Officinae Marzo 2013

Eredità ed ereditarietà — di P.De Santis
[…]

Cultura mitteleuropea ed ebraismo — di G.I.Lantos
[…]

Homo Homini Diabolus — di Ida Li Vigni
Nel Faust di Marlowe, ad un certo punto, Mefistofele dichiara: ” … Dove stiamo noi, c’è l’inferno e dove c’è l’inferno, dobbiamo stare sempre … “; e un detto proverbiale, assai diffuso nel Rinascimento, precisa: “L’uomo è un inferno che non può più mettere neppure un segno di confine ad un modesto praticello”. Di simili affermazioni e giudizi negativi abbonda la letteratura laica del XV e del XVI secolo, a testimonianza indiscutibile di un pessimismo laicizzato, ormai privo di ogni connotazione religiosa, che cerca sfogo in un contemptus mundi ancor più cupo e amaro di quello medievale proprio perché tragicamente sganciato dalle certezze della fede. Il fatto è che in un mondo come quello rinascimentale che ha “perduto il proprio centro”, sicché gli uomini si sentono in balia di forze oscure e malvagie che li trascinano verso l’abisso, la presenza del Male sembra attestarsi saldamente sulla terra, tanto che il regno degli uomini si trasforma in un universo corrotto e caotico che nulla ha a che invidiare con quello degli Inferi. Assediati dall’esterno e dall’interno, ossessionati da un’angoscia profonda che di volta in volta si incarna in “nemici” sfuggenti e insidiosi, gli intellettuali del Rinascimento scoprono dunque con orrore che l’Avversario è ormai in loro, che (come proclama Thomas Nasche) “l’uomo è un demonio per l’uomo” e che la società umana è un mondo alla rovescia dove ormai regnano l’egoismo e la legge del più forte. Di fronte a tale drammatica rivelazione c’è chi si rifugia nella sua torre d’avorio a teorizzare d’armonia e di bellezza e c’è chi si affianca agli uomini della Chiesa per combattere i servitori di Satana, ma c’è anche qualcuno che ne trae una cinica quanto realistica lezione di politica che lo spinge ad analizzare con spietata lucidità le leggi del potere e del vivere civile alla luce del principio inconfutabile che l’uomo è malvagio di sua natura e che sempre sarà “lupo per l’uomo”. Questo qualcuno fu in primis Niccolò Machiavelli, il quale non si limitò a insistere sulla necessità di fondare l’azione politica sul dato evidente che gli uomini sono egoisti e malvagi (portando evidentemente a compimento una riflessione che affonda le sue radici nel primo Umanesimo), ma si preoccupò anche di portare sulla scena lo spettacolo desolante di una società in cui, volenti o nolenti, è necessario farsi “volpe e leone” per sopravvivere e in cui anche il diavolo è costretto a battere in una assai poco dignitosa ritirata pur di sfuggire all’avidità e all’astuzia umana. In quest’ottica, più ancora dei suoi trattati e della sua produzione teatrale, risulta illuminante la splendida novella Belfagor Arcidiavolo, ironica denuncia di quell’inferno all’ennesima potenza che è la società umana. Già nell’Asino d’oro, un poemetto destinato a rimanere allo stato di abbozzo, Machiavelli aveva dato voce alla sua visione pessimistica attraverso le riflessioni di un uomo trasformato in porco. Vediamo dunque come nel canto VIII il protagonista esalta il suo nuovo stato contrapponendolo a tutti gli orrori della sua precedente condizione:
Sol nasce l’huomo d’ogni difesa ignudo
Et non ha cuoio, spine o piume o vello,
Setole o scaglie che li faccia scudo.
Dal pianto il viver suo comincia quello
Con tuon di voce dolorosa e roca;
Tal ch’egli è miserabile a vedello.
Di poi, crescendo, la sua vita è poca,
Sen’alcun dubbio, a paragon di quella
Che vive un Cervo, una Cornacchia, un’Oca …
Le man vi dié Natura et la favella,
E con quelle anco Ambition vi dette,
Et avaritia che quel ben cancella …
Vostr’è l’ambition, lussuria e ‘l pianto
E l’Avaritia, che genera scabbia.
Nel viver vostro, che stimate tanto,
Nessun altro animal si trova ch’abbia
Più fragil vita, e di viver più voglia,
Più confuso timore o maggior rabbia.
Non dà l’un porco all’altro porco doglia,
L’un cervo all’altro; solamente l’huomo
L’altr’huomo ammazza, crocifigge e spoglia.
Pens’hor come tu vuoi ch’io ritorni huomo …
