Massoneria e Progresso

di Antonio Binni

Progresso. Il termine designa il passaggio da una situazione a un’altra. Non però qualsiasi altra. Bensì un’altra migliorativa rispetto a quella precedente. Il cuore della parola indica movimento. Come conferma la sua radice, il vocabolo deriva infatti dal verbo latino progredior che, appunto, non significa altro che “andare oltre”, “andare avanti”, che è esattamente la direzione verso la quale è orientato il progresso. Come idea, il termine designa il cammino dell’uomo verso il meglio – culturale, sociale, morale, materiale – specialmente grazie alla acquisizione progressiva di conoscenze, con la convinzione che il vero, il buono e il giusto risiedano nel futuro. Con la conseguenza ulteriore che il passato, inciso in ogni pietra dell’uomo, e il presente, caduco e fuggevole, sono privi di un senso compiuto in sé, dal momento che assumono significato unicamente con riferimento al futuro stesso. Per l’immaginario dei greci, avuto riguardo alla loro concezione del tempo circolare, l’idea di progresso sarebbe stato, letteralmente, un controsenso. Se il tempo non è altro che un eterno ritorno, il futuro, all’evidenza, non può ridursi ad altro di diverso dall’orizzonte delle medesime esperienze già vissute, visto che le cose ritornano eternamente al punto di partenza. Se muta la concezione del tempo – non più eterno ritorno, ma, cristianamente, una figura rappresentata da una linea retta – allora ha invece senso l’idea di progresso. In questa ottica, ogni evento è infatti unico e irripetibile, sicché è concettualmente legittimo congetturare che quello successivo, superando il precedente, può divenire un miglioramento in un cammino unidirezionale. Quando poi si è più distanti dal punto di partenza, tanto più allora sarà maggiore il progresso conquistato. Si assume così che, col tempo, tutto può essere migliorato, dal sapere alle arti, alle forme politiche, dalla economia, alla organizzazione sociale. Questa visione della Storia, incentrata sulla idea di progresso, è un lascito che, ai moderni, è pervenuto dall’Illuminismo, dall’Idealismo hegeliano e soprattutto dal Positivismo. Sono infatti queste correnti di pensiero che hanno orientato la moderna storia europea alimentando la speranza di un futuro sempre migliore. Si è così consolidato il convincimento che, in un cammino unidirezionale, l’umanità progredisca sempre verso il meglio, culturale, morale, materiale, specialmente grazie ai successi della scienza e della tecnica. A incrinare “le magnifiche sorti e progressive”, come fede incondizionata in un progresso tecnico-scientifico, morale e civile, è venuto però il Novecento, con le due guerre mondiali, con il “male assoluto” dei lager di vario colore, con la guerra fredda. Se non si è così interamente dissoluta l’idea di progresso come fede irrinunciabile, nel secolo scorso, si è, quanto meno, incrinata la fiducia che scienza e tecnica hanno migliorato l’uomo. Forse niente come il pensiero di Heidegger – e, più tardi, in Italia, quello di Emanuele Severino – ha segnato la presa di distanza da una fiducia indiscriminata nelle acquisizioni scientifiche dei nuovi tempi, ricche, come sono, di pericoli autoevidenti. Oggi il progresso, punto fermo dell’Illuminismo, ha finito per rivelarsi, ancor meno di una chimera, in ogni caso una idea obsoleta, inutile, perché codesta convinzione serve poco o nulla per spiegare l’evoluzione della storia umana. Al proposito, si osserva infatti che l’idea di progresso non può costituire la griglia interpretativa della realtà perché sono i fatti a smentirla. L’inquinamento delle acque, dell’aria, della terra, i problemi del reperimento e della distribuzione del cibo per una popolazione che oramai va verso i sette miliardi di esseri umani, sono altrettanti motivi che hanno fatto perdere, ai giorni nostri, quell’entusiasmo e quella speranza che le parole “progresso” e “futuro” hanno invece suscitato a lungo. Altrettanto dicasi a causa dei complessi e delicati problemi di coabitazioni difficili fra culture, etnie e religioni determinate dai grandi spostamenti umani, specie verso l’Europa, la cui ben nota crisi valoriale, culturale e demografica accresce ulteriormente le evidenti preoccupazioni di un quadro che non può sicuramente ricondursi alla idea di progresso. Per questo oggi più che far capo all’idea di progresso – un ancoraggio non più credibile – si è piuttosto propensi a concentrare la propria attenzione di studiosi sulla possibilità di un collasso della moderna civiltà. Non però come un evento unico e inevitabile, bensì come una serie di eventi catastrofici (uragani, incidenti industriali, pandemie, siccità, ecc.) in un contesto di cambiamenti progressivi destabilizzanti (desertificazione, inquinamenti, ecc.). A fronte di così alti rischi, mentre da un lato si insiste nell’abbandono della fiducia irrazionale nel progresso, dall’altro lato si finisce così per sollecitare un supplemento di saggezza per allontanare lo spettro del temuto collasso. Delineata così, sia pure succintamente soltanto, l’evoluzione che, nel tempo, ha subito l’idea di progresso – da dogma degradata fino a griglia interpretativa della storia del tutto obsoleta, oltre che inutile – siano ora consentite a chi scrive alcune osservazioni a titolo di contributo nell’approfondimento dell’argomento. Per rimanere ancorati – così come