Sulla felicità

di Antonio Binni

A chi ha l’occasione, anche in una qualsiasi giornata di sole, di salire su di un aeroplano, o su un treno ad alta velocità, o più semplicemente su di un trasporto pubblico urbano, è tutt’altro che infrequente, per non dire perfino generalizzato, imbattersi in visi accigliati, tesi, infelici, perché ognuna delle persone occasionalmente incontrate è assillata dai propri particolari dispiaceri. Il quadro, desolante, non muta poi se ci si imbatte in una strada affollata di uomini e donne che si stanno recando al lavoro o anche soltanto al parco per una passeggiata nei giorni festivi. Le grida e gli schiamazzi dei bambini non rallegrano il viso della madre intenta alla lettura, invano. L’ansia e la preoccupazione che si scorgono in tutti quei visi rivelano lo scontento. Vien fatto allora di dire che la felicità non abita più qui in questo mondo così difficile e infido. Forse è a causa di questa tangibile e amara constatazione che, in questi ultimi tempi, per la legge del contrappasso, si è finiti per spostare l’attenzione sul concetto opposto alla infelicità. I segni di questa inversione di tendenza volti a cogliere il senso profondo della felicità – filosoficamente la sua essenza – sono divenuti, così, frequenti e numerosi. Ne richiamiamo alcuni considerati fra i più significativi. Il primo a mettere in luce la diffusa esigenza di recuperare la smarrita felicità è stato un giovane, ma già autorevole, studioso padovano – Davide Susanetti – che, con la sua preziosa antologia Pensieri sparsi di antiche felicità di AA. VV., Feltrinelli, 2018, ha avuto il merito di ricostruire, in termini puntuali e esaustivi, il concetto di felicità dal profilo delle diverse scuole filosofiche antiche. Nell’anno in corso, il quotidiano Corriere della Sera, nell’ambito delle sue pregevoli “Grandi Collane”, ha dedicato alla felicità una intera sezione denominata la Biblioteca della felicità. Sull’argomento sono già stati editi tre volumi. Il primo raccoglie due testi classici di Seneca, rispettivamente, Sulla felicità e La tranquillità dell’animo, molto noti, ma, in verità, mai abbastanza approfonditi. Il secondo è La conquista della felicità di Bertrand Russell, un testo del 1930, ma ancora oggi straordinariamente attuale: volume che si legge gradevolmente perché scritto senza paludamenti accademici, brillante per la felice ironia, tutta britannica, che permea tutta l’opera da leggersi con sicuro grande profitto. Il terzo, intitolato La pace dello spirito, racchiude invece importanti conversazioni tenute dal Dalai Lama nell’aprile del 1997, che interessano da vicino il tema della felicità, alla quale “solo gli uomini pensano” (ivi, pag. 9), visto che Sua Santità crede che “in ogni caso lo scopo della vita” è “quello di essere felici” (op. cit, pag. 180). Nella collana è prevista la pubblicazione di altri sette volumi, tutti dedicati all’argomento, usciti dalla penna di illustri studiosi. L’ultimo di questi segni significativi è costituito dalla scoperta, tutta italiana, della Pillola della Felicità, preziosa per la cura della mente e del corpo, della quale ha dato notizia la stampa quotidiana proprio mentre era in corso la stesura di queste note. Tanto interesse quindi ci ha fatto nascere alla trattazione dell’argomento già, prima facie, vasto e complesso, del quale è in ogni caso opportuno parlare con pudore o, come ha scritto una volta Rilke, con “vergogna”, quasi si trattasse di “una speranza che non si può dire” (Elegie duinesi, II, 43) perché oltre misura bruciante è la disillusione troppe volte provata rispetto alla promessa irrinunciabile. Da qui alcune riflessioni che non dovrebbero essere inutili, non fosse altro perché occorre ritornare ad una diffusa felicità se si vuole, così come pur si deve, rendere meno agra e astiosa la vita della intera comunità, purtroppo, per sua natura, competitiva. Il problema della felicità, a nostro sommesso ma meditato modo di vedere, è preminentemente, se non addirittura esclusivamente, del tutto soggettivo e mentale, sebbene per gli scienziati sarebbe naturalmente più semplice cercare di ottenere la felicità cambiando il mondo esterno che non il mondo interno del singolo uomo, così complesso e spesso oscuro. Salvo poi dagli stessi insistere sulla insufficienza della attuale valutazione della felicità collettiva basata così com’è unicamente sulla produzione dei beni (Pil = prodotto interno lordo): sistema definito anacronistico, insufficiente, oltre che contrario ad ogni umanità, così come aveva già denunciato Robert Kennedy, perciò da bandire, per sostituirlo invece con altri indicatori, fra i quali, preminente, andrebbe considerato il benessere della popolazione (c.d. Fil=felicità interna lorda). Pur restando poi difficilmente spiegabile da questi studiosi il fatto che, per sedurre le folle, si è poi costretti ad ammettere che ogni grande ideologia, da quella materialista e comunista a quella liberista e mercatilistica, è inesorabilmente