Sentina di tutte le turpitudini, bestia immonda che agisce contro natura e che non esita a uccidere il proprio simile pur di appagare la sua sete infinita di potere, l’uomo per Machiavelli è un essere mostruoso, rovesciato, più prossimo all’Avversario che a Dio, che sempre più si allontana dalla sua missione civilizzatrice e che in luogo della “città degli uomini” si preoccupa di fondare sulla terra la “città di Satana”. Un uomo a tal punto maligno da trasmettere il proprio peccato anche alla Natura, che deturpa e contamina assai più di quanto potrebbero fare tutti i diavoli dell’Abisso, vincolati a quell’ordine universale a cui si sono ribellati ma a cui non possono sfuggire. Se nell’Asino d’oro i toni sono quelli accesi e cupi del contemptus mundi rivisitato in chiave laica, in Belfagor arcidiavolo sentiamo riecheggiare passi noti degli exempla medievali, filtrati però attraverso una vena popolare e contaminati dalla recente narrativa sul “mondo alla rovescia”. Analizziamo dunque più da vicino questa singolare novella. Di partenza Machiavelli prende le mosse da un racconto popolare, di probabili origini orientali ma largamente diffuso fin dal Medioevo nella versione cristianizzata, in cui si metteva in risalto la protervia delle mogli e l’infelicità coniugale che ne deriva. E’ questo un tema sfruttatissimo dalla letteratura medievale e umanistica, tanto più che tutta una pubblicistica (religiosa e laica) insegnava essere la donna strumento del diavolo, da cui ha appreso tutte le armi della seduzione e dell’adulazione e che ha superato in astuzia e perfidia. Tuttavia questo tema, nelle mani di Machiavelli si trasforma, grazie anche alla cornice diabolica, diventando da semplice satira antimatrimoniale o scontata stigmatizzazione dei vizi femminili violenta denuncia e contestazione della corruzione morale del tempo. Si diceva dell’importanza della cornice diabolica, la quale non è puramente decorativa, ma svolge una precisa funzione “morale” di rovesciamento dei valori. Anche in questo caso Machiavelli attinge alla tradizione popolare e agli exempla medievali, in cui spesso il diavolo si trova a essere vittima di donne e contadini ben più astuti di lui. Ma il materiale diabolico, se così lo si può definire, si tinge di nuove sfumature e si arricchisce di diverse connotazioni morali, proponendosi quale paradigma di un mondo alla rovescia in cui l’Inferno appare come una paradisiaca corte cortese e la terra come il più terribile degli inferni. Tale capovolgimento satirico appare evidente fin dalle battute iniziali, in quel prologo “in inferno” dove viene annunciato un solenne concilio di demoni chiamati a esaminare il singolare e preoccupante fenomeno dei molti mortali che si dannano per colpa delle mogli. Non avendo pratica dei commerci umani, gli “infernali principi” decidono di inviare sulla terra un loro rappresentante, Belfagor, in sembianze umane per scoprire che cosa sia il matrimonio. I tratti di questo strano concilio sono tali da suggerire implicitamente l’idea (confermata poi dagli sviluppi terreni del racconto) di un rovesciamento radicale dei valori, di uno scambio inquietante di parti tra l’inferno (disvelato come corte ideale, retta da un principe illuminato che si sottomette saviamente all’autorità delle leggi) e la terra, la cui vita tumultuosa e inquieta riesce persino a mettere in fuga un povero diavolo dell’inferno. La corte di Plutone, principe degli Inferi, ha tutte le connotazioni di un’ideale corte cortese, perfettamente integrata in un ordine universale di cui rispetta le leggi e le gerarchie e di cui si sente inderogabilmente partecipe. Lo stesso linguaggio di Plutone si conforma al modello cortese e i suoi modi sono quelli di un principe illuminato pronto ad ascoltare il giudizio dei suoi vassalli per il bene dello Stato: “… Ancora che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e fatale sorte al tutto inrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obligato ad alcun iudicio o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più sottomettersi più alle leggi e più stimare l’altrui iudizio: ho deliberato esser consigliato da voi come, in uno caso il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare. Perché dicendo tutte l’anime degli uomini che vengono nel nostro regno esserne stato cagione la moglie, e parendoci questo impossibile, dubitiamo che dando iudizio sopra questa relazione, ne possiamo essere calunniati come troppo creduli, e non ne dando, come manco severi e poco amatori della iustizia. E perché l’uno peccato è da uomini leggieri e l’altro da ingiusti, e volendo fuggire quegli carichi che da l’uno e l’altro potrebbono dependere, e non trovandone il modo, vi abbiamo chiamati acciò che consigliandone ci aiutiate e siate