si deve – alla realtà fattuale, conviene preliminarmente constatare che il progresso non è mai una realtà generalizzata, visto che, nella Storia, si presenta “a macchia di leopardo”. Infatti, quando Atene innalzava il Partenone, in molte parti del mondo gli uomini vivevano ancora in capanne. Parimenti, quando a Firenze fioriva la civiltà medicea – miracoloso progresso non solo nelle arti e nel sapere – gli esseri umani, in molte parti del globo, continuavano ancora a dipingersi la faccia con i più svariati colori. Nel valutare il problema, non si può dunque prescindere né dal fattore luogo, né dal fattore tempo, posto che il progresso, quando avviene, si verifica in luoghi e tempi diversi. Sicché non esiste una concezione di progresso generalizzata. A tutto concedere si potrebbe, semmai, ammettere soltanto una tendenza. È doveroso inoltre riconoscere che il progresso è un concetto collettivo perché coinvolge il singolo solo indirettamente. Nel contempo è un concetto dinamico perché è un valore che cammina sulle gambe degli uomini. Il progresso autentico è quindi misura. Così non può qualificarsi progresso scientifico quello segnato dall’eccesso e dalla tracotanza. Quando questo si verifica, versiamo piuttosto nel campo della ubris. Abbiamo imparato da Tacito una, del resto ovvia, verità: ossia che le fondamenta di ogni potere assoluto sono costituite dall’uso brutale ed esclusivo della forza. Quando il potere si fa “legge vivente”, per dirla con Costantino, gli uomini, assetati di giustizia, escono sconfitti perché si è fatto strame della sacralità della vita. Questo, ovviamente, non è progresso. Per chi scrive queste note, il vero progresso non è poi tutto quello, pur necessario, che garantisce il meglio sociale e culturale, quanto invece quello che, oltre ad assicurare la libertà, ne amplia gli spazi ancorandoli a saldi principi morali. Il vero progresso, per dirla altrimenti, è quello che, al primo posto della classificazione degli esseri umani, eleva l’uomo a soggetto senza specificazioni e limitazioni. Esattamente come decreta Don Mariano (“quaquaraquà, ominicchi, uomini”) nel romanzo Il giorno della civetta (Adelphi, Milano, 1993) di Sciascia, qui volutamente ricordato e gratificato nel trentesimo anniversario della sua scomparsa. Un estremo – e felice – sberleffo dell’illustre scrittore perché proprio il capo della mafia locale, che abitualmente pratica il male, è costretto a mettere al vertice della piramide valoriale l’uomo senza aggettivo. Un termine caro agli Illuministi – Maestri di Sciascia – che, proprio nell’uomo e nella difesa dell’umanità, avevano ravvisato l’apice del progresso. Prima di congedarci, a coronamento della nostra riflessione sull’argomento, vogliamo ora, sia pure succintamente, affrontare un profilo della materia che per gli abituali lettori di questa Rivista non è sicuramente secondario. Vogliamo cioè chiederci quale debba essere l’atteggiamento che la Massoneria deve avere nei confronti dell’idea di progresso-dogma, così come pervenutaci in eredità. Se non andiamo errati, crediamo che il punto di vista massonico sull’argomento debba declinarsi nei seguenti termini: la Massoneria respinge la tesi – essenzialmente positivistica – secondo la quale il progresso altro non sarebbe che il motore della Storia. A quanti sostengono che il passato e il presente altro non siano che un cumulo di macerie, semplici tappe prive di significato in sé, oggetto di attenzione solo in relazione al futuro che preparano, la dottrina latomistica oppone due obiezioni irrefutabili. La tesi del progresso, come dogma, inducendo a trascurare il passato e, con esso, la nostra provenienza, finisce, innanzi tutto, per recidere le nostre radici. Il che ci porta a intendere falsamente l’emancipazione nei termini di un semplice superamento di tutto ciò che ci giunge dal passato. In secondo luogo, il mito del progresso ci induce erroneamente a credere che lo stesso sia automatico. Quando, all’opposto, non si è invece affatto dispensati dall’impegno costante e dalla dura fatica necessari a crearlo. La tesi del progresso graduale e costante viene così conclusivamente respinta, non solo perché contraddetta dai fatti, ma pure per la pericolosità che questa veduta porta seco irrimediabilmente. La Massoneria però ugualmente rifiuta la tesi secondo la quale tutto ciò che si dà nel passato è meglio di ciò che sarà in futuro perché il futuro è, per definizione, ignoto. Sicché non si può escludere a priori che esso possa arrecare frutti ancor più importanti, conseguenze di un avanzamento possibile verso le distese del domani. In estrema intesi. Ambedue i punti di vista non vengono condivisi siccome espressioni di altrettante fedi irrazionali. Liberata da entrambe queste fedi, la Massoneria, per intrattenere un rapporto più stretto con la realtà, si atteggia in termini più equilibrati, non rinunziando né al passato, né al futuro. Coniuga così la Tradizione – iperborea, unica e eterna – con la sua natura intrinsecamente progressiva alla ricerca di un equilibrio frutto della antitesi, che altro non è se non che lo stesso ritmo della vita. Progresso, dunque, ma nel contesto di capisaldi irrinunciabili. Sicché, a chi scrive queste note, sembra che la riflessione conclusiva sull’argomento non possa essere che questa: il progresso previlegiato dalla massoneria è quello che profuma d’antico.