, parimenti ricordato da un necrologio.

Il 25 luglio 1917 il gran maestro aggiunto, Gustavo Canti “presa notizia della lettera (di dimissioni NdA) del Gran Maestro di Ettore Ferrari”, diramò il voto unanime del Consiglio dell’Ordine: rifiuto delle conclusioni del Congresso di Parigi e lotta per la vittoria sugli Imperi centrali per congiungere all’Italia “tutte le terre che le assegnano le ragioni etniche e storiche, la necessità della difesa militare e l’incontestabile suo diritto di predominio sull’Adriatico”. “Il programma del nostro lavoro – incalzò Canti – è ancora uno solo: consacrare tutte le nostre energie, l’intelligenza, gli averi, la vita se occorre, alla Patria, combattente per la causa dell’umanità”, sulla scia di quanto attuato “dal principio della guerra nel vasto campo dell’assistenza civile”. Canti annunciò infine l’imminente convocazione dell’Assemblea per eleggere “i nuovi reggitori dell’Istituzione”, con un anno di anticipo rispetto al 1918, scadenza della gran maestranza a norma delle Costituzioni dell’Ordine. Inizialmente il vertice del GOI tentò di circoscrivere la crisi alla sola sostituzione del gran maestro e del suo aggiunto, che avrebbe retto il mandato solo sino all’apertura della Gran Loggia. Canti concluse esortando i venerabili a informarlo “delle condizioni dello spirito pubblico dei singoli Orienti e del lavoro delle logge, che dovranno, anche nel periodo estivo, riunirsi frequentemente”. (22) In breve, però, fu chiaro che occorreva rimettere tutte le cariche al “popolo massonico”.

L’Assemblea generale delle logge massoniche d’Italia e colonie (con poteri di costituente per l’elezione del “Grande Oriente”) fu convocata il 12 agosto seguente (giorno XII, del mese VI dell’Anno di Vera Luce 000.917), nel pieno della consueta pausa estiva. La circolare, firmata da Canti e dal gran segretario aggiungo Giovanni Lerda (il socialista che si era opposto all’espulsione dei massoni dal partito nel congresso del PSI ad Ancona nell’aprile 1914), giunse ai destinatari tra fine mese e inizio settembre. Del resto la Gran Loggia fu fissata per domenica 25 novembre. Le Officine vennero tenute a prenderne atto entro il 25 ottobre nei confini del regno ed entro il 10 novembre nelle colonie. I loro lavori si sarebbero svolti “in camera di maestro”. Gli aventi diritto vennero chiamati a rinnovare non solo le due cariche supreme ma l’intero Consiglio dell’Ordine (o Grande Oriente), cioè il “parlamento” del GOI. In forza delle sue norme, questo avrebbe eletto il Governo dell’Ordine, formato da 21 membri, suddivisi in proporzione al numero degli iscritti ai due riti riconosciuti: il Simbolico e lo Scozzese. Particolarmente vincolante per la vita dell’Istituzione era però la clausola a suo tempo voluta da Ferrari: il Governo dell’Ordine doveva eleggere le supreme luci, o “giunta esecutiva” (1° e 2° gran sorvegliante, grande oratore, gran segretario e gran tesoriere) “tra i (suoi NdA) membri residenti in Roma”. Apparentemente tale misura era dettata da motivi pratici: in caso di urgenza l’esecutivo non poteva aspettare i due tre giorni all’epoca necessari per convocare e attendere l’arrivo dei “ministri” del GOI. Essa, però, creò un privilegio destinato a suscitare risentimenti in Orienti che si vedevano esclusi a priori dall’essere rappresentati al vertice della Comunità, nell’organo delegato ad assumere decisioni vitali su impulso di eventi straordinari interni ed esterni. Come la Chiesa, anche il GOI ebbe il suo “partito romano”, mentre il governo del paese continuava invece a comprendere esponenti non solo di varie correnti parlamentari ma, anzitutto, delle diverse regioni, senza che la loro residenza lontano dalla capitale costituisse pregiudizio per l’esercizio della funzione (23).
La consegna dei poteri supremi ai componenti del governo dell’Ordine dimoranti in Roma, suscitava perplessità proprio perché i vertici del GOI, reduci dal Congresso di Parigi, non avevano affatto risolto il conflitto tra il Compte-rendu ufficiale (dato alle stampe dal GOF e dalla GLF e anticipato da quotidiani francesi) e la decisione del GOI di non ratificarlo perché configurava “un incompleto programma di assetto europeo”.
Amareggiato, il gran maestro dimissionario rinunciò a protestare con Parigi. Il 28 settembre Ernesto Nathan lo incalzò da Caletta: “Caro Ettore, A mio avviso avete torto: chi pecora si fa lupo la mangia. Precisamente per il momento, i francesi hanno più di noi preoccupazioni a mantenersi in buone relazioni con noi, nella Massoneria una forza indubbiamente non alla loro inferiore. Dunque, colla ragione da parte nostra, bisogna affermarla, insistervi, metter loro colle spalle al muro. Invece ci sciroppiamo un’offesa come fosse un complimento; ammettiamo che si venga meno ai patti stabiliti, senza prendere i provvedimenti voluti dal caso: lasciamo diminuire il prestigio della Massoneria Italiana per non recar danno al loro; sentimento evangelico, troppo evangelico verso parte che quando può recar offesa s’ingegna…”. Nathan non intendeva lasciarsi identificare con la linea di Ferrari, a suo avviso troppo accomodante se non proprio rinunciataria: essa comportava di uscire di scena a vantaggio di “fratelli” meno impegnati sul fronte dell’interventismo intervenuto e del programma massimo propugnato dal GOI per non farsi sopravanzare in patriottismo dai nazionalisti, nemici storici della massoneria. Perciò Nathan informò Ferrari di aver approntato un suo documento e di essere pronto a pubblicarlo alla ripresa dei lavori. Anche se per ora esso non è noto, se ne possono arguire i contenuti da quanto l’ex sindaco di Roma disse e scrisse nei mesi seguenti.