cagione che questo regno, come per lo passato è vissuto sanza infamia, così per lo advenire viva. … “. Se all’Inferno i diavoli possono permettersi di parlare di giustizia e di rispetto delle leggi, ci si può immaginare quale caenna sia la terra, le cui uniche leggi, come apprenderà a sue spese il povero Belfagor mandato in missione fra gli uomini, sono la disonestà e l’avidità. L’esordio infernal-cortese, dunque, prospetta già al lettore il quadro esatto del vero e proprio nucleo del racconto: le avventure terrene di Belfagor-Roderigo; anzi, le sue disavventure, poiché il povero diavolo, già di partenza poco soddisfatto della strana inchiesta affibbiatagli, finisce vittima della più superba e luciferina delle mogli, Onesta Donati, e del più astuto e avido dei contadini, Gianmatteo. Costretto a risiedere sulla terra per dieci anni, privato di ogni potere magico al fine di non alterare fraudolentamente i dati dell’inchiesta, ma ben provvisto di denari (l’unica arma vincente fra gli uomini), ecco Belfagor a Firenze (la città che gli sembra “più atta a sopportare chi con arte usuraria esercitassi i suoi denari”) alle prese con una splendida fanciulla, onesta sì ma spietatamente ambiziosa, che lo fa cadere nella trappola crudele del matrimonio. La scelta di Belfagor, un diavolo tradizionalmente legato all’universo femminile (San Gerolamo lo chiama Priapo), accentua il carattere satirico del racconto: diavolo licenzioso e lussurioso, Belfagor dovrebbe essere in grado di domare la più bisbetica e viperina delle donne, ma le sue arti impallidiscono dinnanzi alla determinata e sfrontata avidità di Onesta e della sua famiglia. Già, perché col matrimonio (come se non bastassero i continui prelievi della dolce metà), il povero diavolo si trova a dover fronteggiare un’armata di ingordi parenti e servitori che in poco tempo lo porta alla rovina, involando dalla casa persino le suppellettili. Perseguitato dai creditori e impossibilitato a far ricorso alle sue arti magiche, Belfagor-Roderigo si dà alla più veloce e furtiva delle fughe, ma mal gliene incoglie che dalla padella finisce nella brace, ovvero fra le grinfie di un astuto contadino, Gianmatteo, che ha subodorato la possibilità di arricchirsi alle spalle di questo cavaliere perseguitato da oscuri nemici. A dire il vero l’errore lo fa proprio l’ingenuo Belfagor quando, dando libero sfogo al proprio malumore, gli narra le sue disavventure coniugali e gli rivela la sua vera identità, recuperando al contempo i suoi poteri magici (è un’incongruenza narrativa, funzionale però all’esito finale della vicenda che vedrà il povero diavolo scornato e sconfitto). Non avendo niente da perdere, Gianmatteo non esita ad accettare le proposte del suo demonico compare che gli promette di arricchirlo “insegnandogli” a esorcizzare gli indemoniati: Belfagor prenderà dunque possesso di qualche nobile e ricca fanciulla e Gianmatteo si improvviserà esorcista, incassando poi il lauto onorario che si è soliti pagare nei casi di possessione. Non è difficile scorgere dietro questa farsa la sapida satira di quei veri e propri spettacoli di piazza che nell’età del Machiavelli stavano diventando gli esorcismi, tanto che la coppia Belfagor-Gianmatteo non sfigurerebbe nelle liste di quei ciarlatani e lestofanti di cui abbandona la letteratura rinascimentale e barocca sui vagabondi. Già la “prova generale” rivela la natura illusoria e ciarlatanesca della pratica esorcistica, con Belfagor acquattato nel corpo di una ricca fanciulla, da lui costretta a farneticare in latino e a improvvisarsi in feroce accusatrice dei peccati altrui (un altro topos, quest’ultimo, della letteratura religiosa e della novellistica che a fini diversi sfruttano la credenza secondo la quale gli indemoniati avevano il potere di riconoscere e denunciare i peccatori, soprattutto qualora di trattasse di frati gaudenti e lussuriosi), e Gianmatteo pronto a incassare dallo sventurato e frastornato padre una congrua sommetta in cambio del suoi falsi servigi: ” … Nè passorno molti giorni che si sparse per tutto Firenze come una figliuola di messer Ambruogio Amidei … era indemoniata, né mancorno i parenti di farvi tutti quegli remedii che in simili accidenti si fanno: ponendole in capo la testa di San Zanobi e il mantello di San Giovanni Gualberto; le quali cose tutte da Roderigo erano uccellate. E per chiarire ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito e non altra