La morte come chiave di lettura dell’opera pittorica di Caravaggio

di Antonio Binni

Quando a metà del sedicesimo secolo scoppia la peste, la Lombardia si trovava in una fase di felice espansione non solo economica, ma pure demografica. Dopo tutto muta. Mentre rimane ancora ignota l’origine del male misterioso e le stesse cause della diffusione del contagio, inizia un flagello spaventoso. La pestilenza miete migliaia di vittime. Nelle vie ingombre di cadaveri, si aggirano, come automi, mendicanti, orfani, vedove, disabili. Mancano i medici. Non ci sono cure. Si capisce che occorre isolare i colpiti dalla peste per evitarne la diffusione, ma la realizzazione di lazzaretti si rivela non solo lenta, ma pure difficoltosa nel trovare gli spazi necessari. Ogni attività economica si arresta per mancanza di mano d’opera. Regna così la miseria e la carestia. Provvidenziale si rivela l’opera di San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584, infaticabile nell’affrontare la pandemia, anche in prima persona. Così, quando inizia il rigido inverno, mancando i vestiti e le coperte per i poveri e gli abbandonati, per soccorrerli, dispone che vengano tolte dal suo palazzo tende e tappezzerie preziose. Mobilita preti e frati per l’assistenza ai moribondi, con obbligo di accompagnare in preghiera le salme degli appestati al cimitero. Come scrive il Manzoni (ne I promessi sposi cap XXXI, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pag. 573), la peste, a buon diritto, fu chiamata “la peste di San Carlo” tanto vasta e diffusa fu la sua carità. Quando, a Milano, nel 1576, era scoppiata la peste, Michelangelo Merisi aveva cinque anni, per essere nato a Milano nel 1571. Dato ora certo, perché nel 2007 è stato casualmente ritrovato il suo atto di battesimo. Per sfuggire al mortale contagio, la famiglia si rifugia nel suo paese natale, Caravaggio, all’epoca in provincia di Cremona; ma, anche lì, si fa sentire pesantemente il morbo. Infatti, la morte colpisce insieme, nello stesso giorno, il padre e il nonno. La caducità della vita diventa così il pensiero dominante del pittore che vela, ma neppure tanto, le sue opere con una lunga riflessione sulla morte che, per chi scrive, è la corretta chiave di lettura del verismo caravaggesco. Infatti, dietro alla scrittura della verità delle cose, che è pur sempre coscienza della vita, nella sua pittura si nasconde la morte, con la sua inevitabilità e con tutto il suo terrore. Dei morti abbandonati, dei bisognosi lasciati a morire senza alcun aiuto, il pittore si ricorderà in alcune sue opere, ma maggiormente in uno dei suoi celebri capolavori, le Sette opere di misericordia, quadro del 1607, dipinto per la Chiesa del Pio Monte della Misericordia, a Napoli, dopo la fuga da Roma perché condannato per l’omicidio del Tommasoni. Il crudo scenario della peste, fonte di tragica morte, è tutto incentrato sul sacerdote che accompagna un funerale, con in mano una fiaccola che illumina un monatto che porta il morto dai piedi nudi che si intravedono. La scena si sviluppa in una strada napoletana affollata, stracolma di dolore e di umano calore, ricca di altri personaggi e di altre figure immerse in contesti drammatici luminosi secondo la cifra propria del pittore. È poi indubitabile che il quadro costituisca una esortazione a impegnarsi concretamente nelle opere di misericordia. A noi, sommessamente, sembra però altrettanto indubitabile che l’anima del dipinto sia proprio la morte, che, in tutta la sua tragicità, su tutto aleggia, come è desumibile particolarmente dalla Madonna col bambino che sovrasta tutta la scena, proprio per dare corpo e sostanza a tutti i dolori della terra, morte compresa. Nella sua apparente estraneità al tema della morte sembra essere l’altro capolavoro del 1509, la Canestra di frutta, commissionata da Federico Borromeo, quando, invece, nulla richiama la finitezza della vita quanto questa opera, pur nella sua generale luminosità. Spie sicure della fine dell’esistenza sono infatti i minuziosi particolari. Frutti bacati, foglie morte, tralci accartocciati, la presenza delle cose, ma particolarmente la scomparsa dell’uomo sono infatti altrettanti particolari che denunziano nel pittore il pensiero della morte, anche a non volere sopravvalutare il rilievo che la natura morta, per definizione, è legata al pensiero della morte, insistiamo, assolutamente dominante nel Caravaggio. Lo stesso pensiero di morte si ritrova parimenti nel