La crisi nei lavori della loggia “Rienzi” e nel pensiero di Achille Ballori

Le ripercussioni della crisi sono documentate anche dai rari verbali di loggia pervenuti. Rivestono particolare importanza quelli della “Rienzi”, tra le più folte e prestigiose della capitale, all’epoca presieduta del venerabile Agesilao M. Filipperi. Il tema dominante delle sue riunioni (“tenute”) di ottobre fu il terzo inverno di guerra. In una adunanza d’inizio ottobre Vercelloni invitò a “riconoscere la disciplina di organizzazione che regna negli imperi centrali, disciplina veramente ammirevole e a cui si deve la forza di resistenza; occorre da parte nostra fare altrettanto, e dimostrare che la disciplina e l’organizzazione sono compatibili anche con la democrazia e colla civiltà e non sono retaggio solamente della razza teutonica, e più di tutto delle autocrazie”, in linea con quanto prescritto sin dal settembre 1915: subordinazione alle direttive senza pretese di informazioni sulle ascose decisioni di vertice.
Il 10 ottobre il sovrano gran commendatore del Rito scozzese, Achille Ballori, propose alle camere superiori i temi emersi nel IV Congresso nazionale del rito (6-7 maggio) e i mòniti che ne discendevano per i tempi venturi: “Non deve (…) tacersi che, mentre la tremenda guerra, tuttora in corso, ha disvelato virtù eroiche nei figli d’Italia, ha pure messo in luce che assai poco venne fatto, dalla ricostituzione politica della Nazione ad oggi, per valorizzare le energie economiche e per accrescerne la produzione, francando la Patria nostra dall’estero, fosse pur solo rispetto alle vettovaglie di prima necessità; più generalmente per organizzare il lavoro produttivo di beni materiali in modo da conseguirne maggior rendimento, e soprattutto per assicurare ai lavoratori, e più specialmente ai lavoratori della terra, una condizione di vita nella quale lo sforzo resti bilanciato dal tranquillo possesso della terra sulla quale la fatica delle famiglie lavoratrici si esercita, ed allietato da una civile ed equa partecipazione al profitto”. Il programma echeggiò temi da tempo serpeggianti e di lì a poco dominanti: “la terra a chi la lavora” (o “ai contadini”) e la compartecipazione delle maestranze agli utili d’impresa, quale antemurale rispetto a espropri delle grandi proprietà agrarie infruttifere e alla collettivizzazione delle industrie, il “bolscevismo” additato anche da Nathan quale pericolo supremo. Per conseguire lo scopo Ballori propose la “colonizzazione interna”, “tanto meno difficile oggi, in cui i progressi della scienza hanno tolto a parecchi ostacoli l’intensità in altri tempi spiegata a frustrare ogni tenacia di propositi e sacrifizio di persone”. Con prosa arcaica, Ballori si ricollegava al magistero di Adriano Lemmi che dal 1890, dinnanzi alla incipiente crisi evidenziata dai fasci dei lavoratori, specie in Sicilia e Toscana, aveva proposto di ricondurre alle campagne le migliaia di lavoratori altrimenti abbandonati all’emigrazione non tutelata da Stato e provvidenze governative. Ballori invocò inoltre l’obbligo di combattere con impegno adeguato la persistente diffusione della malaria. Concentrato sul programma sociale postbellico anziché piegata ad attizzare spiriti già anche troppo bellicosi e spesso faziosi, quello fu il suo ultimo messaggio ai fratelli del GOI.
La forma non fa però ombra alla sostanza. Le riflessioni di Ballori contengono significative assonanze con il pensiero di Giolitti, il massimo statista della Nuova Italia. Scrisse Ballori: “Non v’ha dubbio che l’Italia dopo la guerra dovrà gradatamente raccogliere tutte le sue energie per avviarsi ad un radicale rinnovamento (…). La guerra è stata democratica ed a riforme democratiche deve condurre, tanto nell’ordine politico che sociale: imperocché la guerra deve essere non solo di liberazione, ma di redenzione per tutte le classi lavoratrici, se si vuole da esse la cooperazione per riparare alle manchevolezze che la guerra, via via che si svolge, mette in evidenza. E’ dal ritorno dei lavoratori alle officine ed ancor più dei lavoratori alla terra che la Patria attende il suo risorgimento economico (…) Tornati alle loro case non potranno che compassionare lo sfacelo dei partiti politici (…) Essi, di ritorno dalle trincee ove si sono fusi animi e cuori, porteranno nelle opere di pace la stessa fede, la stessa energia, che animarono la loro azione militare (…) I destini dei popoli non possono essere che nelle mani delle democrazie”.
Più lapidario, il 13 agosto 1917 Giolitti disse: “In Italia le necessità economiche più urgenti saranno il risorgimento dell’agricoltura, la ricostruzione di una marina mercantile, l’utilizzazione di tutte le forze motrici, e una sapiente azione di governo che assicuri il lavoro alla classe operaia”. Chiusa l’età della “politica estera a base di trattati segreti”, “quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Da presidente del Consiglio aveva varato ampie profonde riforme e altre ne attuò nel suo quinto governo (1920-1921).
Nelle centinaia di balaustre, di discorsi e di articoli pubblicati nella “Rivista massonica” e nell’ “Idea democratica” dall’inizio del secolo alla svolta del 1917 non si trova alcun cenno alla finanza, alle banche, al “capitale”, quasi questo fosse un tabù proprio per un Ordine che proponeva la modernizzazione e il superamento dei conflitti tra gli Stati e le classi. Karl Marx, Rudolph Hilferding, la “scuola di Vienna” e i sociologi più accreditati, inclusi Robert Michels e Vilfredo Pareto, vennero completamente ignorati dalle riviste del GOI e dai dibattiti delle sue logge.

