Fratelli d’Italia con d’Annunzio a Fiume

di Aldo A. Mola

Fu il torinese Giacomo Treves, ebreo e massone (1882-1947), l’artefice segreto della “marcia di Ronchi” capitanata da Gabriele d’Annunzio nella notte del 12 settembre 1919 per affermare l’italianità di Fiume. Dall’origine l’ “impresa” è al centro di giudizi controversi. “Festa della rivoluzione” secondo Claudia Salaris; “una delle più buffonesche italianate della nostra Storia” per Indro Montanelli, che però (confessò) se avesse avuto vent’anni forse vi si sarebbe precipitato. Già, perché Fiume fu…un fiume in piena, Verbo che si fa Carne, con volontari, legionari, ammiratori, spregiatori, morti e feriti. E soprattutto tanti delusi. Come era stata la Repubblica romana del 1849, morta proprio quando la sua Assemblea ne approvò la costituzione. A Fiume il Verbo si fece anche carnascialesco. “Severità e goliardia, gioco e guerra, amore e violenza”, divenne un’icona in un Paese dalla memoria labile. Lo scrive Giordano Bruno Guerri in “Disobbedisco. Fiume 1919-1920” (Mondadori) sulla scorta dell’imponente Archivio della Fondazione del Vittoriale degli Italiani da lui diretto (Gardone Riviera, www.vittoriale.it).
D’Annunzio ebbe il torto di morire nel 1938, quando Benito Mussolini sterzò verso l’alleanza con la Germania di Hitler dal Vate sprezzantemente liquidato quale “Attila imbianchino”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”. Quell’anno Mussolini puntò a isolare Vittorio Emanuele III per abbattere la monarchia. Dopo funerali solenni, d’Annunzio venne relegato nei ricordi del tempo che fu, osannato dai suoi pochi cultori ma ormai incompatibile col “regime”. L’11 febbraio 1929 Mussolini aveva firmato il Concordato con la Santa Sede e spazzato via tutti i Guido da Verona d’Italia. D’Annunzio rimase un’icona in un Paese dalla memoria a corrente alternata, corriva al giubilo e al crucifige. Nel decennio seguente (tra “Patto di Acciaio” e vittoria di De Gasperi Alcide contro il Fronte popolare) dai semplificatori analfapreti il Vate fu liquidato come colluso col fascismo. Anche chi aveva letto l’edizione nazionale delle sue opere e si era inebbriato recitandone i versi o intere pagine di romanzi e di “orazioni” ormai lo detestavano. Si vergognavano di averlo “amato”. Mancò l’ “esame di coscienza”.

Nino Valeri storico, massone, dannunziano occulto
I primi due storici a fare i conti con il d’Annunzio vero, ricorda Guerri, furono Paolo Alatri, anni prima costretto a pubblicare opere finissime con pseudonimo perché ebreo, poi comunista, in realtà illuminista, e Nino Valeri. Di famiglia coltissima, Valeri affondò il bisturi nella piaga. D’Annunzio è il campione del “disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l’avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica”. Sono sentimenti, aggiunse Valeri, “che giacciono anche nel remoto sottofondo di molti benpensanti, ma normalmente repressi e condannati in nome della rispettabilità”. D’Annunzio evidenziò le contraddizioni profonde e perpetue del farisaismo italico, del perbenismo, dei “sepolcri imbiancati”. I “cinquecento giorni di rivoluzione” (sottotitolo dell’importante Opera di Guerri) confermarono che l’Italia è una terra di cospirazioni, sommosse, moti incomposti, guerre “di” o “per” bande, di delitti e persino di guerriglie eterodirette (sanfedisti contro giacobini, il “grande brigantaggio” del 1860-1867, evocato da opportunisti e plaudito da “neo-borbonici” odierni, la cosiddetta guerra civile del 1943-1945, con la sua stucchevole “conta dei morti”) ma geneticamente incapace di rivoluzioni.
Socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore della splendida collana di biografie “La vita sociale della Nuova Italia” per la Utet e di classici come La lotta politica in Italia, Valeri scrisse capolavori su d’Annunzio. Aveva le sue motivazioni occulte. Prima che storico era stato un artista. Anche sul suo capo era scesa la fiammella dello Spirito, forse mentre volava nei cieli quando morirne era altamente probabile. Era stato al seguito del Comandante. Non solo. Nino Valeri venne iniziato massone nella stessa loggia del figlio del Vate, Gabriellino d’Annunzio, un cammeo della Serenissima Gran Loggia d’Italia. Futuro storico di inarrivabile classe, all’epoca Valeri faceva l’agente cinematografico. Fiume gli rimase nel sangue. Non potendo scrivere subito del “suo” Reggente del Carnaro (all’epoca era “politicamente scorretto”), narrò le vicende di Facino Cane e di altri Signori sino a quando l’Italia crollò sotto le dominazioni straniere. Faceva l’occhiolino al lettore. Finì con la biografia di Giovanni Giolitti, l’anti-d’Annunzio, ma, al tempo stesso, il più dannunziano degli statisti perché capì la politica estera meglio dei diplomatici. L’Italia è alternanza di saviezza e di follia. Chi governa deve tenerne conto per reggerne le briglie. Giolitti lo fece: mite con i deboli (gli scioperanti per motivi economici), duro con gli arroganti come gli industriali torinesi che nel settembre 1920 gli chiesero di liberare le fabbriche ma misero la coda tra le gambe quando egli si disse pronto a farle bombardare.