costretta a far leva sul concetto di maggiore felicità. Ciò posto, in questo scritto intendiamo però riflettere unicamente sulla felicità soggettiva ed individuale al fine, se possibile, di determinarne l’ambito e l’essenza peculiare. Fermo restando che, quando parliamo di felicità, non intendiamo un momento passeggero e, più in generale, stati d’animo euforici più o meno istantanei e comunque transeunti, quanto invece quella di natura duratura, se non addirittura permanente, come insegnano i filosofi quando fanno, della felicità, l’ obiettivo principale della loro ricerca. Domandiamoci, allora, innanzi tutto, se l’uomo è nato per la felicità o se, al contrario, la felicità è una mera e semplice illusione, una attesa in fondo irragionevole, appunto perché non può essere calcolata, in fondo, semplicemente un sogno. La parola felicità evoca un quid al quale ci sentiamo tutti destinati: non semplice desiderio, ma addirittura diritto inalienabile, come è stato sancito esplicitamente dalla Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, dove diritto si qualifica appunto la “ricerca della Felicità” (pursuit of Happiness). Come è evidente, non ogni ricerca conduce però al successo. Così come ogni diritto, per quanto prescrittivo, può però rimanere ancorato al solo valore programmatico. Da qui lo scetticismo in materia che, mentre nega la possibilità di una felicità stabile nella vita terrena, si limita, all’opposto, a concedere unicamente un isolato vissuto lieto, sempre però ridotto a piccole parentesi, attimi subitanei, lampi capaci solo di scalfire un ideale irraggiungibile. Tesi, quest’ultima, sulla quale ci permettiamo dissentire, pure con ogni dovuto rispetto a chi la sostiene, perché, se la felicità non fosse già presente, qui e ora, nella nostra vita, come motore e criterio di ogni nostro desiderio, esito di un nostro progetto, se non la conoscessimo in un qualche modo, non potremmo neppure ricercarla. Come, con acume, ha insegnato Agostino. Noi, sommessamente, ma convintamente, siamo invece profondamente persuasi che la felicità sia concretamente raggiungibile e pure conquistabile, a condizione, tuttavia, che si prescinda dalla pur diffusa esemplificazione, per quanto necessaria, posto che, percorrendo questa unica strada, si finisce fatalmente, quanto inevitabilmente, in sentieri interrotti. Conseguire l’obiettivo perseguito è possibile, a nostro sommesso giudizio, solo se, sul piano generale, si consideri, come pur si deve, che la felicità dipende in parte da noi stessi, e, in parte, invece, da circostanze esterne. Dove il problema – ne siamo ben consapevoli – è da noi impostato secondo la strategia delle virtù pagane, ossia in quei termini filosofici che si risolvevano in una specie di “esercizi spirituali”, secondo la fortunata formula di Pierre Hadot, o, ai giorni nostri, per dirla con il compianto Giovanni Reale, come una specie di “terapia dell’anima”. Entrando nello specifico, quanto alle circostanze esterne, è innegabile che impediscano la conquista della felicità la guerra, la pandemia e il terremoto. Se si vuole poi vivere felici, occorre affrancarsi dalla dittatura e, più in generale, da qualsiasi potere esterno autoritario, nei confronti del quale occorre mantenere distacco, libertà interiore come appunto l’arma più forte che l’uomo ha a sua disposizione per sconfiggere ogni autorità che tenta di condizionarlo. La eventuale fede in un credo religioso costituisce, forse, il più potente antidoto fino al disprezzo della autorità impotente a piegare, nonostante gli eventuali insulti e le frequenti intimidazioni e, spesso, perfino le torture. Resistere a questi eventi estremi, autentici fortuita, mentre si combatte contro i venti vorticosi della Storia, richiede però un lavoro su di sé nel profondo, per definizione duro, ossia il possesso della virtù che in sé è equidistanza. La felicità, così intesa, ossia come dura e difficile conquista, non coincide però con il semplice stare appartati. All’opposto, richiede il vivere nel mezzo della comunità e, dunque, l’operosità dell’ora e più in generale il cimento della vita, conservando però sempre l’indifferenza e la tranquillità. In merito alle prime (intemperie che provengono dal proprio animo), si tratta evidentemente della capacità di dominare le proprie passioni, i propri smodati desideri, le proprie eccessive aspirazioni di vita (in massoneria: di gradi!), di vincere, in generale, qualsiasi elemento perturbativo di uno stato d’animo sereno, difficile rapporto con il proprio ego, visto che il contenere le proprie speranze e, ancor più, le proprie ambizioni può sfociare alla fine nella disistima di sé. Donde il grande pericolo che un tale conflitto nasconde. In questa difficile competizione ancor oggi soccorre, però, quel famoso frammento di Democrito nel quale si consiglia di comprendere quali siano le cose alla nostra portata e di sapersene accontentare. Pena le più amare disillusioni. Da qui il fermo rifiuto al confronto