Il 16 ottobre 1917, una settimana dopo il discorso di Ballori, nella sede della “Rienzi” i “Fr. MM. Rappresentanti le LL. di Roma, Lazio, Abruzzi e Molise, preoccupati del disorientamento e della depressione dello spirito massonico che traggono origine principalmente dall’assenteismo della massoneria in quest’ora grave della vita nazionale e internazionale, riuniti in Roma per uno scambio di idee intorno ai mezzi più adatti a risollevare l’Ordine al posto d’onore, di autorità e di vigorosa attività che gli assegnano la sua essenza e le sue tradizioni, in vista della prossima assemblea generale della Comunione Italiana”, fecero voti che le prossime elezioni esprimessero “un governo dell’Ordine autorevole, capace, attivo, vigoroso che, rispondendo alle ansiose aspettative del popolo massonico, ne risollev(asse) lo spirito e la fede e le LL., pur tanto ricche di valori, di energie e di risorse, non più abbandonate a loro stesse, (fossero) in mano ferma e sicura valido strumento di vittoria in tutte le battaglie di progresso civile che nell’imminenza del rinnovamento politico del mondo la Massoneria, che volle imporre ed ottenere che l’Italia dichiarasse la guerra agli imperi centrali, prendendo il suo posto d’onore a fianco dell’Intesa, sap(esse) e po(tesse) rivendicare i risultati a pro’ della Democrazia senza indugi studi ed energie ai gravi problemi del dopoguerra”.
La folta rappresentanza di logge propose anche l’elezione diretta del Grande Oriente da parte delle province; la soppressione del Consiglio dell’Ordine, che esautorava il Grande Oriente; la suddivisione tra i membri della Giunta esecutiva delle competenze di governo e la rivendicazione dell’autonoma presenza della Massoneria nelle lotte per la democrazia.
“La massoneria – concluse-, associazione aristocratica con fini democratici, deve essere lo Stato maggiore dei Partiti, non un partito”. Era l’opposto di quanto avvenuto con la promozione del fascio parlamentare e della congerie di “comitati” locali nel cui ambito i massoni venivano sommersi nella babele di sigle, con grave danno di immagine, sino a smarrire o a veder vanificata la propria identità. Ai partecipanti risultò che la loggia “Galileo Galilei” di Firenze non si era associata al plauso, almeno formale, per l’azione dei delegati italiani a Parigi. Agli occhi di molti Nathan non era meno responsabile di Ferrari.
Varati interventi a sostegno delle famiglie più disagiate (distribuzione di scarpe agli orfani dei trasteverini caduti al fronte e di libretti di risparmio di 20 lire a 800 famiglie: Salvatore Barzilai ne aprì 20 di tasca propria) e convocata in camera di mezzo (compagni e maestri), nel clima “contristato” dall’offensiva austro-germanica avanzante dalla valle dell’Isonzo verso Venezia, la “Rienzi” votò le terne da presentare all’Assemblea per l’elezione alle cariche di gran maestro e di aggiunto. Per reggere il supremo maglietto indicò, nell’ordine, Achille Ballori (con 65 preferenze su 72 votanti), Barzilai (48) e Giovanni Antonio Vanni (47). Per gran maestro aggiunto furono indicati Giovanni Battista Pirolini (64 su 73), il socialista Orazio Raimondo (51) e Giuseppe Marchesano (42). Il nome di Nathan non affiorò in alcun modo. Per tutti Ballori era il degno successore di Ferrari.

L’assassinio di Ballori…

Ma un’altra imprevista e irreparabile sciagura si abbatté sul Grande Oriente d’Italia.
Il 30 ottobre 1917 Vittorio Emanuele Orlando insediò il nuovo governo in successione a Boselli, messo in minoranza in coincidenza con la “rotta” di Caporetto ma per dinamiche partitico-parlamentari, senza che i deputati avessero cognizione del dramma che si stava consumando sul fronte di guerra. Orlando formò una compagine di unione nazionale, con Bissolati, Fradeletto, Nitti,.. Orientato alla sostituzione di Luigi Cadorna con un comandante supremo meno ostico per gli Alleati e a far aprire la Camera con l’intervento di tutti gli ex presidenti, incluso Giovanni Giolitti, da anni inviso alla maggioranza dei massoni, il governo mirò a corroborare il massimo sforzo per la vittoria con il consenso più ampio possibile dell’opinione nazionale, all’insegna, quindi, dell’accantonamento di toni esasperatamente polemici e di quanto potesse dividere mentre v’era bisogno di unità.
In quelle ore, il 31 ottobre, Achille Ballori, candidato preminente alla gran maestranza, fu ucciso a revolverate da Lorenzo D’Ambrosio, farmacista avellinese, ex socialista, sedicente anarchico, già ricoverato nel manicomio di Nocera dal 1916 al marzo 1917. Ballori venne ripetutamente colpito in circostanze confuse, mentre, in compagnia di Ulisse Bacci, segretario del gran maestro, accudiva al suo ufficio a Palazzo Giustiniani. (24). L’assassino venne arrestato l’indomani. Si aggirava, armato, in prossimità dell’abitazione romana di Ernesto Nathan, debitamente sorvegliata. Si arrese senza opporre resistenza. Fu rinchiuso in manicomio criminale. L’indagine sommaria sull’omicidio e la sua fine lasciarono senza risposta molti interrogativi.
L’assassinio di Ballori da parte di un “forsennato” (come D’Ambrosio e detto nel verbale della Rienzi; Nathan lo definì invece “paranoico omicida” (25) ) rischiò di gettare la famiglia di Palazzo Giustiniani nel caos: prospettiva rapidamente superata con la candidatura di Ernesto Nathan alla successione di Ferrari. Questa non bastò tuttavia a rasserenare gli animi. Il 13 novembre il venerabile della “Rienzi” dichiarò di essere “stufo di raccomandare fratelli militari”, mentre uno tra i presenti denunciò la “politica disfattista del governo” e sostenne “la necessità della limitazione delle libertà in momenti tanto tragici, e il dovere dell’ubbidienza da parte dei cittadini, che dovrebbero accettar senza critiche ogni restrizione”. A sua detta, la Camera non era all’altezza del momento: del resto essa era stata “fatta dall’on. Giolitti, fautore della neutralità e del parecchio”. Bisognava pertanto “richiamare i FF deputati ad una più stretta vigilanza e a non cedere alla pace tanto caldeggiata dai giolittiani”. Il 27 novembre un fratello della “Rienzi” deplorò che gli ambulacri dei ministri fossero ormai “anticamere di prostituzione” anche per l’assunzione di “signorine” in tresca con gli imboscati.

