Note minime sullo stato ideale di Platone e sulla sua politica in terra siciliana

di Antonio Binni

Negli ultimi anni del V secolo Atene, culla dell’arte e della saggezza, è una città duramente sconfitta. Nella guerra del Peloponneso prevale la violenta, militarizzata, ferrigna Sparta, che, più che favorire, impone alla città vinta il governo dei Trenta Tiranni (404-403 a. C.), a capo dei quali vi era Crizia, zio di Platone, allievo di Socrate, il che ebbe sicuramente un peso non indifferente nella condanna a morte del filosofo. Socrate era infatti troppo vicino a Crizia per non ingenerare sospetti nella cittadinanza del suo eventuale coinvolgimento nei crimini del suo adepto. Atene ribolle sotto il calcagno dei Trenta Tiranni. Trasibulo capeggia una rivolta che rovescia il regime tirannico. In città viene così ricostituita la democrazia che, agli occhi di Platone, si rivela, però, come una organizzazione di governo intimamente malata. Non solo perché, su false accuse, aveva condotto a morte Socrate, secondo Platone l’uomo più giusto dell’epoca (VII Lettera, 324d), ma anche per la presenza in città dei sofisti, “cacciatori prezzolati di giovani ricchi”, come li aveva definiti Socrate, interessati unicamente al guadagno, giocolieri della parola piegata ad un significato e, contemporaneamente, al suo opposto, disinvolti nella difesa, o nella condanna, di questa o quella costituzione politica, forti del potere persuasivo della parola, l’unico loro vero insegnamento. D’altra parte, troppo fresco era ancora il ricordo delle nefandezze dei Tiranni, fra le cui scelleratezze Platone annoverava pure il tentativo di coinvolgere Socrate in un losco affare per poterlo poi in seguito ricattare senza peraltro riuscirvi, perché Socrate si era rifiutato di condurre a morte un cittadino ateniese nell’isola di Salamina (VII Lettera 325a). Da tutto ciò nasce la difficoltà di Platone di dedicarsi in concreto alla politica cittadina, pur avendone una indubbia propensione, sia pure col limite di volersi mantenere onesto (VII Lettera 325c). Ciò malgrado, la politica come guida del governo della città rimane al centro della riflessione del filosofo e ciò fino al punto di volere coltivare l’ambizioso progetto di definire lo Stato ideale, in termini ovviamente conformi alla sua filosofia delle Idee, paradigma e ombra di quello che avrebbe poi dovuto divenire lo Stato in concreto. Questa l’origine di una potente visione di una società assolutamente nuova e originale. Contro la crisi della democrazia Platone, soprattutto in quello che è ritenuto il suo capolavoro, la Repubblica, ma anche nella VII Lettera (326b), propone una politica fondata sulla conoscenza che ha come obiettivo supremo la difesa del bene comune, superiore, perciò, a qualsiasi bene particolare. Il sapere al potere e l’irreversibile superamento della soggettività comportano, in quest’ottica, che il governo della città venga affidato non già all’opinione fallace della maggioranza, come avviene in democrazia, bensì ad una minoranza qualificata perché caratterizzata dall’amore per la conoscenza. I “Molti”, amanti delle opinioni, costituiscono, infatti, un serio pericolo. Sicché, fino a quando non si passerà dal semplice punto di vista alla sapienza, la politica – così argomenta Platone – non sarà altro che una mera gestione di interessi contraddittori e semplice amministrazione del potere. Insegnamento ancor oggi prezioso, anche se, purtroppo, inascoltato e negletto! Ecco perché l’opera di questo immenso pensatore antico è, anche nell’odierno presente, ancora attuale e stimolante come mai. Una concezione così alta dello Stato è poi ovvio che segni il più netto superamento della politica che pretendeva di affidare la guida dello Stato alla abilità della parola, alla sua capacità di persuasione, alla sua funambolica capacità di far apparire giusta una causa ingiusta, e viceversa, anziché, come esige Platone, alla conoscenza razionale, imposta dai complessi problemi della città, con conseguente condanna della facoltà di mentire, caldamente raccomandata invece dai sofisti. Pensiero che, all’evidenza, non poteva non preoccupare il leale e rigoroso Platone, giustamente attento al futuro di Atene. Lo Stato ideale delineato da Platone presenta precisi limiti agli occhi dei contemporanei, in quanto irrispettoso della libertà e della dignità individuale. A tacer d’altro, ripugna la messa in comune delle donne! Si aggiunga che, come tutte le utopie, anche quella di Platone, in quanto costruzione perfetta, non può ammettere modifiche perché ogni suo eventuale cambiamento implica imperfezione. Va ancora considerato che l’utopia crea immobilismo perché, una volta raggiunto lo scopo, ossia il livello più alto dell’immaginata costruzione, cessa ogni possibilità creativa, riducendosi, di necessità, ogni sforzo operativo alla sola difesa del presente, ossia del risultato conseguito. Per