Nuove considerazioni sulla prudenza
di Antonio Binni
Negli Appunti sulla prudenza, apparsi su Officinae del giugno dell’A.D. 2019, ho trasfuso il risultato delle mie prime meditazioni sull’argomento, sul quale, di nuovo, ritorno per almeno due ordini di motivi che, almeno soggettivamente, considero fondati. Il primo. La prudenza, nel corso della modernità, è una virtù quasi del tutto scomparsa, un valore comunque travisato perché per lo più divenuto una forma di viltà e di pavidità con conseguente indifferenza. Sicché riconoscere a questa autentica virtù tutta quella grande considerazione, che per certo merita, è obbligo, non solo cogente, ma pure ineludibile. Il secondo. I risultati conseguiti con il mio primo contributo conoscitivo sopra richiamato hanno finito per lasciarmi non del tutto soddisfatto. Specie laddove è completamente mancata la invece doverosa esatta ricostruzione del procedimento prudenziale, oggetto, invece, principale della odierna analisi. Se non ho poi posto mano sollecitamente all’attuale approfondimento ciò si spiega con la motivazione che le idee, per essere vagliate, abbisognano di essere scrupolosamente meditate. Matura riflessione che richiede tempo e tranquillità perché, scrivere, è raccoglimento, concentrarsi al riparo dalle distrazioni, soprattutto, aspettare che le parole vengano una a una da certi silenzi originati da vocaboli perduti o semplicemente travisati. All’uomo manca l’abbraccio di un cielo bianco, sereno. Il giro, inquieto, della vita espone l’essere umano a non cercati né voluti trabocchetti, lacci e tagliole. Altre volte, è invece vittima di insidie, macchinazioni, imboscate, raggiri apparecchiati a suo danno. In estrema sintesi, subisce minacce che appaiono tanto più grandi in quanto ignote sono le conseguenze e, prima ancora, il quando del loro verificarsi. Quanto dire altrimenti che l’oscurità e l’incertezza fanno apparire maggiore ogni rischio. Il pericolo costituisce pertanto l’antefatto della prudenza: il suo antea perché, in mancanza di un rischio, non sorge l’esigenza della prudenza visto che proprio la prudenza proteggerà l’uomo da danni e perdite. Quando si avverte, pungente, l’impressione di un pericolo, che minaccia, occorre esaminare attentamente e scrupolosamente tutte le circostanze fonte di questa sensazione. In particolare, occorre soffermarsi su quelle possibilità che, almeno potenzialmente, sono idonee a contrastare il rischio. È codesto il primo dei tre momenti nei quali si dipana e si realizza il procedimento prudenziale, che nasce, appunto, e innanzi tutto, come raccolta di informazioni di tutti i dati possibili utili al bisogno. Da sottoporsi – insistere sul punto è doveroso – al loro attentissimo esame con gli occhi della ragione esercitando il massimo delle capacità critiche senza lasciarsi fuorviare né dalla fantasia, perché la fantasia non è in grado di formulare giudizi, né dalla paura della possibilità che i neri pensieri diventino probabilità. Tutto codesto materiale, vagliato con attenzione, diventa così il fondamento del giudizio sul da farsi. Questa seconda fase del procedimento prudenziale è il regno della illuminazione e della abilità. Il deliberare efficacemente è operazione sicuramente oltremodo complessa e difficile perché la buona decisione è il frutto della valutazione di una complessità di dati e elementi soppesati secondo caratteristiche e peculiarità strettamente personali. Che non ignorano neppure l’azzardo quando il rischio si risolve in μῆτιν, ossia in una riflessione (così Omero, Iliade, XXIII, 313 e segg.) che richiede sempre l’attento rispetto del tempo, visto che, coloro che non sanno aspettare, ne divengono poi sempre vittime. Proprio questa libertà di giudizio strettamente personale esclude la codificazione di regole precostituite tali da assicurare con la loro puntuale osservanza la buona riuscita della impresa. Per questo, per certo non secondario motivo, siamo dell’avviso che la prudenza non può essere considerata come una scienza. Così come invece sostenuto da Cicerone