I Diritti umani: settantenni di belle speranze

Appena settantenne la Dichiarazione universale dei diritti umani da molti è considerata decrepita. Da scordare. Perciò il suo compleanno scivola via senza eco soverchia. Eppure non è affatto “anziana”. “Diversamente giovane”, essa ha generato molteplici Carte e Convenzioni e ha ispirato e anima una miriade di “rivendicazioni” che ancora attendono riconoscimenti da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite o almeno da Unioni di Stati, a cominciare da quella europea, ferma al Trattato di Lisbona. A quanti (sempre più numerosi, purtroppo) sbuffano appena sentono accennare a “diritti umani” va rivolta una domanda semplice: senza di essi l’umanità starebbe forse meglio? Tra altri, la Dichiarazione include anche il diritto al dissenso e a sbuffare, di dire e di far prevalere la propria opinione, ma nel confronto razionale, senza urla né insulti. Con il libero voto, perché senza il loro esercizio i diritti rimarrebbero parole al vento, retorica. La seconda domanda è: ma chi propiziò l’avvento dei “diritti umani”, quale “cultura” ne generò l’avvento? Al di fuori di ogni apologia, essi albeggiarono con la Massoneria moderna, catena fraterna di uomini liberi e di buoni costumi. Per millenni l’umanità visse di doveri, di obblighi, precetti…, succuba di poteri politici e religiosi. I pochi dissenzienti dell’età greco-romana (Epicuro e Lucrezio) ebbero e ancora hanno pessima fama. Furono liquidati come predicatori di un naturalismo bollato come degrado bestiale. All’opposto, essi proposero di fondare la libertà personale sulla ragione, al di fuori di incubi artificiosi, della manipolazione delle coscienze. In punta di piedi Marco Tullio Cicerone, che traghettò a Roma il pensiero greco, riconobbe che la legge è “ratio summa, insita in natura”. Non ebbe fortuna. Fu assassinato per motivi politici. La sua testa, mozzata dal busto, venne recata lugubre trofeo alla moglie di Marco Antonio, che gli conficcò uno spillone nella lingua finalmente inerte.

Diritti rivoluzionari ed equilibratori

La Dichiarazione dei diritti umani fu solennemente approvata dall’Assemblea dell’Onu che in via eccezionale si radunò non a New York, sua sede dalla fondazione (25 giugno 1945), ma a Parigi, ove nel 1789 era stata proclamata quella dei Diritti dell’uomo e del cittadino, sulla scia della Dichiarazione d’indipendenza della Nuova dalla Vecchia Inghilterra. Il 4 luglio 1776 (tutt’oggi festa degli Stati Uniti d’America) quest’ultima enunciò che “tutti gli uomini sono creati uguali” e “sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili”, quali “la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Aggiunse che il popolo ha diritto di mutare il governo, se questo conculca i diritti irrinunciabili dei suoi cittadini.
A perfezionamento dell’entusiastica Dichiarazione del 1789, la Costituzione francese del 3 settembre 1791 precisò che “gli uomini nascono liberi e rimangono uguali nei diritti: (…) la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. La Convenzione repubblicana francese il 24 giugno 1793 legittimò la rivoluzione permanente: “Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”: “lotta continua”, con tutte le conseguenze prevedibili, quali il Terrore, la legge sui sospetti, le esecuzioni sommarie…, il caos. La Costituzione francese del 1795 ripristinò l’ordine morale: “la libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti degli altri (…) Quanto non è vietato dalla legge non può essere impedito (…) Nessun individuo, nessuna riunione parziale di cittadini può avocare la sovranità”. L’ordine sociale, aggiunse, fonda sul mantenimento delle proprietà.
Quei principi vennero ribaditi dagli articoli basilari delle numerose Carte costituzionali dell’Ottocento. La loro enunciazione non significò affatto che divenissero realtà effettuale. Però essi rimasero, quasi luci di fari intermittenti per la lunga navigazione dal buio dei secoli andati verso un futuro luminoso, di fratellanza tra i popoli e di pace all’interno sei singoli Stati.
Malgrado quei buoni propositi, la storia imboccò tutt’altro corso. Da una parte gli Stati, con le loro “logiche” interne e le loro ambizioni di potenza, di dominio assoluto sui loro cittadini, retrocessi a sudditi non di un monarca in carne e ossa ma di una Idea (ovviamente sussunta dal titolare del Potere e imposta attraverso la macchina formativa). Dall’altra parte il Manifesto nel 1797 scritto da Sylvain Maréchal su impulso di “Gracco” Babeuf: “La Rivoluzione francese non è che l’avanguardia di un’altra rivoluzione più grande, più solenne, l’ultima rivoluzione”, la Repubblica degli uguali, basata sull’abolizione della proprietà privata quale premessa della “abolizione della povertà”, sull’obbligo universale del lavoro e sulla perfetta uguaglianza fra governanti e governati. Un sogno paradisiaco: spazzati via i “piaceri solitari e degli agi personali” era l’ora dell’“uguaglianza di fatto”. Uno vale uno…