dare un seguito e un senso compiuto a queste note, dobbiamo ora nuovamente attingere alla VII Lettera, l’opera platonica più ricca di informazioni biografiche del filosofo, nota in particolare perché ha tramandato ai posteri il fallimento di Platone come uomo politico. Ne diamo di seguito un cenno per confermare il ruolo centrale che la politica aveva nel pensiero filosofico del Nostro. Incoraggiato dai suoi amici pitagorici e, in particolare, dal matematico Archita di Taranto, Platone accetta l’invito a recarsi a Siracusa nel tentativo di applicare la sua teoria politica in terra siciliana con una motivazione che vale la pena di citare alla lettera: non volere “sembrare a me stesso solo un uomo che parla e basta, un uomo del tutto privo della volontà di impegnarsi in una azione concreta” (VII Lettera, 328c.). Un uomo, cioè, capace di coniugare fatti e parole. Un uomo, per dirla altrimenti, dotato di piena coerenza tra la sfera del discorso filosofico e quella della azione: una coerenza che non fallisce al banco di prova dei fatti. Parole invero illuminanti, di coerente concordanza fra teoresi e prassi, che suonano come un monito a “sporcarsi le mani”, oggi, forse, più che mai valido e perciò da accogliersi senza appello né condizioni. Particolarmente – la sottolineatura sembra imporsi – da quanti seguono la via latomistica. La Massoneria non è una organizzazione con scopi politici. Riconosce, però, ai suoi membri la libertà di avere un credo politico. E pure di praticarlo. Dunque, nulla osta a che ogni adepto possa contribuire con le proprie idee politiche al governo della società civile. Più che una facoltà. Propendiamo infatti per un obbligo, senza, tuttavia, che ciò distolga dalla ricerca iniziatica. Né deve paralizzare il pregiudizio che la politica sia impermeabile alle dottrine iniziatiche! La Storia, evoluzione dell’uomo nel tempo, infatti, dimostra che è vero proprio l’esatto contrario. Che gli uomini, come insegnò prima l’Illuminismo e poi la massoneria, nascano liberi e uguali, oltre che del pari dotati di uguale dignità, qualità intrinseche alla persona, dunque, non concesse né attribuite, è infatti valore iniziatico divenuto irrinunciabile, sostitutivo, per sempre, di quel principio gerarchico che era stato, invece, il fondamento della civiltà medioevale per tutto il periodo della sua lunga durata. Né, d’altra parte, la disciplina della comunità può lasciarsi integralmente a tutto ciò che è calcolo, strategia e intrallazzo, come avviene quando la vita collettiva è oggetto di disinteresse. L’esito, disastroso, del triplice tentativo compiuto da Platone di innestare la politica conoscenza nella città siracusana è poi fin troppo noto. In nessun dei tre viaggi siciliani Platone ottenne infatti il risultato perseguito. Cacciato per la prima volta da Siracusa (e, secondo la tradizione, venduto come schiavo), fallisce nei due viaggi successivi. In quello del 367 a. C. rischiando addirittura di morire, sequestrato dai mercenari di Dionisio il Giovane, tiranno della città, figlio e successore di Dionisio il Vecchio. Né migliore sorte ebbe il terzo tentativo (361 a. C.), quando una fazione di amici di Platone, capeggiata da Dione, zio di Dionisio il Giovane, organizzò, nonostante il parere contrario del filosofo, un colpo di Stato, culminato poi con l’assassinio di Dione da parte delle sue stesse truppe, fonte di profondo dolore per il filosofo, stante la sua grande stima e amicizia nei confronti di Dione (VII Lettera 336a). Per la straordinaria importanza che riveste la circostanza, va però ricordato che, fra il primo e il secondo viaggio, Platone ritorna a Atene dove, nel 387, fonda l’Accademia, una scuola per giovani aspiranti politici, che, a buon diritto, può considerarsi la prima Università del mondo, per certo una istituzione, per l’epoca, sicuramente e totalmente rivoluzionaria. E così il cerchio si chiude in via definitiva perché dallo Stato ideale Platone passa all’azione concreta coerente alla sua filosofia, comprendendo, nel frattempo, prima, e attuando, poi, l’assoluta importanza della formazione culturale come necessaria preparazione ad una autentica politica realmente consapevole e totalmente compiuta. E qui si arrestano pure queste note, con le quali abbiamo voluto in principalità ricordare, ad un presente insipiente, che solo la conoscenza, e la conseguente saggezza, rendono legittimo l’esercizio del potere e dunque che solo chi si dedica alla sapienza merita di governare. Del resto, come possono governare individui che, nella vita, si occupano soltanto di opinioni? Ne consegue, conclusivamente, che l’assunto “uno vale uno” è una enorme corbelleria perché l’unicità della persona non assicura piena identità di ruoli ed equivalenza di competenze. Lezione antica, in verità, se già Eraclito, ammonendoci, insegnava che “uno solo, se è il migliore, vale diecimila” (frammento 49 Diels – Kranz).