.. la rielezione di Ernesto Nathan e la candidatura oscurata di Gerolamo Gatti

Il 25 e 26 novembre si svolse l’assemblea del GOI, preceduta dalla soluzione di complesse questioni di procedura. In primo luogo, dichiarata la “materiale impossibilità di procedere allo scrutinio delle terne” votate entro il 25 ottobre e la loro nullità, scrutinò quelle proposte entro il 20 novembre. Durante il loro spoglio fu discussa la relazione morale del governo uscente e vennero presentati numerosi ordini del giorno quali “direttive” per il nuovo governo dell’Ordine.
Secondo il resoconto pubblicato dalla “Rivista Massonica”, nelle forme di rito l’assemblea elesse gran maestro Ernesto Nathan con 151 suffragi su 178 votanti; e Placido Marensi quale aggiunto con 129 consensi su 176. Il verbale ufficiale omise però il passaggio più delicato: dallo spoglio delle preferenze espresse dalle logge per la elezione a gran maestro risultavano 2016 voti per Nathan, 1213 per Salvatore Barzilai e 721 per Ettore Ferrari. Per la carica di aggiunto furono invece assegnate 1187 preferenze a Gerolamo Gatti, 971 a G.B. Pirolini e 962 a Placido Marensi. Se proposta all’assemblea, come di consueto la terna avrebbe dovuto o almeno potuto portare all’elezione di Gatti, cinquantenne, clinico insigne, socialista, deputato dal 1897 al 1909, fautore del rifiuto della sostituzione della lotta di classe con la “democrazia rurale” (26) . Iniziato massone nella loggia “Galileo Galilei” il 20 aprile 1912, compagno e maestro dal 19 novembre dello stesso anno, nel 1913 Gatti fu nominato senatore del regno. Fresco di adesione al partito socialista riformista di Ivanoe Bonomi e Ferri, Gatti aveva i requisiti per interpretare un nuovo corso della massoneria italiana: patriottica e istituzionale, nazionale senza derive nazionalistiche. Proprio la sua loggia, però, era stata l’unica ad astenersi dal plauso di rito per la delegazione massonica italiana al congresso di Parigi. La sua candidatura ad aggiunto di Nathan risultava dunque oggettivamente problematica.
Come poi spiegò il venerabile della “Rienzi”, “mancarono tutti i reggitori della passata amministrazione e di fronte a questo assenteismo si abbandonò l’idea del combattimento”. L’elezione di Nathan assumeva “un alto significato, specialmente di fronte al Vaticano, che protegge la causa dei bulgari, tedeschi e slavi”. Perciò il discorso di insediamento del nuovo gran maestro andava fatto circolare tra i soldati al fronte quale antitesi rispetto alle parole del papa “che fu una delle principali cause del grave incidente”, ovvero della ritirata da Caporetto al Piave. Quanto al suo aggiunto – precisò il venerabile- , Gatti era stato prudentemente scartato, sia perché era stato creato senatore da Giolitti sia perché aveva “pochissima attività massonica”. Era a tutti noto l’interventismo spesso esasperato di Pirolini; la sua elezione avrebbe scontentato la cospicua parte di fratelli che si erano riconosciuti in Gatti. Di lì la proposta di Marensi: una scelta di mediazione e, quanto possibile, di conciliazione. (27).

Nel discorso di insediamento Nathan disse che era ora “di sgomberare le colonne, se ne esiste la genìa, dagli esseri neutri, al guadagno diretto o indiretto propensi, al lavoro ed alla responsabilità no”. La massoneria era associazione non politica ma patriottica; educativa, non settaria. Doveva dedicarsi alla mutua educazione e alla “costituzione di agenzie di collocamento, composte di ambo i sessi, per trovare occupazione ai profani di ambo i sessi, così parando in parte ai bisogni della pace non lontana”, organizzare cooperative di consumo e, ove fattibile, di produzione, scuole popolari serali per adulti, d’arti e mestieri per i fanciulli, “perché insieme ai doveri e diritti si educhino all’indipendenza economica”: una visione attardata rispetto alle trasformazioni economiche e sociali accelerate dalla guerra industriale anche in Italia in corso da due anni. Il gran maestro concluse col veemente incitamento a schiacciare senza misericordia la testa del pacifismo, “vipera nascosta”. Ribadì analiticamente: “Nelle gerarchie religiose dal Pontefice allo scaccino, nella gerarchia politica dal Re all’applicato di quarta classe, nelle scuole o partiti militanti, dal clericale al socialista, nei commerci dal banchiere al rigattiere, negli operai dal capo officina al bracciante, nei proprietari dal grande feudatario al minuscolo mezzadro, nelle libere professioni dal principe del foro della cattedra, del tavolo anatomico all’ultimo maestro di prima elementare, nella magistratura dal ministro di Grazia e Giustizia al vicepresidente dell’ultimo comune del Regno, guerra a tutti i pacifisti sino a quando le loro insidie non siano trionfalmente domate”. In contrasto con eccessi retorici (i riferimenti al re e al papa suonavano quanto meno inopportuni, anche perché entrambi erano al di fuori e al di sopra della giurisdizione non solo delle Comunità massoniche ma di quella del regno stesso), Nathan suggellò il suo insediamento esprimendo sentimenti patriottici al sovrano, al presidente del Consiglio, a Clemenceau, Lloyd George,Wilson e ai re del Belgio, della Serbia e della Romania. Su sua proposta l’Assemblea acclamò Ferrari gran maestro onorario a vita e Gustavo Canti, assente per indisposizione, onorario aggiunto a vita. Tramite il primo aiutante di campo, generale Arturo Cittadini, Vittorio Emanuele III ringraziò in lui la massoneria italiana (con “parola alata”, commentò poi Nathan). Altrettanto fecero, direttamente o indirettamente, gli altri destinatari dei suoi messaggi, inclusi i grandi maestri del GOF e della GLF, Corneau e Peigné. Il re di Serbia gli mandò i suoi “fraterni affettuosi saluti”.