Il disastro perpetuo della politica estera italiana
Guerri ha il merito di aver acceso i fari sulla poliedricità della genesi dell’impresa di Fiume. Essa ebbe moltissimi padri nella sua fase apicale e gloriosa. Presto, però, iniziarono i “distinguo” e le defezioni. Infine il Comandante si trovò pressoché solo alla guida di pochi disperati, guardati come avessero la peste sia dalla popolazione (da tempo alla fame e alle prese con i bombardamenti e sempre atterrita dal ritorno degli slavi: quanto non solo a Fiume accadde nel 1943 e dopo il 1945) sia dall’Esercito italiano schierato attorno alla città come cordone sanitario per impedire il contagio rivoluzionario e infine dal vasto arco di governativi e antigovernativi. Se per pochi giorni nel settembre del 1919 il Vate era riuscito nel miracolo di mettere d’accordo quasi tutti gli italiani a sostegno dell’italianità di Fiume, un anno dopo ottenne il risultato esattamente opposto: gli italiani non ne potevano più. Bisognava chiudere quel capitolo, a qualunque costo, compresa, se necessaria, l’eliminazione fisica del Comandante: sapeva tanto, troppo anzi; e quindi era ormai scomodissimo per tutti. In pochi gli rimasero fedeli oltre il crollo della Reggenza e la sconfitta del suo disegno politico.
Per comprenderlo occorre vedere il ventaglio politico mondiale entro il quale l’impresa nacque e quello, del tutto diverso, dei mesi nei quali essa si avvolse nel sudario di morte, tra il settembre e il dicembre 1920.
In estrema sintesi, nel 1919 l’Italia ricevette due batoste in pochi mesi: il Congresso di pace di Versailles negò seccamente la richiesta di Roma di aggiungere Fiume al “bottino” previsto dall’accordo di Londra del 26 aprile 1915. L’Italia lo aveva onorato a scartamento ridotto. Ora le sue aspirazioni cozzarono contro tre avversari: anzitutto l’espansionismo francese nell’ex impero austro-ungarico, in gara di velocità con gli italiani, a loro volta impegnati a procacciarsi il massimo di vantaggi. Lo documenta Antonino Zarcone nella corposa biografia di Roberto Segre pubblicata dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Malgrado le premesse e promesse all’amicizia con l’Italia Parigi anteponeva quella con lo stato serbo-croato-sloveno, fondamentale per l’espansione francese nell’Europa orientale dopo il tracollo dello zar. Il governo aveva pieno appoggio del Grande Oriente e della Gran Loggia di Francia, il cui gran maestro, generale Paul Peigné, scrisse la prefazione alle Rivendicazioni di Belgrado, che chiedeva il confine all’Isonzo e ad ovest di Trieste. Per gli jugoslavi 680.000 morti e 1.200.000 feriti italiani erano un affare interno di chi aveva dichiarato guerra all’Austria. Per loro l’italianità di Fiume non era neppure sull’orizzonte. Perciò vi mandarono un piccolo contingente. Per gli inglesi, che in duecento anni avevano gettato il cavo d’acciaio della loro talassocrazia da Gibilterra a Malta, da Suez a Cipro, il “Mare Nostrum” era solo un lago dalla Manica verso l’Oceano Indiano. Non consideravano affatto l’Italia come partner nel dominio sull Mediterraneo Orientale. Anche gli Stati Uniti d’America di Woodrow Wilson erano filoslavi.
Il passaggio dal governo Orlando-Sonnino a quello presieduto da Francesco Saverio Nitti col giolittiano Tommaso Tittoni agli Esteri (23 giugno 1919: cinque giorni prima della proclamazione della “pace” con la Germania) non migliorò il quadro diplomatico. Il 10 settembre venne firmata la pace di Saint-Germanin tra Italia e Austria. Fiume rimase “corpus separatum” in attesa delle paci seguenti, in specie con l’Ungheria, l’altro “erede” della “duplice monarchia” asburgica.
A quel punto bisognava agire o rinunciare per sempre.