che definisce appunto la prudenza come “la scienza delle cose che si devono cercare o fuggire” (De Officiis, I, 153). All’opposto, a nostro sommesso, ma ponderato giudizio, deve esserle propriamente riconosciuta, la sola qualità di virtù dal compito proprio, ed esclusivo, di prefigurare il percorso adeguato per raggiungere il fine perseguito: evitare pericoli e perdite minacciose all’orizzonte. Una virtù – sia concesso il rilievo – che assume una importanza centrale per essere guida di tutte le virtù (auriga virtutum) in quanto consente di riconoscere l’obiettivo fondamentale della vita nella situazione concreta e soprattutto i mezzi adeguati per poterlo conseguire. Dopo quanto sostenuto è facile arguire che, a nostro parere, il retto giudizio appartiene piuttosto al regno dell’”arte di vivere” proprio per quella sua assoluta discrezionalità e imponderabilità, che è sensibilità propria di ciascun essere umano, nel sentire di chi scrive queste note, contrapposto alla mentalità alienante dell’attuale epoca tecnologica indagata così a fondo da Foucault, Heidegger, Arendt e Gadamer. Il che rende evidente, e nel contempo sottolinea, proprio uno dei danni maggiori della nostra società che è la ricerca della certezza sulle scelte da compiere: una certezza impossibile da raggiungere proprio perché ogni vivente giudica secondo la sua formazione e la sua interna percezione. Il che, appunto, ha come effetto, finale e conclusivo quello di accrescere lo spazio della incertezza e dell’ansia collettivi. Una volta esaurito il delicato momento decisionale, con la conoscenza di cosa è bene fare, si deve poi agire prontamente. Questa terza – e ultima fase del procedimento prudenziale – non è infatti sinonimo di indefinito temporeggiare o abilità di non prendere posizione, come, oggi, invece si predilige. Al contrario, una volta che si è deliberato, l’azione deve seguire rapidamente perché, dopo la decisione, possono subentrare impedimenti emotivi – come la paura – che rischiano di mettere in discussione, senza motivo, la buona decisione. Per questo, tutti gli studiosi dell’argomento – Aristotele e Tommaso in primis – sono concordi nel rilevare che la prudenza delibera a lungo, ma esegue con sollecitudine quanto deciso. Deliberazione lenta e decisione veloce: questi sono gli ultimi pilastri della successione nella procedura prudenziale. Con l’avvertenza che, se non c’è certezza nei primi due momenti, allora si deve attendere perché mancano gli indispensabili elementi di riferimento. I maestri di saggezza pratica insegnano poi che, una volta agito, non ci si deve più arrovellare né angustiarsi tornando continuamente a riflettere su ciò che è stato deliberato e compiuto prospettandosi più e più volte eventuali pericoli facendosi, all’opposto, tranquillizzare dalla convinzione di avere, a suo tempo, ponderato tutto a fondo. La prudenza è la virtù più necessaria per la vita umana. Epicuro la ritiene addirittura più importante del filosofare, almeno nel senso che la filosofia indica quali sono i bisogni dell’uomo, mentre la prudenza è la guida più efficace per raggiungerli. Occorre dunque ritrovare la prudenza, nascosta da qualche parte. Com’è ovvio, la prudenza ha però nemici potenti e perfino mortali che si denominano impeto, fretta, precipitazione, impazienza, insofferenza, sconsideratezza, avventatezza, che, a ben considerare, altro non sono poi che altrettante forme di imprudenza. Avversaria feroce della prudenza non può infatti essere altro che… l’imprudenza! Il massone, per sua natura e abito mentale frutto della preziosa educazione ricevuta in Loggia, è, per definizione, un uomo prudente, se, per uomo prudente, si intende, così come si deve, non solo l’uomo che opera bene, ma anche un uomo che compie il bene in termini giusti, frutto, dunque, non di un impulso o di una passione, ma di una decisione retta, nel bosco umano aperta soprattutto alla fratellanza e alla solidarietà. Specie quando, come è purtroppo nel febbrile presente, la Luce si fa avara e l’ora rapidamente si annera.