Nella prima circolare alle logge Nathan indicò il programma d’azione: in primo luogo il dovere di ogni loggia e di ogni massone di “guadagnare con l’azione nostra la fiducia in noi riposta dalla parola augusta” del re. Se Ferrari aveva sempre evitato ogni incontro personale con il sovrano e non lo aveva mai menzionato nei suoi scritti e discorsi, tornato al governo dell’Ordine Nathan espresse l’ “omaggio di affetto, di ammirazione, di solidale opera” a Vittorio Emanuele III, “Capo dello Stato, Capo dell’esercito”, per unire “unanime la Italia civile alla Italia militare”: erano parole nuove per il Grande Oriente. Inoltre il gran maestro esortò a cacciare i profani dal tempio, quanti in loggia entravano per opportunismo: la “solidarietà” massonica, egli deplorò, “presso molti è sinonimo di camorra”. Infine incitò ancora ad annientare i pacifisti: “Dovete riferirmi immediatamente qualsiasi fatto di pacifismo manifestatosi nella Valle (…) dobbiamo limitarci a fatti, fatti dove, senza tema d’errore, si possano citare i nomi delle persone implicate e di coloro i quali hanno riferito”. A quel modo il GOI assumeva la guida del fronte interno candidandosi a macchina informativa di gran lunga superiore rispetto a quella di partiti, movimenti e degli sparuti nuclei degli “intellettuali” interventisti.

Il primato del programma imperiale sulla fratellanza tra i popoli

Se un tempo la massoneria italiana aveva alzato il vessillo del pacifismo e della fratellanza tra i popoli, aveva promosso congressi, convegni e riviste intonate alla soluzione pattizia dei conflitti interstatuali e alla comprensione reciproca dei popoli al di là dei conflitti contingenti, il nuovo corso indicò nel pacifismo “la vipera nascosta”. Neppur meritevoli di menzione, i “neutralisti”, assoluti o condizionati, erano ridotti a sottoclasse dei pacifisti. Senza nominarli perché ben noti ai suoi uditori e ai destinatari delle sue balaustre (o circolari), questi erano i socialisti e i clericali, anzi i papisti, e i sospettati di disfattismo, a cominciare dai giolittiani, impeciati di neutralismo congenito. Il GOI non aveva alcuna possibilità di intervenire nel caos in corso nell’ex impero di Russia. Aveva però due obiettivi: scongiurare la riapertura della “questione romana” e ottenere all’Italia non solo il Brennero e Trieste ma anche l’Istria, la Dalmazia e Fiume, persino oltre l’antico “patto di Ausonia”, quale base e garanzia di sicurezza e di espansione. Per conseguirli doveva però accantonare ogni riserva nei confronti della Corona.
Pertanto il GOI disconobbe definitivamente le risoluzioni del Congresso di Parigi. A loro volta, però, il GOF e,ancor più, la GLF procedettero nel solco del programma enunciato da Lebey e rafforzato dai Quattordici punti l’8 gennaio 1918 enunciati dal presidente degli USA, Wilson: libertà dei mari e autodeterminazione dei popoli e, quindi, plebisciti per demarcare i confini nelle zone mistilingue (28).

Nel 1919 il gran maestro della Gran Loggia di Francia firmò la prefazione di Les Revendications Nationales des Serbes, Croates et Slovènes présentées aux Frères des Pays Alliés: drastica confutazione dell’accordo di Londra fra l’Italia e l’Intesa (29). Tra le massonerie francesi e italiana tornò il gelo. Parigi poté tuttavia accampare di schierarsi per i “diritti dei popoli oppressi”: gli stessi che, per decenni predicati dalla massoneria italiana, nell’aprile 1918 erano stati al centro del convegno di Roma. In quel contesto sia Wilson sia gli ideali della Società delle Nazioni vennero guardati dal GOI con sospetto crescente.
Un tempo immaginata e predicata per conseguire i confini etnici e linguistici, poi quelli naturali (di gran lunga più estesi), dall’autunno 1917 anche per il GOI la guerra ebbe una meta imperialistica, con obiettivi di espansione territoriale non minori rispetto a quelli vaticinati dai nazionalisti. La fratellanza tra i popoli fu posposta alla conquista dello spazio vitale e la Società delle Nazioni, vanto del Congresso di Parigi, venne retrocessa a utopia.