“Marciare, non marcire”: tra Mussolini e il Vate
Come egli stesso ha narrato in un analitico memoriale denso di documenti, proprio Giacomo Treves impresse l’accelerazione alla trama imbastita da quasi un anno. Il 18 dicembre 1918 lui e altri otto massoni di varie logge italiane dettero vita in Trieste a una nuova “officina” del Rito Simbolico Italiano, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. “Riconosciuta l’urgente necessità di costituire un primo nucleo massonico” Odoardo Pesaro (eletto venerabile), Edoardo Viterbo, Eugenio Bianchi d’Espinosa, Giulio Regis, Camillo Sclavo, Angelo Scocchi, Enrico Liebmann e Adolfo Ciampolini alzarono le colonne della loggia “Guglielmo Oberdan”, sacra alla memoria di chi nel 1882 (in risposta al Trattato Roma-Vienna-Berlino) aveva attentato alla vita di Francesco Giuseppe, l’ “imperatore degli impioccati”, ed era stato puntualmente condannato a morte e suppliziato. Treves fu eletto 1° sorvegliante. La decisione di riattivare in Trieste l”officina che per anni vi aveva operato segretamente ignorò l’invito del gran maestro del Grande Oriente, Ernesto Nathan, a soprassedere perché (a sua detta) nella città tergestina v’erano fratelli sufficienti per creare due logge. Roma annaspava. Trieste faceva.
Il 20 dicembre la “Oberdan” uscì allo scoperto con un manifesto, cofirmato dalla consorella “Alpi Giulie”. A Nathan non rimase che approvare, promettere aiuti per la costruzione del nuovo tempio e inviare statuti e rituali. Lo stesso 20 dicembre la “Oberdan” organizzò la rievocazione del martire con un oratore d’eccezione: Benito Mussolini. Nell’invito ai cittadini il manifesto ammonì: “Nessuno deve mancare”. Il futuro duce era all’epoca espressione dell’interventismo intervenuto. Come ha sintetizzato Renzo De Felice era l’ “uomo in cerca”. Non aveva ancora individuato il proprio cammino. Dall’adunata nel circolo industre-commerciale di piazza San Sepolcro messogli a disposizione il 23 marzo 1919 dal massone ed ebreo Cesare Goldman non scaturì un “manifesto”. Il “racconto” dell’adunata (lo documentò Chiurco nella “Storia della Rivoluzione fascista”) si limitò a elencare i partecipanti e i vari temi toccati. Solo molto dopo i fasci di combattimento si dettero un programma sommario, di tono accesamente repubblicano, socialisteggiante e aspramente anticlericale.
Esso stava nell’ideario massonico come il meno sta nel più. All’epoca, infatti, il Grande Oriente stava elaborando un progetto di riforma sociale ispirato alla “democrazia del lavoro”: molte idee, parecchio confuse e di impossibile immediata realizzazione, come è tipico dei “partiti d’azione”. Nel volgere di pochi mesi i suoi capisaldi si riassunsero in lotta al capitalismo e al bolscevismo, cooperazione dei “produttori” e sostituzione del regime vigente con un altro (cioè la repubblica al posto della monarchia: quanto bastava per non esser presi sul serio da Londra ove dalla sua nascita massoneria fa rima con monarchia). A elaborare lo Stato Nuovo sarebbe stata una Costituente.
Dall’estate del 1919 Mussolini si mise in proprio, in vista del rinnovo della Camera dei deputati. Per la circoscrizione di Milano formò una lista comprendente, fra altri, Filippo Tommaso Marinetti, autore del manifesto dei futuristi, Arturo Troscanini, già celebre direttore d’orchestra, Ugo Podrecca, ex direttore dell’ “Asino”, il settimanale satirico più mangiapreti d’Italia. Il futuro “duce” non era disponibile per progetti altrui. Perciò Treves e altri “fratelli” individuarono in d’Annunzio il vessillifero del colpo di mano: la “marcia su Fiume”.

