Vizio e virtù in un quadro di Lorenzo lotto

di Antonio Binni

La Massoneria già all’Apprendista Libero Muratore impone un duplice obbligo: di astenersi dal vizio e di coltivare la virtù. Questo duplice dovere è racchiuso nella formula tradizionale di edificare templi alla virtù e di scavare oscure profonde prigioni al vizio. Il che esige l’osservanza dell’obbligo di compiere una scelta fra la edificazione di cattedrali di luce e la penetrazione fino al cuore stesso della terra per rinserrare, in un luogo invalicabile, la mancanza di virtù. Quanto dire altrimenti, l’obbligo di non farsi affascinare dal viso sempre nuovo, fresco e giovane del vizio, per previlegiare all’opposto la sempre veneranda virtù. Lotta senza quartiere, dunque, fra l’inveterata e costante pratica di produrre male a fronte invece di una potenza antica e abituale di produrre bene. Per vizio possiamo intendere ogni concessione fatta all’egoismo a spese del dovere. Per virtù si deve invece intendere la forza di fare il bene, assoluto compimento del proprio dovere, assoluto perché è colpa tanto il non osservare quel dovere, quanto adempierlo soltanto in parte. Lorenzo Lotto, dal carattere schivo e irrequieto, è pittore avvolto dal mistero. Certa è la sua nascita nel 1480. Del pari certa è la data della sua morte a Loreto nel 1556. Sconosciuta e controversa è invece la sua città di origine: per taluni, Treviso; per altri Bergamo; ma, più probabilmente, Venezia. Né nulla si sa della sua famiglia, né dei suoi primi anni di apprendistato. Nel suo ininterrotto girovagare per l’Italia ebbe contatti con Raffaello, Leonardo e Bramante. Ritenuto per lungo tempo un pittore di esclusiva tradizione veneziana, dalla critica più autorevole (Longhi) è stato invece avvicinato alla scuola lombarda. Tanto da essere stato accreditato come l’anti-Tiziano. Di lui, in generale, si può dire che era dotato di una sfera di interessi pittorici eccezionalmente ampia, compresa la ritrattistica. All’antitesi vizio-virtù, il Nostro pittore ha dedicato un quadro di non comune interesse. L’opera che ora viene conservata nella National Gallery of Art di Washington merita infatti la più attenta considerazione. Non solo perché, all’ammiratore del quadro, soddisfa la legittima curiosità di appurare in che termini è stata svolta l’antitesi. Ma anche, e soprattutto, perché l’analisi dell’opera pittorica permette di ammirare la capacità creativa dell’artista all’atto di dare colore e rappresentare figure in luogo della parola parlata. Come ovvio, il quadro, alla luce del duplice dovere sopra richiamato che grava il libero muratore, riveste però una eccezionale importanza per chi pratica la via latomistica. Da qui l’interesse a individuare i temi ai quali il pittore ha fatto ricorso per sviluppare il complesso argomento prescelto. Avendo scelto l’artista il tema degli opposti – contrari, si potrebbe essere tentati di sostenere che si sia in presenza di un quadro, quantomeno, vagamente massonico. Chi coltivasse una simile ingenua illusione, sarebbe tuttavia immediatamente smentito dalla realtà fattuale e dalla storia. L’opera pittorica in commento conserva infatti una impronta indiscutibilmente cattolica che le deriva dalla sua origine. Il dipinto era infatti destinato alla famiglia del Cardinale de’ Rossi. Dato inconfutabile, confermato con certezza dallo stemma col leone rampante su campo azzurro proprio di quella autorevole famiglia, che compare in primo piano all’inizio del tronco posto al centro del quadro. Anche se poi rimane il dubbio che l’opera possa leggersi sotto la specie dell’universale, eventualmente anche contro la stessa intenzione del pittore. Ammesso – e non concesso – che l’Autore del dipinto volesse poi realmente realizzare un’opera dal carattere sacro e non invece piuttosto un quadro come ammaestramento per chiunque desiderasse vivere correttamente. Il quadro si risolve in una unità compiuta malgrado risulti composto da due diverse e opposte scene. La raffigurazione pittorica unitariamente assunta delinea chiaramente l’antitesi fra i due poli, come da un solco, nettamente separati da un tronco mozzo. Regno della morte come conseguenza del vizio, dal quale, inaspettato, dalla forza della terra e dal risucchio delle stagioni, origina però una fronda verdeggiante. Manifestazione di rigenerazione e rinascita che, significativamente, si staglia sul paesaggio dello sfondo cupo a sottolineare simbolicamente i vantaggi di chi sceglie la retta via della virtù. Nuova vita – quella fronda – che, a sua volta, si contrappone alla nave che, sul fondo del quadro, sta naufragando colpita dalla tempesta, nefasto effetto simbolico della condotta viziosa. Il turpe vizio, in principalità, è tuttavia rappresentato dal satiro ebbro, circondato da vasi e anfore rovesciate, segni del regno della intemperante continenza. Si chiude così la prima scena raffigurativa del polo negativo del tema prescelto per rappresentare l’antitesi. Quanto invece alla virtù che, nella parte sinistra del quadro, si fronteggia al vizio come in uno specchio, subito la si coglie in tutto il suo splendore, e nel cielo chiaro, e nel mare calmo per alludere alla serenità della coscienza, peculiarità propria di chi coltiva la difficile virtù. Il punto più alto dell’opera è comunque toccato dal pittore nei due temi trattati quasi di soppiatto per illustrare la virtù. Il primo è rappresentato dal putto che ha in mano il compasso, mentre davanti a lui si trovano libri, strumenti geometrici e musicali. A ribadire che l’impegno intellettuale è un requisito indispensabile per raggiungere la perfezione morale. Infatti, senza conoscenza, non v’è possibilità pratica di autentica virtù. Così com’è altrettanto vero che, con più si conosce, con sempre maggior efficacia si onora la virtù in tutte le sue sfumature. Il secondo tema è invece rappresentato dalla lontana montagna accessibile soltanto per il tramite di un lungo, aspro, ripido sentiero a simboleggiare il difficile percorso verso la perfezione morale. E, sul sentiero scosceso, il cammino stanco del pellegrino armato di bastone e di bisaccia, chino per l’affanno, inevitabile, perché la virtù non si acquista per gioco, né nel rumore, né nella distrazione, all’opposto esigendo quella conquista attenzione, dedizione, sforzo, sacrificio, fatica perché, senza fatica, non si conquista quanto gli altri, con pena, hanno conseguito prima di noi, perciò autorizzati ad additare la via e le sue asperità. Empatico è l’andare del pellegrino, dura esperienza, ma nello stesso tempo immagine commovente perché ogni passo è dettato da quella nostalgia della “patria ben ordinata” che è propria di chi vuole essere Uomo. Luogo, a ben considerare, dove, da vivi, non si riuscirà mai a dimorare perché l’oltre è troppo profondo per avere strade che ivi conducono. Consapevolezza amara, ma insuperabile, perché l’esito dipende dalla finitudine di quell’uomo che, testardamente, si incammina su quella che, solo in apparenza, sembra essere un’autentica via. Si esaurisce così l’analisi accorta della tela che, con colori che ricordano la permanenza del pittore a Venezia, dona quello che ha promesso con il suo titolo. Sicuramente l’antitesi fra il vizio e la virtù può rappresentarsi altrimenti. A chi ha scritto queste succinte note sembra, tuttavia, che meglio non si potesse raffigurare l’eterna lotta fra chi si abbandona al vizio e chi, con ferma determinazione, persegue invece il duro cammino della virtù.