fantastica imaginazione, parlava in latino e disputava delle cose di filosofia e scopriva i peccati di molti: intra i quali scoperse quelli d’uno frate che si aveva tenuta una femmina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella sua cella … Viveva pertanto messer Ambruogio malcontento. E avendo invano provati tutti i remedii, aveva perduta ogni speranza di guarirla, quando Gianmatteo venne a trovarlo e gli promise la salute della sua figliuola quando gli voglia donare cinquecento fiorini … “. Ma la guarigione di questa fanciulla non è nulla rispetto al secondo tempo della farsa che vede vittima degli inganni del diavolo e del suo compare umano nientemeno che la figlia di Carlo, re di Napoli. E’ evidente che quanto Belfagor va proponendo al suo complice è una gustosa sceneggiata di cui l’unico protagonista, signore e padrone dell’azione e del suo scioglimento spettacolare, sarà (o, meglio, dovrebbe essere) proprio lui, il Diavolo, cui è concesso di entrare e uscire a proprio piacimento dal corpo degli uomini. Il fatto è che Belfagor, una volta recuperata la sua vera natura, non può fare a meno di ordire una trappola maligna, fosse anche soltanto per vendicarsi delle angherie subite in qualità di infelicissimo marito. Anche i diavoli, tutto sommato, hanno una loro dignità e devono salvaguardarla! Senonché Gianmatteo, di cui Machiavelli non ci fornisce il ritratto fisico, appartiene inequivocabilmente a quella stirpe di grifagni villani, magari rossi di pelo e scuri di carnagione, che sempre una ne sa più del diavolo e che sembra provare un enorme piacere nel gabbare proprio l’Avversario, quando addirittura non si identifica con esso. Belfagor sfoggi pure tutte le sue arti di perfido uccellatore; Gianmatteo ha comunque dalla sua quell’astuzia tipicamente contadina che gli consente di trarsi d’impaccio e di capovolgere a proprio favore anche gli eventi più nefasti. E’ quanto puntualmente avviene allorquando il sinistro Roderigo, nel pieno delle sue funzioni diaboliche, adempiuta alla promessa fatta al villano di farlo ricchissimo, si prende la briga di dimorare nella figlia del re di Francia, pregustando fra sé e sé l’atroce fine dell’improvvisato esorcista che, privo del suo aiuto, non potrà sloggiarlo da quella comoda abitazione. Costretto suo malgrado a recarsi a Parigi, minacciato di morte atroce qualora fallisca la guarigione, gabbato e sbeffeggiato dal diavolo che si rifiuta di lasciare la fanciulla, Gianmatteo non si scoraggia: tra suoni di tamburi e di campane annuncia al perplesso avversario che sta arrivando Onesta, la temutissima moglie. Gli effetti di tale notizia sono portentosi: ” … Fu cosa maravigliosa a pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordato il nome della moglie. La quale fu tanta che non pensando s’egli era possibile o ragione-vole se la fussi dessa, sanza replicare altro, tutto spaventato se ne fuggì lasciando la fanciulla libera; e volse più tosto tonarsene in inferno a rendere ragione delle sua azioni che di nuovo con tanti fastidii, dispetti e periculi sottoporsi al giogo matrimoniale. … “. L’ultima prova per il povero diavolo di quale inferno sia la terra si è così realizzata: vinto dalla moglie, vittima di un astuto e avido villano, a Belfagor non resta che tornarsene scornato e in-dubbiamente traumatizzato in quel regno cortese e ordinato che sono gli Inferi per testimoniare e avvertire i suoi compagni di come in mezzo alla malvagità e alla corruzione degli uomini non possa esserci possibilità di sopravvivenza neppure per un autentico diavolo venuto dall’Inferno: ” … E così Belfagor tornato in inferno fece fede de’ mali che conduceva in una casa la moglie. E Gianmatteo, che ne seppe più che il diavolo, se ne ritornò tutto lieto a casa.”.

La Montagna Incantata — di P.Maggi
[…]

Asterischi — di A.A.Mola
[…]

Per non dimenticare — di LPruneti
[…]

I vampiri e la ‘Nuova Antologia’ — di L.Pruneti
[…]

Le necropoli di Pompei — di G.Cirillo
[…]

La città massonica — di J.M.Schivo
[…]

Il manoscritto di Cooke — di M. Galafate Orlandi
[…]

Massoni in divisa: Giovanni Battista Ameglio — di A.Zarcone
[…]

Massoneria e politica — di G.Boaretto
[…]

Toussaint Louverture — di I.Zollno
[…]

Eleonora de Fonseca Pimentel — di A.Orefice –
[…]

1814-1861: Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia — di A.A.Mola
[…]

I Misteri di Eleusi — di P.A.Rossi
[…]

All’insegna del mandorlo fiorito — di L.Pruneti
[…]