Così accade il tutto in una favola esoterica

di Antonio Binni

… e se fosse vero che il Sommo Fattore ha creato il calamo prima ancora del cielo, della terra, del sole, della luna e di tutti gli altri astri? Quale calamo? Quello che contiene tutte le storie del mondo babelicamente confuse nell’inchiostro più nero delle ali del corvo in quieta attesa d’essere narrate da chi saprà portarle alla luce. L’ipotesi che tutte le meraviglie dell’universo siano state create dopo la nascita dal calamo è poi prospettazione affatto illogica, come potrebbe invece apparire ad un primo esame. L’Artigiano della creazione, nella Sua somma saggezza, sapeva infatti perfettamente che nulla esiste se non è narrato. La creazione, a stretto rigore, non sarebbe stata neppure necessaria, all’opposto del movimento della penna che trascrive le cose accadute. Dove, nella specie, la penna non era altro che il dito di Dio quando ha scritto l’universo. Nel mondo degli umani all’origine il narrare era un dono femminile, parola che una donna rivolge a un’altra donna al pozzo o al lavatoio. Nelle Mille e una notte il racconto di Shahrazād nasce invece nella notte ma, come ogni racconto, vince le tenebre e fa nascere ogni volta il giorno. Gli uomini ascoltano, ma imparano presto a raccontare sull’esempio di Ulisse che, alla corte di Alcinoo, narra nella tenebra, togliendo il sonno dalle palpebre dei suoi ascoltatori avidi di sentire. Ma Ulisse non vuole sconfiggere la morte come Shahrazād. Con le sue parole vuole soltanto raccontare una storia. Una delle tante storie che diventeranno poi racconti nelle penne di migliaia di uomini che continueranno a dire e a scrivere nel silenzio delle notti insonni o nel rumore dei caffè. Racconti di parole, dure come pietre, splendide come gemme scintillanti, raccolte da altri gioiellieri- scribi, disseminate sui loro fogli di carta, parole vecchie trasformate in nuove, come il vecchio alchimista che sa trasformare il rame in argento e l’argento nel più eletto degli ori. Parole spesso difficili, anche divisive, quando si tratta di dare voce alla inquietudine che nasce con l’analisi del rapporto con il Creatore: ricerca continua, come insegnano i neoplatonici, o spasmodica attesa nella casa dell’esilio, come predicano gli gnostici. Anche se poi tutti concordano sul fatto che solo chi è morto in questo mondo sarà vivo nell’altro. Storie, apologhi, favole con la loro lingua segreta che vela per rivelare quello che è nascosto per aiutare l’uomo, smarrito, a capire, a capire sempre di più il proprio mistero e quello del mondo. La favola con la sua ombra diventa allora uno specchio che riflette il segreto rispecchiato da accogliere con amore che è fuoco, non con l’intelletto che è fumo. Anche se è poi scritto nella umana natura che lo sguardo non potrà poi spingersi fino al fondo perché una formica non può sollevare una incudine né contemplare le Pleiadi. Né mitiga il dolore del limite invalicabile il fatto che l’incapacità di comprendere è pur sempre una comprensione. Il vasto arazzo favolistico è abitato da porti, mari, viaggi, mercati dove si vendono, acquistano e scambiano merci, da uomini ondeggianti come i rami del salice e da luoghi vicini e lontani dove è dato incontrare molti saggi perfino tra i facchini, i barbieri e le domestiche. È in questo mondo così variegato che, fra le più terribili storie del destino, ho trovato una favola educativa che illumina l’origine della finitudine dell’uomo prima ancora della sua nascita. E qui la racconto perché è ormai tempo di narrarla. Nella Bibbia la creazione di Adamo è un atto superbamente solitario di Dio. Nel mondo appena nato che conosce la luce del sole e della luna, Dio forma l’uomo dalla polvere della terra a Sua “immagine e somiglianza”. Tra Dio e l’uomo vi sono solo gli occhi del Creatore puntati sull’unica creatura che, appena ricevuto l’alito della vita, è subito un essere vivente che passeggia nel giardino dell’Eden. Creazione dunque istantanea in un unico e solo fiat. Ben diverso è invece il mondo islamico delle origini, popolato come un teatro da un coro di disobbedienti. Quando si sparge la voce che Allah vuole popolare il proprio mondo anche con uomini, i primi a ribellarsi sono gli angeli che si dichiarano indisponibili a convivere con chi avrebbe portato unicamente corruzione e spargimento di sangue fra quanti al contrario sono chiamati ad assolvere il ruolo di cantare le lodi del Creatore e l’esaltazione della Sua santità. A ribellarsi segue la terra, regno del bene, il contrario degli uomini, creature del male. Solo l’Angelo della Morte non bada alle ripetute proteste e, subito, si affanna a raccogliere argilla di ogni specie: bianca, nera, rossa, gialla, che offre al divino Vasaio. La sorte di Adamo è così segnata per sempre. Prima ancora di essere formato, il primo Uomo è già entrato nel regno della morte. È dunque l’Angelo della Morte che ha fissato per l’eternità il suo destino di creatura limitata. Così nella favola, che assolve il Creatore che, per questo, non lascia poi mai solo Adamo, anche se lo ha precipitato in una prigione: carcere pure per la tradizione ebraico-cristiana. Fitta tenebra che solo luminose rivelazioni ultraterrene vengono, di tempo in tempo, a infrangere e a interrompere per sollievo di chi abita il mistero di una vita segnata dalla morte prima ancora della nascita. La favola, come il mito che per sua natura è racconto, rivela anche nella circostanza ciò che alla ragione è incomprensibile.