NOTE

  1. A. A. MOLA, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, pref. di Paolo Alatri, Milano, Bompiani, 1994, 3^edizione, pp. X-1062 (la 1^, col titolo Storia della Massoneria dall’Unità alla Repubblica, pp.822, uscì nel 1976). La Massoneria italiana assunse definitivamente la denominazione di Grande Oriente d’Italia nella sua IV assemblea costituente (Firenze, maggio 1864). Nelle precedenti assemblee (Torino, 26 dicembre 1861-1 gennaio1862; Torino, marzo 1862; Firenze, 1-6 agosto 1863) aveva utilizzato alternativamente Grande Oriente Italiano e Grande Oriente d’Italia. Neppure la IV assemblea rivendicò alcuna continuità logico-cronologica tra il nuovo e il Grande Oriente d’Italia costituito a Milano il 20 giugno 1805 dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato “en Italie”, fondato a Parigi il 16 marzo precedente.
    Sulla Serenissima Gran Loggia d’Italia, insediata nel 1910 dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato presieduto da Saverio Fera, dal quale nel 1908 si divise il Supremo Consiglio presieduto da Achille Ballori e rimasto all’interno del Grande Oriente d’Italia, v. L.PRUNETI, Annales. Gran Loggia d’Italia degli A(ntichi) L(iberi) A(ccettati) M(uratori). Cronologia di storia della Massoneria italiana ed internazionale, a cura di A. A. Mola, Roma, Atanor, 2013. Cenni alle Costituenti massoniche in M. NOVARINO, Da Torino a Firenze. I democratici alla guida della massoneria, in S.ROGARI (a cura di),1865.Questioni nazionali e questioni locali nell’anno di Firenze capitale. Atti del convegno di studi, Firenze, 29-30 ottobre 2015, Firenze, Polistampa, 2016, pp.165-187 e
    A.A.MOLA, Le ripercussioni del trasferimento della capitale sulla rappresentanza del Piemonte in Parlamento(1865-1870), in V.SERINO (a cura di), Storia e umanità al tempo di Firenze capitale. All’ombra di Palazzo Vecchio, sulla via di Roma, Firenze, Pontecorboli, 2015, pp137-153.
  2. “Compte rendu des travaux du Grand Orient de France – Suprème Conseil pour la France et les Possessions Françaises, 73^ Année, Janvier 1917-décembre 1917, Paris, Secrétariat Général du Grand Orient de France, rue Cadet 16, 1917, pp.69-77. L’autore esprime gratitudine ad André Combes e al rimpianto Charles Porset per avergli propiziato la consultazione della Biblioteca e dell’Archivio del Grande Oriente di Francia e a François Collaveri per averlo guidato nella Biblioteca dellla Gran Loggia di Francia.
  3. Ivi, pp.75-77. L’Appello affermò che la pace avrà per fondamento l’indipendenza delle nazionalità, con le garanzie necessarie contro ogni ritorno di una nuova guerra, tramite l’arbitrato obbligatorio e una sanzione internazionale, e concluse: “Travailler pour une Europe libre et pour un monde libéré c’est notre but. Délivrer les nations ainsi que les hommes opprimés, c’est notre mission!”. V. anche Y. HIVERT-MESSECA,L’Europe sous l’Acacia. Histoire des Francs-maçonneries européennes du XVIII siècle à nos jours,, II, Le XIX siècle. Le temps des nationalités et de la liberté, Paris, Dervy, 2014.
  4. A.COMBES, 1914-1964.La Franc-Maçonnerie coeur battant de la République, préf. D’Andreas Onnefors, cap. I, 1914-1918, Du pacifisme à l’Union Sacrée, Parigi, Dervy, 2017.
  5. E.LENNHOFF, Il libero muratore, pref. Di Lino Salvini, appendice di Giordano Gamberini, Livorno, Bastogi 1972, pp.317-23 (Internazionalismo massonico) e pp.365-68 (Massoneria e Società delle Nazioni).
  6. Sin dal marzo 1862, appena eletto gran maestro del GOI, Filippo Cordova, aveva chiesto alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra il riconoscimento della Comunità massonica italiana “nazionale”, ma non ebbe riscontro. Esso venne istituito nel 1972 e fu revocato nel 1993, quando la GLUI riconobbe la Gran Loggia Regolare d’Italia allestita da Giuliano Di Bernardo, ex gran maestro del GOI. In merito v. G. DI BERNARDO,Filosofia della Massoneria e tradizione iniziatica, Venezia, Marsilio, 2015: un racconto sulla cui rispondenza ai fatti non si entra in questa sede.
  7. L. PRUNETI, La Tradizione massonica scozzese in Italia, Roma, Edimai, 1994; ID:, Quel che accadde nel 1908 , “Officinae”, a. VII, n. 4, dicembre 1995; F.CONTI, Storia della Massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo, Bologna, il Mulino, 2003, p. 193 (“Il Congresso mondiale dei Supremi Consigli del rito scozzese, tenutosi a Washington nel mese di ottobre (1912), riconobbe infatti il gruppo di Fera come l’unico regolare esistente in Italia” e, più ampiamente, A.A.MOLA, Op. cit., pp. 278 e ss. E ID., La massoneria italiana tra iniziativa politica e conflitti interni in R.UGOLINI (a cura di), Prima della tempesta. Continuità e mutamenti nella politica e nella società italiana e internazionale (1901-1914), Atti del LXVI Congresso di storia del Risorgimento italiano (Roma, 23-25 ottobre 2013), Roma ISRI, 2015, pp.237-302.
  8. J.A.FERRER BENIMELI – M. A. DE PAZ SANCHEZ, Masoneria y pacifismo en la Espana contemporanea , Zaragoza, Universidad de Zaragoza, 1991. Le date del Congresso vennero decise sin dalla Conferenza del gennaio precedente. La loro scelta evidenziò la natura francocentrica dell’iniziativa, assai più che universalmente liberomuratoria. Del resto il 24 giugno 1717 era data emblematica non tanto per il GOF e la GLF quanto per la Gran Loggia Nazionale Francese, insediata a Parigi dal 1913 e subito riconosciuta dalla GLUI, che non aveva motivo di associarsi a eventi promossi da Comunità massoniche non riconosciute, quali appunto il GOF, la GLF e le altre aderenti alla Conferenza e al Congresso di Parigi. La divaricazione tra le Obbedienze massoniche si ripercosse negativamente sulla genesi dell’idea originaria della Società delle Nazioni, a vantaggio della sua seconda fase (1919 e seguenti), propriamente politica anziché liberomuratòria.
