Fichte: filosofia della Massoneria

di Antonio Binni

Nella mia operosa giovinezza ho frequentato assiduamente i testi dei filosofi idealisti e, fra questi, l’opera di Johann Gottlieb Fichte, preso e ammirato, oltre che dalla sua idea di libertà, soprattutto dalla natura pratica della sua filosofia. Nel pensiero del Nostro la filosofia avrebbe dovuto infatti avere unicamente il compito di essere efficace strumento per cambiare il mondo e l’uomo. Dunque non spiegare come il mondo è, ma come potrebbe diventare attraverso l’azione dell’uomo, senza dare per scontata la immodificabilità della situazione esistente. Parimenti non per descrivere la vita delle persone ma per cambiarle, per essere attribuito alle stesse il compito di operare attivamente per incidere sulla società. Nato in una famiglia poverissima, si narra che da fanciullo lavorasse come guardiano di oche per aiutare i genitori. Per sostenersi, da giovane, fu costretto a mille lavori che via via detestava; ma la natura lo aveva creato pensatore. Fu così che costruì un pensiero compiuto che è erroneo degradare – come taluni sostengono – a mero terreno preparatorio del pensiero di Hegel, che fu, quantomeno, ingeneroso quando accusò la filosofia di Fichte di risolversi in un idealismo soggettivo e in un pensiero vuoto e formale. Alla fama del Nostro non hanno poi sicuramente giovato i Discorsi alla nazione tedesca, tenuti a Berlino nel 1807–1808, durante l’occupazione napoleonica, nei quali il filosofo riaffermò il primato della nazione tedesca, considerata la guida degli altri popoli per avere mantenuto in tutte le epoche storiche la purezza della lingua, del carattere e della religione. Tesi questa, come noto, sciaguratamente ripresa e diffusa dalla ideologia nazista. Da qui, in principalità, un giudizio immeritatamente negativo, quando, all’opposto, quelle orazioni altro non erano che un accorato appello al popolo tedesco di riscossa contro l’occupazione napoleonica. Nelle mie modenesi calde e afose vacanze estive di liceale mi è stata silenziosa compagna e fedele amica la lettura di molte pagine della Missione del dotto, dalla quale trascrivo questo pensiero ancora nitido nel ricordo: “L’uomo esiste per migliorarsi sempre più dal punto di vista morale e per rendere migliore tutto ciò che lo circonda” (testo pubblicato dalle Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, pag 94). Una volta entrato nella Comunione, ho scoperto l’appartenenza all’Ordine di Fichte, mai rinnegata, seppur breve. Ne nacque così una affezione al filosofo ancora maggiore. L’opera di Fichte a me più cara divenne però ben presto quella intitolata Filosofia della Massoneria (in Italia, edita da Bastogi, Foggia, 1995; ma l’edizione italiana più recente è quella edita da Mursia, Milano, 2019, a cura dell’Amico C. Bonvecchio). Col tempo, il volume, di fatto, è andato in pezzi per eccesso di uso. Da qui la necessità di farlo rilegare. Oggi l’opera è nelle mie mani, in una nuova veste elegante che mi ha indotto alla ennesima rilettura, dalla quale estraggo alcuni dei punti più salienti, mosso dalla convinzione che quella lezione è, ancor oggi, preziosa a quanti praticano l’Arte regia, e non solo. Insegna il Nostro che la Massoneria non può proporsi nessuno degli scopi ai quali si dedica generalmente l’impegno intellettuale degli uomini, perché già tutti realizzati. Sicché, laddove perseguisse codesta finalità, diverrebbe inutilmente superflua e perfino “sommamente nociva”. E per difetto di competenze (non ogni massone è architetto, filosofo, giurista, ecc.), e per la natura riservata in cui la Massoneria opera, visto che – appunto – dovrebbe fare in segreto ciò che, di norma, avviene invece in pubblico. Ciò acclarato, secondo Fichte rimane allora a chiedersi quale possa essere codesto scopo. Domanda alla quale il Nostro risponde secondo ragione e, perciò, in termini del tutto persuasivi: lo scopo della Massoneria non può essere altro che quello di realizzare una perfezione umana maggiore di quella che ciascun individuo avrebbe raggiunto fuori dalla Associazione. Scopo da una parte troppo ampio e dall’altra troppo stretto. Troppo ampio perché codesto fine può essere conseguito anche altrimenti (ad esempio con la meditazione). Troppo ristretto perché nessuna società di qualsiasi specie può, per sua natura, operare il suo perfetto raggiungimento. Sicché la maggiore umanità conseguita rimarrà per sempre una perfezione umana, squisitamente umana, dunque mai superiore alla stessa. Questa educazione, che ha il suo approdo nella acquisizione di una specifica competenza in umanità, secondo il Nostro filosofo deve poi avvenire in una “piccola comunità”, che è centrale non solo per la funzione che assolve, ma pure per la sua lingua. Per la funzione perché, nella “piccola comunità”, si impara a comunicare il proprio sapere e ad acquisire quello degli altri in modo del tutto diverso per la natura eterogenea dei presenti-partecipanti. Per la sua lingua perché, anziché l’estrema specializzazione dei linguaggi professionali degli adepti, è adottata, e parlata, una lingua condivisa, che è quella dei simboli. Fichte non si nasconde poi il pericolo della esistenza di uomini scaltri e disonesti che indirizzano adepti ingenui verso propri fini personali: critica