Lettere dalla trincea del coronavirus. 4 – Siamo canne che pensano

di Paolo Maggi

Per tutta la mia vita di medico ho cercato di non dimenticare mai che la prima cura per il malato è il medico stesso. Il farmaco più efficace resta sempre un uomo che si prende cura di un altro uomo. La medicina è fatta di contatto fisico, di parole scambiate, di quella ritualità tutta speciale che è la visita medica. E soprattutto di sguardi. E’ l’occhio che produce quel magico effetto che si chiama empatia, e che abbiamo imparato a conoscere a fondo anche nei suoi meccanismi neurologici. E’ lo sguardo che fa diventare la persona che ho davanti parte di me stesso. Questa malattia ci sta togliendo anche il contatto con i nostri malati. Entriamo nelle stanze uno per volta, lo stretto indispensabile, perché i dispositivi di protezione ci arrivano con il contagocce. Tanti pazienti, tanti ingressi previsti. Non una mascherina né un guanto di più. Non una visita in più. E poi, dentro quei terribili scafandri, con mani fasciate da doppi e tripli guanti, che contatto può mai esserci? La voce è attutita e distorta dalla mascherina. Resta lo sguardo. Parliamo con gli occhi, ci restano solo quelli. Ma i nostri occhi sono dietro gli occhiali, che a loro volta sono dietro la visiera. Poi la visiera comincia ad appannarsi, e tutto a volte si perde in una spessa nebbia in cui, più che vedere, s’intravede. Fuori dalla stanza manteniamo il contatto con i nostri pazienti usando il cellulare. Meglio che niente. Che tristezza però, solo pochi mesi fa rimproveravo i miei allievi quando usavano troppo il telefono nel loro lavoro. Dicevo: “la medicina si fa visitando il malato, non al telefono”. Anche la morte dei nostri pazienti ricoverati ha cambiato volto. L’esperienza dell’AIDS ci aveva insegnato, quando ancora non avevamo nessun farmaco efficace, che la vicinanza del loro medico negli ultimi momenti della vita era una consolazione preziosa. Mi sono immaginato quali possono essere oggi le ultime immagini catturate dai loro sguardi: bianche sagome sfocate senza nome, visioni di fantasmi viventi, incapaci di raccogliere e trasmettere emozioni. E poi la morte, in una solitudine infinita. Ci fanno orrore le lunghe file di camion che trasportano le salme, le bare accatastate, le fosse comuni; i vasi canopi prodotti in serie contengono le ceneri dei nostri morti, restituiteci dopo troppo tempo. Ci lamentiamo molto perché questa malattia ha tolto dignità alla morte, ha sottratto ai familiari il conforto del rito di passaggio. Ma forse è solo l’ipocrita presa di coscienza che questo era già avvenuto da molto tempo e noi non ce ne eravamo ancora accorti. Già da molti anni avevamo espulso la morte dalle nostre case, dalle nostre famiglie. Già da tempo evitavamo di accogliere la morte all’interno delle nostre case, già da tempo preferivamo che i nostri cari morissero negli ospedali o negli ospizi. E poi subito il funerale. Già da tempo era scomparso il modello di famiglia patriarcale in cui il malato terminale era accudito, vegliato, amato, accompagnato dolcemente verso la fine dall’affetto dei suoi cari. Già da tempo avevamo perso il senso del sacro che deve circondare la morte. Diversi anni fa un mio illustrissimo collega, ossequiato e temuto in vita, morto alle prime luci dell’alba nella sua casa, fu immediatamente portato con un sotterfugio nell’obitorio dell’ospedale, mentre la famiglia “si organizzava”. Andai a visitarlo nel primo pomeriggio ma ebbi difficoltà a trovarlo. Nessuno che mi desse indicazioni, nessun viso conosciuto. Lo trovai nell’angolo della cappella, con accanto solo alcuni operai che stavano chiudendo il coperchio di una bara vicina. Mi risulta che i primi familiari arrivarono dopo qualche ora. Avevamo espulso il concetto di morte dal nostro panorama esistenziale. La morte, in qualsiasi fase della vita giungesse, era divenuta un evento estraneo alla nostra visione dell’universo, accettabile al massimo per animali e piante, ma non per l’uomo e, comunque, non per noi. La consideravamo un incidente, anzi, il massimo incidente ipotizzabile, ciò che non doveva avvenire. Diceva Blaise Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Per schiacciarlo non c’è bisogno che s’armi l’universo intero. Un vapore, una goccia d’acqua bastano per ucciderlo. Quand’anche l’universo lo schiacciasse l’uomo sarebbe tuttavia più nobile di ciò che l’uccide, perché sa che muore; mentre l’universo, che è più potente di lui, non lo sa”. (Pensieri – LXIX). Oggi ci siamo ricordati che abbiamo la fragilità delle canne. Ma forse non ci siamo ancora ricordati che dobbiamo riconquistare la dignità di pensare. Di ripensare al ruolo della morte nella nostra vita. Di saper morire. Riprendere la consapevolezza del ruolo della morte nella nostra vita, ricordarci che siamo canne che pensano, serve a farci riappropriare del senso e della dignità della nostra vita. La falsa percezione di essere eterni ci fa dimenticare che i nostri giorni sono troppo preziosi per andare sprecati. Ma gli antichi Maestri del pensiero sapevano che la riflessione serena e consapevole sulla morte ci regala un prezioso insegnamento quotidiano: non può esserci nessun cambiamento, nessun rinnovamento, nessuna rinascita, se non è preceduta da una morte. Possiamo declinare questa verità a seconda della nostra cultura, della nostra filosofia, della nostra religione, se ne abbiamo una, ma non possiamo eluderla. Il medico Alcmeone di Crotone, discepolo di Pitagora, ci ha lasciato un misterioso e affascinante frammento: “per questo muoiono gli uomini, che non possono unire il principio con la fine”. E’ una frase dimenticata, frutto di un’antica sapienza, di cui oggi sfugge a molti il vero significato perché non sappiamo più congiungere queste due concetti apparentemente opposti ma assolutamente complementari. Non vi può essere l’uno in assenza dell’altro.