  9. Sulla sua figura v. D. LEFEBVRE, André Lebey, intellectuel et franc-maçon sous la IIIe République. Parigi, Edimaf, 1999. Al temine di un complesso itinerario culturale e politico, nel 1935 Lebey andò in sonno. Morì in solitudine tre anni dopo, con l’incubo di essere avvelenato dalla massoneria.
    Su invito dei massoni elvetici, il 7 ottobre 1916 Lebey svolse una relazione alla loggia “La Fraternité” di Ginevra su La France, l’Europe et la Grande Guerre. Vi rievocò il percorso del pacifismo massonico e ricordò che sino all’ultimo minuto in Francia non si voleva credere alla guerra mentre l’omaggio reso il 14 luglio 1914 dai massoni francesi all’Alsazia-Lorena volle essere solo “una festa nazionale, che, ricordando la presa della Bastiglia, celebrava l’emancipazione dello spirito umano e l’avvento della libertà nel mondo”, non una provocazione nei confronti della Germania. La massoneria francese, aggiunse, fece il possibile per evitare il conflitto, invocando l’avvicinamento franco-germanico. La Svizzera, concluse, “paese libero, era l’esempio di quello che potrebbero essere gli Stati Uniti d’Europa” (Grand Orient de France-Suprème Conseil pour la France et les Possessions françaises, “Recueil Semestriel et Confidentiel du 1° janvier au 30 Juin 1916, Secrétariat Général du GOF, 1916, pp.22-30). Anche in Italia nel 1917-1918 gli “Stati Uniti d’Europa” o una Federazione europea costituirono l’alternativa alla “Società delle Nazioni”: una opzione, questa, condizionata dall’intervento degli USA nella Grande Guerra e dall’enunciazione dei Quattordici punti da parte del presidente Wilson (8 gennaio 1918)
  10. Léon Bourgeois (Parigi, 1851-1925), collaboratore di Emile Combes nella elaborazione delle “leggi laiche” del 1905 che comportarono la rottura diplomatica tra la Francia e la Santa Sede, deputato radicale dal 1888 e subito sottosegretario di Stato all’Interno, nel 1895-1896 presiedette il primo governo radicale francese col sostegno dei socialisti. Fautore del riformismo sociale (teorizzato in Solidarité), ministro dell’Istruzione nel 1898, presidente della Camera e ripetutamente ministro degli Esteri, nel 1910 pubblicò Pour la Société des Nations, prima enunciazione organica dell’idea ripresa e sviluppata dal congresso parigino del giugno 1917. Più volte ministro del corso della Grande guerra, nel 1919 guidò la delegazione francese che elaborò il Patto della Società delle Nazioni. Premio Nobel per la pace nel 1920, riscosse ampio successo nell’Assemblea della Società stessa a Ginevra.
    Sulla sua opera A.COMBES, Histoire de la Franc-Maçonnerie au XIX siècle, II, Parigi, Ed. du Rocher, 1999; J.LALOUETTE, La libre pensée en France, 1848-1940, préf di M. Agulhon, Parigi, Abin Michel, 1997. Sul Libero pensiero v. anche P. ALVAREZ LAZARO, Libero pensiero e Massoneria, pref. di Aldo A. Mola, Roma, Gangemi, 1991.
  11. “Il Corriere d’Italia”, quotidiano cattolico della sera, aveva edizioni speciali per l’Italia, Centrale, il Mezzogiorno e la Sardegna. Nel 1917 pubblicò Dal sabotaggio massonico dell’Italia alla Nota Pontificia , Roma ed. Francesco Ferrari Librario, stampato dalla Tipografia Pontificia dell’Istituto Pio IX, 1917,pp. VIII-236.
  12. Nathan indossò l’uniforme di fanteria, con le mostrine della Brigata Torino. In “Preparazione” un “vecchio militare” domandò “se le autorità militari sapessero della gita e dello scopo di essa e l’abbiano perciò in qualche modo sanzionata; o se il servizio militare del tenente Nathan consista nel vestire l’uniforme della Brigata Torino – a quel modo che i Sovrani vestono la uniforme dei reggimenti stranieri di cui sono capi onorari – ed egli possa andare liberamente dove gli pare e piace conservando in uniforme quel meraviglioso senso di inopportunità che già albergò sotto la prefettizia del Sindaco di Roma”. L’ “Idea Nazionale” affacciò l’ipotesi che Ernesto fosse stato confuso con il figlio, Giuseppe, tenente di complemento del genio, a Londra con incarico speciale sin dall’inizio della guerra. Sulla famiglia Nathan v. R. UGOLINI,Ernesto Nathan tra idealità e pragmatismo, Roma. Edizioni dell’Ateneo, 2003. Nathan fece domanda di arruolamento volontario al rientro dalla missione a San Francisco, ove aveva rappresentato l’Italia all’Esposizione, scrivendo: “Offro alla patria le mie vecchie ossa”. “Avrebbe potuto avere un grado superiore, ma egli non voleva brigare” scrisse A. LEVI in Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan (Firenze, Ariani, 1927, p. 262). Assunse servizio quale tenente nell’81° Reggimento di fanteria e fu addetto allo Stato Maggiore del VI Corpo d’Armata e poi della II Armata.
  13. A. MOLA, Storia della Massoneria in Italia, Milano, Bompiani, 1976, p.398, poi in F. CONTI, Op. cit., p.252.
  14. Una rassegna esaustiva della “R.M.” in E. SIMONI, Bibliografia della Massoneria italiana, III, Indice sisrtematico degli articoli della “Rivista della Massoneria Italiana” e della “Rivista Massonica”(1870-1926), Foggia, Bastogi, 2006. Nel n. 7 del 1917 la “R.M.” ricordò il bicentenario della fondazione della Gran Loggia d’Inghilterra” (in realtà “di Londra”).
  15. “Rivista Massonica”, a. XLVII, 1916, n.3, pp. 103 e ss.
  16. Su di lui profilo in Dizionario biografico degli Italiani, ad nomen.