abituale all’istituto massonico. Parimenti è del tutto consapevole della esistenza, all’interno della “piccola comunità”, di uomini che, per soddisfare il proprio orgoglio personale, fallito nel mondo profano, talora pure ripetutamente si impegnano a dirigere, e a prevaricare, chi per cultura o per posizione sociale li sopravanza nella società civile. Né trascura di prendere in considerazione chi è entrato nel sodalizio massonico per semplice curiosità, o per capriccio, o con la speranza di accrescere la propria modestissima clientela. A tutte codeste pur frequenti censure, volte a svilire l’Ordine, Fichte obietta però di avere personalmente conosciuto uomini saggi e onesti che si sono affratellati per un fine sublime, quale quello di essere educati da capo a fondo per divenire “uomini”, uomini veri e autentici. Anche se poi, per raggiungere codesto scopo, sono stati costretti a sacrificare non poco della loro vita e dei loro beni personali. In merito al tanto vituperato “segreto massonico” Fichte dichiara che quello più noto, e a un tempo nascosto, è che i massoni esistono e continuano a esistere malgrado siano vittime abituali di aggressioni, di infamie e calunnie, oltre che delle loro stesse sciagurate scissioni e delle loro reali manchevolezze. Secondo il Nostro, a indubbio merito della Massoneria vanno comunque ascritti, e soprattutto riconosciuti, l’educazione dello spirito, l’aspirazione alla sensibilità morale, l’imposizione di corretti comportamenti e l’osservanza delle leggi che, sia permessa l’integrazione, nei relativi contenuti l’Istituzione ha spesso ispirato, divulgando una cultura politica totalmente umana, perciò universale, elaborata all’interno delle Logge, dove si sono radicati i principi della libertà, della uguaglianza, della fratellanza, della tolleranza e degli stessi diritti umani, oltre che del merito. Una eredità che per certo non merita di morire. Come tutte le epitomi, anche quella che abbiamo presentato altro non è che un semplice compendio del pensiero fichtiano, per definizione privo di ogni reale approfondimento. Temi, invece, affrontati con particolare acume e una dotta e documentata analisi nell’accurato volume di Valerio Meattini intitolato Storicismo e Massoneria. Libertà, uguaglianza e strategia di convivenza da Lessing a Croce (Carrocci Editore, 2021); testo nato in confutazione del duro giudizio formulato da Croce nei confronti della “mentalità” massonica: critica alta, mai astiosa, per certo la più severa contro la libera muratoria. Tuttavia indifendibile una volta dimostrata la incondivisibilità dello “storicismo” posto da Croce a fondamento della sua critica, come Meattini ha argomentato in termini del tutto fondati e, perciò, persuasivi. I temi in precedenza richiamati, sia pure con tutti i limiti propri di ogni sintesi e di ogni brevità, nell’ottica di chi ha scritto queste note sono tuttavia funzionali a segnare un distacco e soprattutto una netta contrapposizione all’indirizzo denominato postumanesimo, ossia a quella crescente sfiducia negli esseri umani nei confronti dell’umano, sul presupposto che le macchine stanno diventando umane (… anche se poi non si sposano!) e gli uomini macchine. Inspiegabile tesi paradossale visto che, in questi ultimi strani giorni, l’uomo è il padrone incontrastato del pianeta. Sicché non si comprende davvero come possa essere sfiduciato proprio verso se stesso! Da qui l’importanza del richiamato pensiero di Fichte e di quanti si pongono a difesa dell’umano nell’uomo e del suo sviluppo integrale fino a dove è consentito alla umana finitudine. Anche se poi occorre riempire di contenuto quella bella, ma oscura parola, visto che, a fronte del termine “umano”, è indispensabile chiedersi cosa sia lo specifico che lo caratterizza e nel contempo lo differenzia, ad esempio, dal corpo, dall’intelletto analitico, dalla ragione sintetica, dalla passione del cuore. A nostro sommesso ma meditato parere, l’umano non può essere altro che la libertà. Non però una libertà qualsiasi, quanto invece quella che è indirizzata al bene, alla giustizia e alla bontà. Il compito principale della esistenza di ciascun uomo è dunque quello di imparare a navigare nello spazio aperto della libertà al fine di diventare liberi, giusti e buoni. Non è poi per nulla detto che questo lavoro sia coronato da successo. Chi non accende dentro di sé l’umano, inteso così come proposto, resterà però privato della sua più autentica natura, quanto dire del tesoro più prezioso dell’esistenza, che è armonia con il mondo e con gli altri uomini. Mentre su ogni cosa sovrasta quel dolore dal quale “si impara”, come ci ha insegnato Eschilo (Agamennone, versi 176-178, in tutte Le tragedie, Mondadori, Milano, 2003, pag. 407). Solo chi ha provato e pensato il dolore si è infatti impadronito della vera conoscenza, il cui nome è saggezza. L’umano nell’uomo, per ripetere ancora una volta la bella espressione di Vasilij Grossman (dal testo La Madonna Sistina [1955] ora in Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano, 2014, 2ª Ed., pag. 51) coincide allora con la gioia di vivere la libertà così come dianzi prefigurata: impegno che si costruisce giorno per giorno, senza mai stancarsi, su misura di ciascun uomo e di ciascuna singola esistenza.