successivo olio su tela intitolato Fanciullo con canestro di frutta del 1593/1594. Accanto alla vita lussureggiante costituita dalla frutta nel canestro e, in particolare, dell’uva bianca e nera, delle mele e delle pesche, è dato infatti cogliere la foglia, del colore giallo della morte, in procinto di cadere fuori dal canestro. Anche se poi il pittore, con acuta riflessione, inserisce la morte dentro la vita, rappresentando la spaccatura sanguigna del fico e la butteratura delle foglie a stelo. Identico motivo di morte è dato rinvenire nel successivo olio su tela del 1596/1597 intitolato Bacco. Anche in questa opera, sul capo del dio figurano infatti foglie gialle – il colore della morte – a significare appunto la caducità della vita, che tocca pure la divinità, pur sempre, come l’uomo, destinata col tempo a cessare di vivere, che è sottolineatura di una sorte comune. È tuttavia nell’opera del 1606 – Morte della Vergine – che il pittore, con il suo verismo lombardo, rappresenta la tragedia della morte e il dolore umano, quasi a dirci che la storia sacra è insieme storia di ogni persona che muore. Se la Madonna non avesse l’aureola potrebbe infatti scambiarsi per il cadavere di una annegata con infranto decoro perché rappresentata con le gambe scoperte. Mentre il ventre gonfio, che riporta al cadavere di una annegata, altro non è, invece, che memoria di una maternità misteriosa non svanita neppure nell’abbandono del corpo. Qui, più che altrove, Caravaggio rappresenta la tragedia della morte: dramma che aveva conosciuto di persona in quanto vissuto nella propria famiglia fin da piccolo. Quanto poi al senso attribuito alla morte dal pittore, rimane mistero insondabile. Anche se noi propendiamo per una concezione greca dell’evento, piuttosto che cristiano transito verso una vita immortale. Dunque, non già una apertura alla speranza, bensì una fine di ogni cosa, senza senso, che non sia quello della pura necessità perché la vita, in generale, continui, fine di un ciclo e null’altro. Siamo convinti che questa lunga, ininterrotta, meditazione sulla morte altro non sia che l’altra faccia della vita disordinata del pittore, consumata fra tavernieri, giocatori, facchini, zingare, esseri umani diseredati dai panni sporchi e stracciati, con la felicità di parlare con tutti. Novello Socrate, perché se Socrate era in grado di far scaturire dal proprio interlocutore il buono, il vero e il giusto, così Caravaggio, dal baro e dalla prostituta, era capace di fare scaturire la bellezza. Michelangelo ha voracità della vita, che aggredisce a morsi, che si manifestano appunto con la vita avventurosa, irregolare, ricca di processi, vita violenta, tormentata, impastata con la feccia della strada abitualmente frequentata. Tanto più toccava gli abissi della abiezione, tanto più contemporaneamente toccava le verità più profonde della esistenza, perché la vita, ora, è bellezza, ora, è invece buio, intreccio inestricabile di forze barbariche. Senza, tuttavia, mai perdere il tormento della morte, diffusa nel reale, senza appello e senza speranza. In sintesi un uomo autentico, vivo, ricco di ferite, ma stracolmo di genialità. Tra i tanti autorevoli maestri di pittura, i massoni, che, pur non frequentando la strada, conoscono tuttavia ugualmente le luci e le ombre della vita, prediligono sicuramente Caravaggio. Come Caravaggio, anche i massoni sanno infatti che la vita altro non è che una lunga meditazione sulla morte, senza, però, che quest’ultima prevalga sulla vita. L’uomo, contrariamente a quanto pensava Heidegger, non è infatti nato per la morte, ma per la vita. La preferenza di Caravaggio, da parte dei massoni, poggia poi, se possibile, su di un terreno ancora più saldo. Caravaggio è infatti il pittore della luce, che, nella sua pittura, è un “terzo elemento” accanto al disegno e al colore. Luce che, improvvisa, irrompe per illuminare, squarciando il buio. Come avviene nell’olio su tela dedicato alla Vocazione di San Matteo dove la chiamata, a ciascuno di noi, a una vita autentica, è perentoria e senza scampo. Nell’opera da ultimo richiamata, al pari di quanto avviene in tutti gli altri quadri capolavori che la contengono, la luce è protagonista assoluta perché modella gli spazi e le forme, creando i soggetti. Particolarmente i soggetti. Così come propriamente avviene con la luce massonica chiamata a creare l’Uomo Nuovo, l’Uomo autentico, ansia di infinito mai vinta dalla pur certa esistenza della morte.