  17. A. MOLA, Op. cit., p. 378
  18. F. MARTINI, Diario, 1914-1918, a cura di Gabriele De Rosa, Milano, Mondadori,1966, p. 951.
  19. Su Angelo Gatti v. Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre-9 novembre 1917. Relazione della Commissione d’Inchiesta, ed. anastatica con introduzioni critiche, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito-Centro Europeo Giovanni Giolitti, 2013, pp. 37-45. In nessuna delle sue numerose opere memoriali e narrative, né negli appunti inediti conservati tra le sue Carte all’Archivio Storico del Comune di Asti si rinviene cenno all’iniziazione massonica. Essa è però documentata nella “Matricola” del GOI (diploma n. 49.950), sotto la data del 28 giugno 1917, lo stesso giorno dell’apertura del Congresso di Parigi.
  20. D.VENERUSO, La Grande Guerra e l’unità nazionale. Il ministero Boselli (Torino, Sei, 1996, p. 78) osserva che “Il ministero Boselli dava in sostanza tutte le garanzie richieste per far rispettare la tregua indispensabile per evitare la guerra civile tra le opposte fazioni”.
  21. Sulle intemperanze anticlericali e antipapiste di Nathan v. A. A. MOLA, Il Papa e la questione romana nell’azione della massoneria in L.BOTRUGINO (a cura di), “Inutile strage”. I cattolici e la Santa Sede nella prima guerra mondiale. Raccolta di Studi in occasione del Centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale (1914-2014), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, pp. 187-232.
  22. Circolare del gran maestro aggiunto del GOI, Gustavo Canti (Archivio privato).
  23. La lontananza da Roma dei ministri e dei maggiorenti della vita politica italiana fu tra le cause della fragilità del regime statutario incentrato sul triangolo scaleno che da un canto aveva il re e il governo del re (esecutivo), dall’altra il legislativo e alla base il corpo elettorale. In stato di necessità il re dovette ricorrere e talvolta ripiegare su notabili presenti a Roma o pronti ad accorrervi. Fu il caso dell’ottobre 1922 , quando la crisi del governo Facta venne condizionata dalla stasi di Giolitti a Cavour mentre Mussolini, convocato telegraficamente come Giolitti stesso e Meda, alle 05 del 28 ottobre e il giorno seguente a contatto telefonico con Roma (a differenza di Giolitti e di Meda), raggiunse la capitale e fu incaricato di formare il governo di coalizione nazionale comprendente fascisti (37 su 543 deputati), nazionalisti (sparuti), cattolici del partito popolare, demosociali e giolittiani, come il ministro dell’Industria, Teofilo Rossi di Montelera, che albergava al Grand Hotel di Roma. Altro autorevole giolittiano presente nella capitale fu Francesco Cocco-Ortu, ricevuto dal re nel corso delle frenetiche consultazioni in vista della inevitabile sostituzione di Facta, che, già dimissionario, aveva avuto la leggerezza di diramare il decreto comportante la prolamazione dello stato d’assedio in tutte le province del regno senza la preventiva firma del sovrano e quindi in forma del tutto irrituale.
  24. Di Achille Ballori v. La Massoneria per la guerra, pref. di Giulio Provenzal, Roma, Casa editrice l’“Agave”, 1917. Su di lui Commemorazione di A. B. tenuta la sera dell’11 marzo 1918 alle Loggie riunite di Bologna. Bologna, Equinozio d’autunno dell’Anno della Vera luce 000918.
  25. Circolare n. 61, Roma, 5 dicembre 1917 (Archivio privato). V. anche “Rivista massonica”, a. XLVIII, 1917, pp.302-304.
  26. Dizionario biografico degli Italiani, ad nomen. Gatti (Gonzaga, 1866- Firenze, 1956) venne nominato senatore il 23 novembre 1913 nell’ “infornata” di 28 patr es comprendente Alfredo Frassati, Romolo Tittoni, Pullè e Forlanini. Convocato il 3 dicembre, giurò il 9 seguente. La sua “carriera” è emblematica. Iscritto al partito socialista riformista nel 1917, aderì poi al fascismo. Il 14 novembre 1945 l’Alta Corte di giustizia lo dichiarò decaduto da senatore del regno: una “punizione” annullata dalla Corte di Cassazione dopo la soppressione del Senato del Regno. L’Autore serba memore gratitudine verso i grandi maestri Giordano Gamberini e Lino Salvini, che dal 1973 gli aprirono l’Archivio storico del GOI ove rinvenne e studiò i Verbali della R.L.”Rienzi”.
  27. Placido Marensi, dignitario massonico di non primaria grandezza, non compare in V. GNOCCHINI, L’Italia dei liberi muratori, Roma, Erasmo, 2005. Su di lui F.CONTI, Op. cit.,p. 253, ove però non si dice che egli venne anteposto al candidato espresso dalle logge, Gerolamo Gatti.
  28. I. GARZIA, L’Italia e le origini della Società delle Nazioni, Roma., Bonacci, 1995. Non vi si trova cenno della Conferenza e del Congresso di Parigi del 1917 né menzione di Ferrari, Nathan, Meoni, Beneduce e delle vicende qui evocate.
  29. Parigi, L’Emancipatrice, 1919. Il generale Peigné vi scrisse che la questione serba non era stata risolta al Congresso di Parigi “en présence des desiderata d’une puissante nation voisine”, cioè l’Italia. Va rilevato che i “fratelli serbi”, membri della loggia “Cosmos” n. 288, all’obbedienza della GLF, prospettarono il quadro complessivo delle frontiere postbelliche tra il nascente Stato jugoslavo con Romania, Austria e Italia complete di capitoli su Trieste, Fiume, la Dalmazia e l’Albania. Secondo tali rivendicazioni il confine italo-jugoslavo andava fissato a ovest di Trieste e di Gorizia, con esclusione di ogni pretesa dell’Italia su Istria, Fiume, Dalmazia, Albania, in totale disconoscimento dell’accordo di Londra tra Roma e l’Intesa, i cui termini a quel punto erano noti. Su tali basi era impossibile qualsiasi composizione pattizia.