D’Annunzio a Treves: per Fiume italiana, Alalà
Preso contatti diretto con il Vate il 7 settembre, grazie a ufficiali iniziati in loggia e a una rete di massoni operanti nei servizi ferroviari, telefonici, telegrafici e postali vennero gettate le premesse dell’azione. Benché febbricitante, d’Annunzio accettò. Il 9 settembre mandò Treves una cassa di bottiglie di spumante con il cartiglio: “Bevete coi compagni questo fervido vino italiano alla salvezza di Fiume che è oggi l’eroina della libertà del mondo folle e vile. Per Fiume italiana. Alalà”.
Tramite fra i massoni di Trieste, Padova, Milano, Torino, Bologna e la città erano gli inziati alla loggia “Syrius” (tutta da documentare: ma le carte non mancano), a cominciare dal sindaco di Fiume, Antonio Vio. Anche parecchi tra gli ufficiali al seguito del Vate erano stati o ancora rimanevano in logge pullulanti da un capo all’altro del Paese. Era il caso di Eugenio Coselschi (di altri diremo). Circa la loro vitalità basti ricordare che nel 1919 i nuovi iniziati furono circa 4.000 e che l’anno seguente crebbero a quasi 5.000.
Nell’impossibilità di seguire passo passo la vicenda, per cogliere la centralità del ruolo da lui svolto basti dire che Treves venne munito del permesso speciale di entrare e uscire dalla città a suo piacimento. Portava denari, armi, quanto serviva alla “rivoluzione”. Membro di un Comitato segreto, il 26 ottobre 1919 con Angelo Scocchi ed Ercole Miani approntò il progetto di una “Marcia da Fiume su Roma” passando per Trieste. Ma a Trieste arrivò il nuovo gran maestro, Domizio Torrigiani. Al termine di una lunga drammatica seduta, il Grande Oriente recise i ponti con il programma del Vate. Alla vigilia delle elezioni, una “marcia” verso l’Italia avrebbe suscitato l’insurrezione dei socialisti e la risposta delle Forze Armate: un nuovo governo militare, dopo quelli di Menabrea (1867-1869) e di Luigi Pelloux( 1898-1900), l’eclissi delle libertà. Come si sarebbero schierati i neonati “popolari” di don Sturzo?

Il crepuscolo di un dannunziano
Nel marzo 1920 Treves lasciò Trieste. La sua trama svaporò. Rimase nell’azione del’Unione spiritualista dannunziana, di un partito socialista democratico (da lui abbozzato sin dal 1923), di squadre dannunziane contrapposte a quelle mussoliniane e a quelle nazionaliste di Luigi Federzoni e Alfredo Rocco, il microcosmo clerico-reazionario con il quale Treves non volle mai avere nulla da spartire.
Nell’estate del 1920 Treves promosse la raccolta di fondi su canali diversi da quelli fagocitati da Mussolini. Anche il Vecchio Piemonte vi concorse con aristocratici, borghesi e popolani, perché Fiume continuava a essere emblema della Grande Guerra. Lo rimase anche dopo la cacciata di d’Annunzio dalla città martire, pacatamente cannoneggiata dalla “Andrea Doria” su disposizione del presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti. Il “Natale di sangue” 1920 chiuse la cronaca. Rimase l’epopea. Merito del corposo volume di Guerri è di aver riproposto al centro dell’attenzione quell’Italia di passione: niente miope sovranismo ma universalismo. Utopia per i tempi, come si evince dalla Carta del Carnaro, stesa dall’anarco-sindacalista Alceste De Ambris e perfezionata dal Vate, comprendente, tra altro, il divorzio, che in Italia vigeva dall’antica Roma, e tante altre forme di libertà che ancor oggi sono privilegio di minoranze pensanti. A quell’epoca, con quegli uomini, l’Italia era crogiuolo di Grande Storia. Anche le due Comunità massoniche lo erano. Non per caso d’Annunzio, ricevuti brevetto e insegne di grado 33 della Gran Loggia d’Italia, frequentò anche il venerabile della “XXX ottobre” Attilio Prodam: una vicenda che meriterà di essere ampiamente documentata.
Alla morte, nel 1947, GiacomoTreves, iniziato nella loggia “Ausonia” di Torino (matricola 42. 904) fu commemorato nella rivista “Lumen Vitae”. Rimane in attesa di una biografia. Ne emergerebbe “La Fenice” della Terza Italia, che era ed è europea, anzi “mondiale”, anche grazie al Poeta.