Lettere dalla trincea del coronavirus. 5 – La scelta del delfino

di Paolo Maggi

Tutto sta tornando lentamente alla normalità. A giorni il mio Reparto Covid sarà smantellato. Tornano prepotentemente le vecchie malattie che avevamo trascurato in questi mesi (HIV e tubercolosi, con malati che ci arrivano spesso in gravissime condizioni). E tornano i soliti problemi di sempre, ora che gli ospedali si stanno riorganizzando: le liti tra primari per chi si deve riappropriare del reparto migliore o di un ambulatorio in più (che vinca sempre il più raccomandato), la burocrazia ospedaliera che tutto decide e nulla risolve, il personale eternamente carente. E, in più, hanno annullato le ferie non fruite al mio personale (ma non erano state sospese per l’emergenza?) e sospeso tutti gli straordinari, con cui si riusciva a coprire qualche turno. E meno male che eravamo gli eroi di questa Nazione. Ora poi si avvicinano le elezioni. E conta di nuovo chi porta più voti, non certo chi, in qualsiasi ruolo, ha lottato contro il virus. Questo immane disastro che ha colpito la nostra Terra presto sarà solo uno sbiadito ricordo. Tutti noi cercheremo di archiviare in fretta quei mesi di angoscia, di tornare il prima possibile alla normalità, alla vita che avevamo lasciato i primi giorni di marzo. Tra poco ci saremo dimenticati di tutto. Le nostre riflessioni, la coscienza degli errori commessi, quel quanto di saggezza in più che in quelle sere di surreale silenzio credevamo di aver conquistato, cominciano ad allontanarsi piano piano dalla nostra memoria. Dobbiamo rincorrerli per cercare di riacciuffarli. Con sempre più fatica. Ma l’oblio è un lusso che non possiamo permetterci, se non vogliamo che tutto questo si ripeta presto, molto presto. E allora dobbiamo assolutamente sforzarci di ricordare. Leopardi ci ricorda che, di fronte ai cataclismi naturali dobbiamo fare come le ginestre che, sotterraneamente, in quel poco di terra che recuperano sotto la lava, uniscono le loro radici in una catena di unione solidale, e resistono. Noi lo abbiamo fatto. Ma quanto rimarrà di quella catena che ci legava, da Wuhan a Codogno, dei canti corali dalle finestre, delle bandiere sui balconi? Fra poco tutto sarà dissolto nel crogiolo dei soliti egoismi di sempre. Abbiamo guardato in faccia la capacità della Natura di essere sterminatrice. Ma per quanto ci ricorderemo ancora che la Grande Madre è capace di generare, ma anche di annientare? Abbiamo commesso l’errore di sentirci sempre e comunque padroni dell’universo: noi eravamo i re della Natura. Di volta in volta eravamo sovrani illuminati, quando ci davamo da fare per proteggerla, vestendo i panni degli ecologisti. O despoti crudeli quando, per bieco calcolo la piegavamo ai nostri interessi. Ma sempre re eravamo. Eppure questa epidemia ci ha insegnato che c’è una differenza abissale tra essere un re e un primus inter pares, cui è stato dato il compito di prendersi cura dell’ambiente di cui egli stesso fa parte. Questa epidemia ci ha insegnato che noi siamo indissolubilmente interconnessi con tutto ciò che ci circonda e non possiamo essere chiusi nel nostro palazzo reale. Nel film Avatar, diretto da James Cameron nel 2009, vi è un simbolo che descrive con grande potenza questa idea: è l’Albero sacro degli abitanti del pianeta Pandora. Quell’albero è collegato a tutto, e tutti sono collegati a lui. Distruggerlo vuol dire distruggere anche il resto del pianeta. Nella traduzione italiana è stato chiamato Albero Casa, ma nella lingua originale è il Tree of Voices, l’Albero delle Voci, un concetto molto più profondo, che è stato perduto nella traduzione, e che ci riporta al suono, alla parola, al Logos, al Principio di tutto, alla Parola che crea. E non dobbiamo dimenticarci che logos viene dalla radice Lg, che ha generato in greco il verbo légo che, primariamente, significa mettere insieme, e poi anche