emulativo e, soprattutto, competitivo verso chi è al di sopra delle proprie possibilità, limitando, all’opposto, il nostro sguardo a chi sta peggio. È comunque il dominio delle emozioni negative quello che garantisce il possesso della felicità. In quest’ottica va inesorabilmente bandita l’invidia. L’invidia è, infatti, il più terribile e pericoloso ostacolo alla felicità perché, a differenza di tutti gli altri vizi che si esauriscono nell’istantaneo (il goloso con la leccornia, ecc.), perdura invece nel tempo. Con la conseguenza che non dà mai pace né respiro, per lo meno fino a quando l’invidiato non cada in disgrazia, o l’invidioso non diventi, a sua volta… l’invidiato! È singolare, invece, l’importanza che l’invidia riveste in ambito collettivo, visto che l’invidia è la principale forza motrice che spinge alla giustizia classi sociali fra loro confliggenti. Anche se poi si tratta di giustizia spesso della peggiore specie, visto che il livellamento si ottiene diminuendo i privilegi del ricco anziché accrescere i pochi privilegi del povero. Facciamo ora seguire alcune piccole notazioni integrative, utili alla delimitazione perimetrale del concetto. Alla felicità intesa come libertà dello spirito sono estranee tanto la prosperità, quanto la povertà, ben potendo la felicità essere presente nella povertà e assente invece nella agiatezza. Anche la salute non è un requisito determinante per il raggiungimento della felicità. Se fortunatamente sussiste, per certo aiuta; ma si può vivere con piena tranquillità d’animo anche in presenza della infermità, senza per altro fare ricorso a chi perfino la benedice come il raggiungimento della piena e totale felicità, come abbiamo pure personalmente udito da chi però era in possesso di una solida fede in valori ultraterreni. La felicità non dipende neppure dalla pubblica opinione, proprio perché ciò che è estraneo non tange la raggiunta serenità d’animo. Ma non può negarsi che “la paura di ciò che dicono i giornali” può per il politico o l’imprenditore di successo tradursi in un elemento ostativo al raggiunto possesso della felicità perdurante almeno per tutto il periodo nel quale permane il clamore della notizia negativa, spesso mantenuta ad arte. Parimenti dicasi anche per la semplice contrazione degli “ascolti” per la stella televisiva, che, a seguito della stessa, e, ancor più della perdita totale del pubblico, finisce per perdere il sonno e la felicità. Ci piace infine ricordare che possono essere felici anche le persone che trascurano la propria felicità, pur costrette perfino a soffrire dentro di sé. Il che avviene quando ci si occupa del bene altrui. Questo dono può infatti ben rendere felici… contemporaneamente! Prima di esaurire la nostra analisi, desideriamo richiamare l’attenzione del benevolo lettore su di uno degli ingredienti più essenziali – forse il più essenziale di tutti – per il conseguimento della felicità, costituito dalla continuità del proposito di raggiungerla. La fermezza dei propositi è, infatti, indispensabile per una vita felice; ma in sé non è sufficiente, occorrendo la abituale perseveranza. Individuate così in via definitiva le condizioni indispensabili per godere di una vita felice, siamo ora in grado di conoscere ove abita la felicità. Bussare alla sua porta equivale ad entrare in un altro mondo. Sbagliare indirizzo si rivela, invece, fonte di immani sofferenze. Dalla linea argomentativa sviluppata è emerso, con chiarezza, che la felicità si consegue non per sommatoria, bensì per sottrazione, esercizio abituale al massone che così opera per liberarsi dei metalli. L’abitudine pertanto aiuta il massone a non portare la felicità ai margini dei propri programmi. Pure perché, fra i massoni, per dirla sempre con Agostino (Confessioni, X, 23, 33), esiste diffuso il gaudium de veritate. In ogni caso, risponde a verità che il massone, nella ricerca della sua personale felicità, è sicuramente agevolato perché la felicità è favorita dalla riunione di persone in possesso dell’identico sentire. Soprattutto sul piano degli ideali e dei valori. Un simile ambiente ha inoltre il pregio di rendere evidente un ulteriore profilo del concetto disaminato, reso palese dall’etimo del vocabolo, ancora una volta prezioso ai fini ricostruttivi della idea. La parola ha una etimologia che, dal latino al greco, risalendo fino alla radice sanscrita, lega la felicità alla fertilità, al produrre vita per gli altri. Morte dell’egoismo, rinascita alla vita come dono. Spendita di sé generosa a favore non solo dei Fratelli. Non utopia, non ideologia, ma progetto consapevole, compito nato dalla libertà che, come insegnano i miei amati stoici, fa dell’uomo un “re” e, perfino, un “viceré degli dei”, se si vuole dar credito a Filone (1.3.20). Come piace credere a chi ha scritto queste note, dedicate a chi, infelice, combatte per essere felice. Per sé e per gli altri, perché, se tutti sono infelici, pure per noi sarà oltremodo difficile essere uomini felici.