Le nuove frontiere dei diritti: la riservatezza

La Conflagrazione europea dell’agosto 1914, precipitata in Grande guerra e poi in Guerra mondiale, suscitò per antitesi molteplici propositi di rifondazione della pace. L’antico regime della Santa Alleanza e dei Trattati fra le potenze era sepolto per sempre. Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo, unico “pulpito” rimastogli, il 13 agosto 1917 lo statista liberale Giovanni Giolitti affermò che era chiuso per sempre “l’andamento della politica estera a base di trattati segreti”. Dai fronti di guerra “milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione” sarebbero tornati “con la coscienza dei loro diritti” e avrebbero reclamato “ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale”.
L’8 gennaio 1918 il primo dei Quattordici punti enunciati dal presidente degli USA, Woodrow Wilson, quale programma mondiale fu: “Pubblici trattati di pace, conclusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali privati di qualsivoglia natura; la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente”. Era l’azzeramento della diplomazia segreta, altra cosa dal segreto diplomatico. La prima è la palude popolata da serpenti; la seconda è il riserbo generale che deve circondare cognizioni particolari, a garanzia di interessi superiori quali, per esempio, il controllo delle armi distruttive di massa, la lotta contro terrorismo politico, fanatismo religioso e criminalità organizzata. Il “segreto” è l’esile diaframma tra il progresso scientifico e il suo uso “contro” anziché “per” l’umanità. Per funzionare davvero, gli accordi tra gli stati debbono evitare l’utilizzo improprio del progresso in tutti i campi. La nuova frontiera è l’informatica: uno spazio ancora in gran parte incognito, denso di rischi. Basti domandarsi se e quanto essa sia garantita la segretezza della corrispondenza, che costituisce un antico pilastro delle libertà personali.

Il diritto della proprietà è un delitto?

La seconda Guerra mondiale fu segnata da un crescendo di orrori causati dalla subordinazione della scienza al potere, sino alla costruzione e all’impiego della bomba atomica, spartiacque della storia. Dopo Wilson, un altro presidente degli USA, Franklin Delano Roosevelt, il 6 gennaio 1941 enunciò i principi della pace futura: libertà di parola (non solo pensata nel foro interiore ma esposta pubblicamente), di religione, dal bisogno e dalla paura della guerra, poi fondamento della Carta Atlantica (14 agosto 1941).Quattro anni dopo il Preambolo dello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite riaffermò “la fede nei fondamentali diritti dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. A guerra ancora in corso (la Germania si arrese l’8 maggio, ma il Giappone ancora resisteva all’offensiva presto concentrica per l’intervento dell’URSS: né va dimenticato che anche il governo italiano presieduto da Ferruccio Parri nel luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone) lo Statuto dell’ONU rispose ad accadimenti storici circostanziati ma rimase vago sui capisaldi dei diritti. Per esempio ignorò quello di proprietà. Incombeva ancora Jean Jacques Rousseau, utopista velenoso.
Fu invece la Dichiarazione dei diritti umani del 10 dicembre 1948 a definire i “diritti, uguali e inalienabili, fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, la libertà di parola e di credo, dal timore e dal bisogno, “senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. A firmare la Dichiarazione furono i rappresentanti di Stati componenti delle Nazioni Unite, consapevoli che il cammino della sua applicazione effettiva sarebbe stato lungo. Richiedeva l’impegno a imprimere una svolta effettiva dell’umanità dopo due guerre mondiali, i totalitarismi e le sanguinose guerre civili che avevano devastato tanti paesi. Per dare corpo ai propositi, in specie all’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, occorrevano “l’insegnamento e l’educazione”: una “missione” quotidiana come intuito nel Sette-Ottocento dai grandi pedagogisti (quasi tutti massoni) fautori dell’istruzione elementare obbligatoria e gratuita, della scolarizzazione universale, della libertà della ricerca scientifica e dell’investimento delle sue conquiste a beneficio dell’umanità anziché di potentati politico-militari o finanziari.
La Dichiarazione Universale fu sottoscritta da Stati che ancora non erano né poi divennero modelli di libertà e civismo: Afghanistan, Birmania, Cina, Cuba, Iran, Pakistan, Siria e Turchia. Che la Dichiarazione fosse molto più coraggiosa del Preambolo e dello Statuto dell’Onu fu confermato dalla polemica astensione di otto Paesi di grande peso quali l’URSS e i suoi satelliti (Ucraina, Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia; Bulgaria e Germania orientale erano tra i vinti, come l’Italia, e quindi escluse dall’ONU), contrari al riconoscimento del diritto alla proprietà privata quale libertà, il Sudafrica (ove dominava l’apartheid) e, per tutt’altri motivi, l’Arabia Saudita.