parlare. Dunque il logos ha un tempo creato, ma ha contemporaneamente anche legato tutto quello che creava, e questo legame non può essere sciolto senza compromettere il tutto. Già ci aveva messo in guardia Platone con la teoria dell’Anima Mundi: siamo un corpo unico, non si può colpire una parte di un corpo senza danneggiare il tutto. La scienza moderna ha confermato l’indissolubilità dei legami che ci uniscono a tutto ciò che ci circonda. Alan Turing, nel 1950, scriveva: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» (Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950). E’ dalla consapevolezza della profonda interconnessione del tutto con il tutto che nasce la teoria di Edward Lorenz secondo cui il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas. Quando ci dimentichiamo di questo la natura inevitabilmente si vendica. E la sua vendetta non è mai un atto malvagio: semplicemente ripristina un equilibrio alterato. E spesso le pestilenze sono un suo strumento. Lo avevano perfettamente capito gli antichi, e ce l’ha ricordato Albert Camus nella sua Esortazione ai medici della peste: “In linea generale, rispettate la misura che è la prima nemica della peste e la regola naturale dell’uomo. Nemesi non era affatto, come vi hanno insegnato a scuola, la dea della vendetta, bensì la dea della misura. E le sue punizioni terribili colpivano soltanto gli uomini che si erano abbandonati al disordine e allo squilibrio”. Allora, in tutto questo, che ruolo ha l’uomo? Ha il diritto di ridefinire le regole che guidano l’universo attorno a lui? È lecito imporre un proprio progetto a Madre natura cui siamo collegati con un indissolubile cordone ombelicale da cui ci arriva il nutrimento che ci tiene in vita? Molti anni fa, come tutti i bambini della mia età, mi capitava di vedere in televisione quelli che allora si chiamavano documentari. Non so che fine abbiano fatto. Forse non esistono più o, se esistono, avranno cambiato nome. Uno di questi mi colpì molto: era sulla vita dei delfini e proponeva un’interessante teoria: i delfini sono animali molto intelligenti, forse più degli uomini; teoricamente avrebbero potuto essere loro a dominare il mondo, non lo hanno fatto per una precisa scelta: semplicemente era più saggio vivere così, come sanno vivere i delfini. Perché quello era il modo migliore di restare in armonia con il resto della Natura. Non ho la più pallida idea se quella teoria avesse un minimo di basi scientifiche. Certo era affascinante, e non l’ho mai dimenticata. La chiamai “la scelta del Delfino”. E mi sono chiesto per molti anni se quella fosse la scelta più giusta. Poi mi sono dato una risposta: No. Francis Bacon, il filosofo della rivoluzione scientifica del XVII secolo, sosteneva che il compito della scienza è quello di adattare la natura ai bisogni dell’uomo. Ma per poterlo fare, l’uomo deve prima compiere un percorso di sapienza. Egli diceva: “la natura, per essere comandata, deve essere obbedita”. Non si può essere re dell’universo senza aver imparato a conoscere la natura e ad obbedire alle sue eterne regole. In fondo il rapporto con la natura è come quello con la libertà: Fichte diceva che la libertà è il risultato di un percorso di liberazione individuale. Se l’uomo non è capace di liberarsi è inevitabile che faccia un pessimo uso della libertà che gli è data. A proposito, un mio vecchio professore di filosofia mi ha ricordato che oggi è il compleanno di quel grande filosofo della libertà. Gianbattista Vico diceva che l’esistenza dell’uomo non è data, come quella delle pietre, delle piante e degli animali. L’uomo ha la facoltà di farsi, di seguire un percorso di saggezza, di rendersi migliore. La vita del delfino è data, non è una scelta. L’uomo invece può scegliere. L’uomo non nasce re. Deve farsi re. Ma prima di ogni altra cosa deve farsi re di sé stesso, se no, la prossima volta, andrà anche peggio.