L’Italia all’avanguardia nei diritti umani…

L’Italia non vi ebbe alcuna parte diretta, ma la sua Carta costituzionale, in vigore dal 1° gennaio 1948, aveva già enunciato i suoi capisaldi, sia nei Principi fondamentali (articoli 1-12) sia nei Diritti e doveri dei cittadini. Tra altro l’articolo 10 sancisce che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”: un principio di civiltà che non può certo essere messo in discussione.

…molto avanti ai Diritti islamici

L’astensione dell’Arabia Saudita fu la premessa della lunga elaborazione della Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo in 23 articoli. I suoi principi vennero anticipati dall’iranico Said Khorasani. Ripetutamente rielaborata essa prende le distanze da quella dell’ONU, considerata di ispirazione giudaico-cristiana, mentre è di matrice greco-romana-illuministica. Secondo la Dichiarazione islamica i diritti sono indicati dal Creatore, sono quindi “legge divina”. L’articolo 12 stabilisce che “ogni persona ha il diritto di pensare e di credere e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia” ma solo “fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la legge islamica prevede a questo proposito”.
Tale caposaldo evidenzia la distanza secolare tra la concezione “occidentale” dei diritti umani e quella musulmana: un divario spesso non percepito nello stesso Occidente perché questo ha da secoli affermato e poi via via attuato la separazione tra Stato e Chiesa, proprio in nome della libertà di religione e quindi della spiritualità stessa, che si può manifestare nei modi e nei riti più disparati o non prendere affatto corpo in “organizzazioni” e rimanere “foro interiore”.

Gli “onusiani”: Utopisti benefici

In Italia la promozione dei diritti umani e dei principi enunciati nella Costituzione faticò molto ad affermarsi. Occorreva liberarsi dalla camicia di Nesso della concezione dello Stato etico, portata all’acme da Giovanni Gentile e da Alfredo Rocco, e recuperare nelle coscienze e nella legislazione il liberalismo di quel Benedetto Croce che aveva votato contro il Concordato Stato-Chiesa in nome di chi ritiene che “Parigi non vale una messa”: la libertà di coscienza, cioè, è un valore non negoziabile.
Nel settantesimo della Dichiarazione dei diritti umani va dunque tributato il doveroso omaggio a quanti in Italia si prodigarono per creare il clima nuovo attraverso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI, promotrice degli ideali dell’ONU), che ebbe tra i suoi alfieri giuristi e storici insigni, in specie all’Università di Torino, quali Alessandro Passerin d’Entreves e Giorgio Cansacchi. Ne ha scritto anni addietro il sempre entusiasta Alfonso Bellando in “Quei ragazzi del Caffè Florio” e lo ricorda uno dei loro discepoli, Gianfranco Gribaudo, in “Dal borgh al BIT. Tra Torino e Nazioni Unite: fatti e pensieri di un piemontese internazionale” (Chieri, Gaidano & Matta), a conferma che sono le minoranze a dare impulso alla storia. Piantano alberi che serviranno alle generazioni future. Queste hanno il dovere di ricordare e di inculcare nel tempo il senso dei doveri nell’età delle nuove libertà. Ne scrissero due italiani di fama universale (fore più all’estero che in patria), antichi e sempre attuali: Silvio Pellico e Giuseppe Mazzini. Da evocare nel 70 della Dichiarazione di Parigi.

Aldo A.Mola